Marcello Carlino


Di alcuni movimenti della scrittura di Cacciatore

Cacciatore La poesia di Edoardo Cacciatore non può che essere riferita ad una costellazione di idee, e ad un conseguente, arduo viluppo euristico, che appaiono profondamente implicati nella logica e nelle forme della scrittura, condizioni o impulsi del suo determinarsi, “itti” e ritmi del suo distendersi.
Sappiamo, per intanto, come non siano ammesse riparazioni: con ciò volendosi dire che pensare la congerie o gli sparsi relitti dell’esistente in conformità ad una tensione di possibile approssimazione al vero, pensarli con impegno gnoseologico e con responsabilità morale, sconsiglia e oppone divieto a compiti di rammendo, di ricucitura degli strappi, di surrettizia composizione delle contraddizioni. Sconsiglia e oppone più severo divieto, nel mentre, a compiti risarcitori che la poesia sia tentata di assumere, candidandosi a rifugio, a presidio o protocollo di linimento, a riparo. Che per questo la poesia di Cacciatore non si mostri ottemperante alla tradizione egemone nel Novecento letterario italiano ed europeo, nulla recando a conforto del canone che per essa può essere supposto, e che, inoltre, metta a repentaglio il senso comune dell’estetico come teorizzazione e codificazione della separatezza dell’arte, tenuta pertanto a strettissimi, prescritti vincoli di mandato, ciò mi pare sia da giudicarsi assodato e si debba appunto al diniego, reso forte dall’oltranza dell’impegno filosofico e conoscitivo, al diniego di qualsivoglia esercizio riparatorio delegato all’arte. Sappiamo anche che l’insufficienza e la resa gnoseologica, l’improduttività conseguenti ad una prassi di riparazione sono radicalmente motivate dalla dinamica, che non consente rimedio, e che è bene sia tenuta in conto nelle sue esplicazioni e nei suoi indotti, dell’alterazione.
Comunque e dovunque sia inscritta l’origine del concetto di alterazione in Cacciatore, che plausibilmente trova un suo input nella filosofia presocratica, quel che appare certo è che si tratta di un concetto-chiave, un cardine vero e proprio nel “sistema Cacciatore”. E quel che è certo è che un concetto che, liberandola da tentazioni riparatorie, organizza e struttura la poesia di Cacciatore secondo il principio di un corrispondersi tutt’affatto sinergico e corresponsabile di filosofia e poesia. La filosofia di Cacciatore coagisce, infatti, con la poesia; e non è senza darsi, né prima di darsi, né fuori dal darsi, in scrittura letteraria. Quella di Cacciatore è filosofia per la scrittura, e dunque la sua è scrittura di pensiero, è poesia pensante. Altra cosa, anche questo sappiamo, da quanto si intende, seguendo i dettami della moda debolistica, per pensiero poetante.
E allora sappiamo essere motto convenientissimo a Cacciatore quello che recita: “Ad oltranza, tutto è in preda all’alterazione”. Tutto diviene ir- 31 reparabilmente, senza riparo tutto è per essere altro (Cacciatore nella sua grammatica filosofica e poetica assegnava un ruolo di speciale rilievo al participio futuro, alla perifrastica attiva): e dunque le cose, mentre vanno modificandosi, portano il segno, un segno pubblico di una responsabilità politica e civile consapevolmente deliberata, il segno del nostro intervento e del nostro concorso nell’attività senza riparo in cui tutto diviene deformandosi, modificandosi. Perché l’alterazione in Cacciatore non è metafisica regola universale che prescinda dalla storia del lavoro e della prassi dell’uomo e si applichi nonostante tutto iuxta propria principia, così che al saggio non resta che osservarne da lontano, come ataratticamente, epifenomeni e risultanze i quali sono esiti di un processo meccanicistico, al dunque preordinato e invariabile (per paradosso l’esatto contrario dell’alterazione); è invece intreccio nel quale stanno leggi biologiche comuni ad ogni ente, soggiacenze dell’essere al tempo, ma anche concorsi e contrasti di energie, e influenze di pratiche sociali e politiche, e modelli e valori di rappresentazione, e scelte volta a volta operate ciascuna con il suo potenziale e con il suo orientamento di alterazione. Alterazione è un concentrarsi di forze convergenti in conflitto; è la logica stessa del conflitto nel suo prodursi: non a caso ‘responsabilità’, o uscita dalla clausola di un proprio arreso ed avulso consistere, sono lemmi o sintagmi spesso usati nelle opere di Cacciatore.
Ora, Cacciatore è poeta che non ritiene la scrittura esente dall’impegno di una grande narrazione. Responsabilità vuole che essa si dia a rappresentare (così evidenziandola al pensiero e pubblicandola, ma così fornendole il proprio consapevole apporto), si dia a rappresentare l’alterazione che è la qualità e la possibilità dell’esistente e la ragione stessa di una chiamata di responsabilità per l’uomo. E l’istanza di una grande narrazione prescrive un assetto e una tenuta per i quali la rappresentazione possa consistere così focalizzando l’alterazione; prescrive l’estensione di una clausola definitoria: il contrario della alterazione.
La struttura da opera organicamente conchiusa tra prologo e epilogo, con la retorica della argomentazione ben in aggetto; la forte complessione drammatica per cui il testo sembra essere costruito immancabilmente per la voce; l’intonazione asseverativa, in virtù della quale una voce fuori campo (come inalterata, come in salvo dall’alterazione) pronuncia i suoi assiomi mostrandosi certa del suo dire; la dimensione illocutiva che sembra toccare i predicati e volgerli in azione; l’apparato della versificazione e il padiglione dei tropi figurali perfettamente allestiti; il piglio profetico che distingue la scrittura: sono altrettanti segni di una volontà di grande narrazione trasferita nel testo poetico e nelle sue forme. Che il registro dello stile sia alto, che ci sia una marcata inclinazione al sublime, anche questo mi pare si debba riconoscere. Riconoscere, appunto, come caratteristica di una intenzione di grande narrazione usata a mettere in forma, tra filosofia e poesia, ininterrottamente l’alterazione.
Epperò, mentre è tenuta a questo compito, che la pone come a distanza e quasi in salvo dall’alterazione, la scrittura non può pensare di sfuggire alle sue grinfie. E di non uscirne in qualche misura toccata, lacerata.
Il XXII sonetto della Puntura dell’assillo ne dà avviso: Nel vento si squassano palme a dirotto / Ma il fusto ogni volta quell’impeto tollera / Sostiene la furia non è al di sotto / Fa cenno d’indulgere all’ilare collera / Ed anzi partecipa a tale banchetto / Di ire che vengono e vanno per l’aria / Sornione il fusto sta lì tutt’eretto / Buriana alla fine cadrà strafalaria / E il fusto continua intanto a slanciarsi / I rami nel vento son sì ricompensa / Che premia arcivivi e i presunti scomparsi / A scaglie incolonna corteccia ed è intensa / Afferma quel fusto che pure si caria / Sgomento è buriana la più strafalaria.
Come il fusto ferma, la scrittura regge l’urto dell’alterazione per poterla rappresentare; come il fusto cariata, la scrittura è scossa e sopporta un’alterazione che non la risparmia. La scrittura fa mostra di essere, deve far mostra di esser fuori dell’alterazione, mentre pure conserva la lucida coscienza di esserne dentro, di non poter esserne che dentro. La rappresentazione dell’alterazione chiede che l’alterazione sia posta a distanza, e distinta come cosa che si abbia agio di riprendere panoramicamente, conchiusa, posseduta, controllata (buriana perciò strafalaria); ma non può che supporre e scontare che l’alterazione si porti sulla rappresentazione e la contagi, la cari. E così la scrittura sta tra rappresentazione e ir-rappresentazione, poiché anch’essa, ad oltranza, in preda all’alterazione. Ed è cosa di portata più ampia dell’uso cacciatoriano, di cui pure sappiamo anche per diretta testimonianza d’autore, di contraintes con funzione di caricamento dell’energia della scrittura.
Ebbene, a me pare che tutta la forza e l’impegno, anche civili e politici, della poesia di Cacciatore stiano in questo incrocio, in questo tour de force ideologico e di poetica, in questo rovello; e che da esso, come dall’interferenza di tre attivi campi di forza, partano alcuni movimenti della scrittura che è particolarmente utile descrivere. Non si tratta semplicemente di dislocazioni linguistiche da cui siano ricavabili marche di stile, si tratta invece, più propriamente, di movimenti semantici che, sotto la frusta dell’alterazione di cui ogni cosa è preda, la scrittura sopporta e accumula e inscrive in sé nel lavorare dialetticamente, nel disporsi bifida: nel voler ritrarsi dall’alterazione per assicurare la dicibilità e la rappresentazione e, contemporaneamente, nel non poter che, nel sapere che è necessario incontrare l’alterazione che la scuote e che la caria.
Primo movimento. Movimento rettilineo con successivi avvitamenti periodici da cui riprende e rinforza la sequenza. E cioè: il testo procede e si sviluppa, ammettendo il riuso di alcuni elementi o nuclei, su cui si torna come in una riconsiderazione-riflessione e da cui si riparte secondo le dinamiche della ininterruzione, ovvero di una dialettica che non si chiude o di un interminato sillogismo imperfetto. Entro questo movimento trova posto la gradatio che in Cacciatore, si sa, è un refrain strutturale. Un esempio, tra i molti possibili, dallo Specchio e la trottola (1960), esattamente dalla nona “Insinuazione”, intitolata appunto allo Specchio: Profonda foce di facce superficie / Che ne sai tu dell’alfa e dell’omega / Chino sul sito cheto / Nessuno ha più radice // Comincia il viaggio vero ora ci strega / area dove non sporgono edifizi / Strumento di figure / Rugose senza una piega. Qui gli avvitamenti hanno luogo sopra la figura dello specchio lungo l’asse segnato e distinto dai sintagmi “di facce superficie”, “sito cheto”, “strumento di figure... senza una piega”, i quali scandiscono e rilanciano un percorso uguale, ma volta a volta incrementato e perciò diverso, in cui lo sradicamento e la mancanza di orientamento definito (“che ne sai tu dell’alfa e dell’omega”, “nessuno ha più radice”), il venir meno di coordinate certe (“area dove non sporgono edifizi”), e il viaggio come quête si producono in successione, mosse dalla dialettica di profondità e superficie di cui lo specchio è il medio e il limite (“Profonda foce di facce superficie”, “Rugose senza una piega”).
Movimento secondo. Movimento rettilineo con frequenti spostamenti laterali e determinazioni di linee-traccia semantiche svolgentisi in parallelo. E cioè: il testo lascia partire a brevi intervalli delle sequenze come traccianti che sembrano destinate a non incontrarsi e che rendono testimonianza del diversificarsi dell’esperienza e della disforia da alterazione. Un esempio da “Si parte” in Ma chi è qui il responsabile? (1974), pronunciato da una voce che è detta non per caso sfuggente: La luce è incenerita e con penne di starna / l’uomo antico tenta che ancora in noi si spaccia / Spaesato e in alto esala soffi e si scarna / Inerme – Tanto ormai chiuso è il tempo di caccia / Crampi ha l’indugio l’interferenza una macchia / Molestia e pregusta uno spiraglio a speranza / Ma partenza è organica l’uomo si stiracchia / Calcareo il cielo pavimenta questa stanza / Televisivo alibi tic radiofonico / Sfrena il Caso e gli intimi trucchi scocca in marcia. Ed è chiaro come, ricevendo impulso ancora dal motivo del viaggio, che ha funzione solo in parte unificante, la scrittura segni ed evidenzi itinerari che si distinguono l’uno dall’altro in ragione dei tempi e degli spazi, degli strumenti e delle marche storiche e culturali, della concretezza dei riferimenti e della astrattezza di alcune argomentazioni, sicché lo spaesamento, in quanto sistematico dislocarsi e porsi altrove, o scambiare di binario, innerva la scrittura.
Terzo movimento. Movimento convettivo disforico scatenato da incalzanti inversioni di marcia. E cioè: il testo accetta di lasciarsi prendere in una dinamica in cui spinte centrifughe e spinte centripete concorrono e fanno vortice, gorgo. Un esempio si rintraccia nella serie dei “Lavori” ancora in Ma chi è qui il responsabile: Se rende l’idea... / La sguinzaglia che ringhia / Per l’eccidio dei pezzi dove si crea / Metempsicosi bucherellata a cinghia / E in corsa piena / È un recapito di trapassi che comunica / Di larva in larva al tormento di quei singoli / Lo sbozzolo di un’unica / Farfalla con cingoli / Ghiotta a cancrena. E si guardi alla corrispondenza biunivoca, nel segno della crudeltà, dell’eccidio e della metempsicosi dissacrata e dileggiata dal trasferimento di nomina per cui è chiamata a designare metaforicamente la vorticosa trasformazione dei pezzi alla catena di montaggio: corrispondenza i cui effetti cinetici e destrutturanti risultano dallo scontro con la forza compressiva dei macchinari resi attraverso metafore animali riferite al tema del controllo, della guardia, della chiusura: “La sguinzaglia che ringhia”.
Movimento quarto. Movimento rettilineo con diversioni di controcanto, ovvero figura di gambetto. E cioè: assecondato da un’acconcia disposizione del verso nella pagina, o da un’adeguata voltura visiva della forma del testo, lo sdoppiamento della voce si incarica di distrarre il primo livello dell’enunciato alterando la dinamica dell’enunciazione: Nòcciolo della voglia / sbucciato puntiglio / Mille accumuli fosti / sei ecco il lesto / Cavatappi nel sughero / a rotolo il sigaro / Brusto in fretta quel rivolo / di sangue sul tavolo (e questa è “La cosa nuda e cruda” ai cui effetti collabora l’effetto-scivolamento determinato qui dagli sdruccioli).
Quinto movimento. Movimento rettilineo orizzontale con picchi e cadute, inerpicamenti e sprofondamenti in verticale dati una o più volte. Funzionano così la terminazione ripetuta tante volte quanti sono i versi e la rima identica che alle lunghe non si avverte più come rima ma come momento di irritazione euforico-disforica della semantica del testo: in “Il nastro trasportatore”: Svegli o in coma cuccagna è l’esterno / Qui a ore ti ha assunto l’esterno / per inciso trattieni l’esterno / Su pel corpo ti espandi all’esterno / Giù giù in te risprofondi all’esterno / Frughi l’intimo e trovi l’esterno (ed è sintomatico che svolga questa funzione di stimolazione e di deviazione un semantema come ‘esterno’). Dove l’esterno sta ogni volta a rammentare quanto, essendo fuori della poesia, costituisce il limite della poesia, che non può presumere di non conoscere e non avere altro al di fuori di sé. Limite e anche ricchezza, o fertilità politica di alterazione.