Donato Di Stasi



Edoardo Cacciatore: la talpa perfetta
ovvero il ritorno di Alonso Chisciano


Non leggere è l’imperativo categorico di quest’epoca filistea. Rendere abitabile la città di Steiner, dove i libri sostituiscono vetro e cemento, ma rimangono struttura, o fondale: questa è la meta.
Nella logica dell’accumulo ci si convince a comprare di tutto (in specie letteratura primaria, id est romanzi da comodino notturno e da bagno), ma non si ha tempo per leggere nulla. Figurarsi trovare interesse alla letteratura secondaria (i saggi, sic!), meno che mai alla letteratura terziaria (la poesia- poesia), scritta da esseri totalmente imprendibili, impossibili da ridurre a una comoda casella interpretativa. Edoardo Cacciatore è registrato quale vittima eponima di questa città senza finestre e senza occhi, appunto perché si presenta come un autore spigoloso, speculativo, spoglio di mediocrità e votato all’eccellenza (è risaputo come nelle patrie lettere si disprezzino i talenti e si promuovano larve e lemuri dell’intelligenza).
Il poeta palermitano/romano, 1912-1996, esistenza borghese da intellettuale open, autore di La restituzione (1955), Lo specchio e la trottola (1960), Ma chi è qui il responsabile? (1974), La puntura dell’assillo (1986), Graduali (1986), rappresenta con dovizia la classe degli ignorati: come creatore e scrittore raffinato riesce ancora più odioso perché ha colto i segni non consolatori del suo tempo, ha ucciso con la sua scrittura l’epigonismo, alzando una voce finalmente nuova, arricchita e amplificata da una rutilante pluralità di linguaggi, che ne hanno nello stesso tempo decretato perifericità e inattualità.
Cacciatore non ama gli imballaggi testuali già usati, i rantoli e le bave liriche, i falsi compendi da contemptus mundi; la sua visione del mondo si espande e sprofonda dentro se stessa, fruga l’intimità delle cose, la fisicità in loro contenuta: vorace, scava e divora la superficie del reale, autorecluso e eterorecluso nel sottoasfalto dove la contemporaneità accumula i suoi resti, le reliquie, gli avanzi, i pensieri indesiderati, le concezioni pericolose per la piattezza e la banalità imperanti.
Per sopportare la sua condizione tragicomica, Cacciatore si è infeudato in un sottomondo allo scopo di verificare in medias res la continuità di fondo della realtà: percorrendo i suoi testi si percepisce costantemente la dolorosa sensazione di un viaggio nel ventre urbano tra strappi di senso, vite sgangherate, dissonanze in prima e in ogni persona.
Cosa succede quando la talpa esaurisce i cunicoli e anela la risalita per stabilire la posizione raggiunta rispetto al sopramondo?
Dissolte le nebbie e gli aloni delle calcolate e fantasiose gallerie metapoetiche scavate, la talpa osserva intorno a sé l’estendersi della Palude Definitiva, la disseminazione del divino, la polverizzazione di ogni metafisica; non le resta che procedere snodandosi attraverso i frantumi di tutte le mitologie, dove la materialità infuria con la temibilità dei principi che non ammettono contraddittorio e riducono sentimenti e emozioni a forme di mera pensabilità.
Si entra nel gheriglio della testualità cacciatoriana, se si comprende che la lessicografia del divino non appartiene più alla civiltà occidentale, in perpetua decadenza, e che una nuova dominazione si impone, nuovi demiurghi si profilano all’orizzonte per celebrare le sopraggiungenti ritualità, a cui nessuna organizzazione sociale può sfuggire.
Per metamorfosi culturale la talpa soffia nelle sue carni e esplode nella figura protodonchisciottesca dello scrittore (l’Alonso Chisciano del titolo) che elabora una concezione agonica della lingua, progetti concettuali, passione e presenza civile, esattamente il contrario del funzionario culturale di successo con largo seguito di giornaletti letterari à la page, innocuo e sentimentale, perennemente alla ricerca della ‘favola bella’ che stringa i cuori in un unico afflato.
Cacciatore raggiunge il vertice della sua produzione con il volume del 1960 Lo specchio e la trottola, strutturato in tre parti: “libido sentiendi”, “libido sciendi”, “libido dominandi”, i tre drammi del desiderio messi a confronto con la crescente massificazione delle coscienze (lo specchio) e con la folle accelerazione impressa alla vita esteriore produttiva e alla vita interiore opacizzata (la trottola).
In quest’opera acuminata e dirompente rimarca la dissoluzione del concreto e il massiccio ricorso alla mediazione a ogni livello ( sparito il rapporto diretto con le cose, limato l’attrito con il mondo, resa impossibile la conoscenza effettiva dei fatti d’esperienza), così da costringere l’individuo a vagare in una Mancia desolata e brutale, afflitto da infinite interpolazioni, terrorizzato da tutto ciò che non venga avvolto da un velo di Maia di falsità e edulcorazione.
L’obiettivo di Cacciatore è giocare la stessa partita del sistema che succhia realtà e fornisce surrogati, ma a regole rovesciate: moltiplica i piani del reale, ricorre a un eccesso di complessità retorica e ricercatezza lessicale, spinge il discorso poetico a un’apparente e assurda indecifrabilità con il dichiarato proposito di mettere a nudo l’inganno: tuttavia la sua poesia superficialmente oscura, ermetica, priva di chiari connettori di significato, non è altro che alterazione ironica, interrogante spinta contro l’élite culturale che pretende di imporre omologazione rassicurante per tutti gli aspetti dell’esistere.
Cacciatore struttura le sue catene compositive sulla pseudomediazione, lamentando la rinuncia alla nominazione, avvia rulli semantici di incredibile potenza evocativa, recupera oggetti desueti, oltre che parole tramortite e cancellate: contrasta il dominio dell’esprit de géométrie esasperando gli apporti metaforici e analogici, secondo un concettuoso canone barocco che finisce per scoraggiare qualsiasi voltatore di pagine non disposto a intalponirsi in questi versi abissali, non ancora pronto a raccogliere i vessilli dell’umano piantati ai confini delle Regioni del Silenzio.
Si spiega il rifiuto totale da parte di Cacciatore dei testi chiusi, ben confezionati (incipit a effetto, explicit da fazzoletto), aromatizzati all’orfismo o all’avanguardismo, che non contengono e non servono a nulla, se mai la poesia debba servire a alcunché.
Il testo poetico non è autosufficiente, né autoreferenziale: ha bisogno di profili progettuali, di emozioni vissute, di passione comunicativa, senza confondere la comunicazione con la semplificazione, o peggio con la sciatteria, con la volgarità, o con gli slogan. La poesia non è e non può essere marketing a nessun livello (Cacciatore non lo conosce e non lo legge nessuno, ma dei 42 milioni di libri venduti in edicola nel 2004, quante centinaia ne saranno lette?)
Cacciatore inforca una dolente/gioiosa poesia didascalica, nel senso etimologico del termine: salvaguarda la funzione/finzione del linguaggio, infischiandosene delle vaghezze e delle illuminazioni novecentesche; assomma nei suoi testi la consequenzialità del pensiero poetante, non la giustapposizione cialtronesca dei frammenti; fa gustare in ogni suo libro (disarmante e impervio dalla prima all’ultima pagina) armonia diffusa delle parti, ritmo incalzante, movimento intelligentissimo dei tropi, simmetrie scovate alla quarta, quinta lettura (quando va bene). Cacciatore sale al proscenio indossando i panni dell’ircocervo talpa/alonso chisciano, scava e sillogizza prima di delirare da don chisciotte inascoltato e segregato nella città dei non lettori: se d’inverno o d’estate (le stagioni più propizie), un lettore qualsivoglia si ripromettesse di annodare i fili sotterranei di questa poesia, avrebbe molto da capire della nostra civiltà ormai adulta, ammalata di una decadenza che continua a decadere voluttuosamente, morbosamente, senz’ansia veruna di finire sul serio. P.S.

Contravvenendo alle usuali regole che disciplinano la letteratura seconda, l’estensore delle presenti note non ha di proposito citato righe o strofe del Nostro, per le ragioni che lacerti di versicoli non gli darebbero giustizia e che Cacciatore va letto verticalmente (da cima a fondo) dal vivo, benché morto e dimenticato.