Giulio Ferroni
Il discorso a meraviglia o la poesia degli oggetti
Poeta atipico nella letteratura italiana del Novecento, estraneo a tutte le linee
e tendenze che in essa si sono variamente affermate e succedute, Edoardo Cacciatore
(1912-1996) sfugge ad ogni classificazione, ad ogni possibile appropriazione da
parte di gruppi o di orizzonti programmatici.
La sua è stata un’esperienza del tutto solitaria ed atipica, frutto di un’iniziazione
personale che ha qualcosa di misterioso e di strano che trova forse le sue radici
in una singolarità tutta siciliana: essa fa pensare all’ostinazione e alla
passione che ardono molti intellettuali della sua terra, che li spingono alla
ricerca di “verità” e di espressione al di là di garanzie istituzionali,
al di là di complicità con società e gruppi letterari precostituiti. Davvero meritoria
e coraggiosa è stata l’iniziativa di un ‘piccolo’ e appassionato
editore, come Piero Manni di Lecce, che ha raccolto, a cura e con presentazione
di Giorgio Patrizi, e con un saggio di Florinda Fusco, Tutte le poesie di questo
poeta difficile e appartato, dalla cultura vasta e segreta, in cui giocano un
ruolo essenziale, come sottolinea Patrizi, “filoni inusitati della cultura
occidentale – come quello della poesia mistica”, e i “grandi
temi della filosofia greca classica”, dal “vitalismo eracliteo”
alla “cosmogonia pitagorica” (senza trascurare il fatto che a tutto
ciò si aggiungono un vivo rapporto con il pensiero fenomenologico ed esistenzialistico
e non marginali conoscenze della scienza contemporanea).
Chi ricorda la persona di Cacciatore e ripercorre la sua vasta opera vede delinearsi
un’immagine di una saggezza che si direbbe “rinascimentale”,
riconosce la figura e ’opera di un “sapiente” intento a cercare
il senso profondo delle cose affidandosi alla pura forza della propria mente e
del proprio ingegno, alla propria capacità di interrogare e combinare parole econcetti.
È come se Cacciatore abbia voluto incarnare “da dopo”, nel Novecento
desacralizzato, lacerato e senza più dèi, quella dedizione totale all’indagine
sulla realtà, sui suoi fondamenti materiali, sui suoi movimenti e sulle sue trasformazioni,
che ha caratterizzato alcuni sapienti, filosofi, maghi, libertini nel volgere
della storia europea tra Cinquecento e Seicento (e primo fra tutti viene in mente
Giordano Bruno, del resto particolarmente amato da Cacciatore). C’è qualcosa
di ‘ermetico’ e di iniziatico in questo poeta, ma in senso tutto diverso
rispetto all’orizzonte dell’ermetismo poetico novecentesco e della
tradizione mallarméana e simbolista: egli non è un sacerdote dell’analogia,
non mira ad una conoscenza misticheggiante, non cerca profumi segreti né essenze
inebrianti, non indugia nel contemplare sfumati paesaggi; non ha di mira qualche
aldilà del reale, ma piuttosto una conoscenza capace di penetrare dentro la realtà,
di percepirne la sostanza più viva e profonda, di toccarne l’evidenza materiale,
di ritrovare tutti i fili, nascosti ma corposi e concreti, che legano tra loro
gli oggetti. Si può certo dire che la sua è una “poesia degli oggetti””:
ma il suo uso degli oggetti è molto diverso da quello del correlativo oggettivo
di un Eliot o di un Montale. Per lui non si tratta soltanto di far svolgere il
pensiero attraverso una successione di oggetti, di attribuire agli oggetti uno
spessore concettuale; egli tende piuttosto ad interrogare gli oggetti stessi,
ad avvolgerli, contornarli, sfiorarli, toccarli e palparli, fino magari a corroderli
con la parola e col pensiero, per afferrare la loro consistenza, per identificarne
fino in fondo il rilievo, la densità volumetrica e spaziale, la presenza inevitabile,
l’incombere sulla vita.
Attraverso la poesia Cacciatore ripete insomma l’operazione di quei filosofi
“libertini” che cercavano di “entrare” nella realtà, che
miravano a riflettere in se stessi il “senso delle cose”, che entro
la propria soggettività aspiravano ad una soggettività plurale capace di “catturare”
il mondo oggettivo: in una sorta di materialismo totalizzante, attento ad affermare
un rapporto integrale tra la fisicità del soggetto umano (e della stessa sostanza
linguistica) e la natura materiale del mondo. Perciò nella sua poesia si dà un
perpetuo, insistente, ossessivo corpo a corpo con la realtà: un interminabile
ragionamento ‘oggettuale’, un dialogo insinuante che accumula gli
oggetti verbali più svariati, più densi e corposi, più consistenti e artificiosi,
per prendere possesso degli oggetti reali, o meglio per registrare il dramma interminabile
della conoscenza, della ricerca della realtà, dei turbamenti e delle trasformazioni
che in essa hanno luogo, delle conquiste, delle derive, delle perdite, delle acquisizioni
e delle privazioni che la tramano.
Questo percorso di conoscenza può essere sintetizzato attraverso alcuni concetti-chiave,
che ritornano in varie combinazioni e con vari sostegni nel corso di tutta la
poesia di Cacciatore, nelle raccolte succedutesi da La restituzione (1955) a Graduali
(1986), che sono state come incorniciate, precedute e seguite, da due singolarissimi
volumi di prosa, L’identificazione intera (1951) e Itto itto (1994), mentre
poco dopo la morte è uscita l’antologia personale, costruita secondo una
scelta rigorosa, con il titolo Il discorso a meraviglia.
In questo percorso il pensiero e la parola si danno come risposta senza fine ad
un assillo che agisce sullo svolgersi stesso dell’esistenza, che ne ritma
e scandisce ogni attimo: punto di partenza e insieme di arrivo della conoscenza
è l’identificazione (di se stesso e della realtà), a cui si giunge attraverso
una ritirata dai consueti orizzonti. Il mondo si assimila attraverso un’alterazione
degli aspetti apparenti, in una circolare gradualità, percorrendolo e facendosene
percorrere, in una andatura il cui ritmo conduce alla riconoscenza. che della
realtà offre una restituzione integrale, che la fa altra dall’io e altra
da sé. Questo atto di riconoscenza si sviluppa entro un discorso a meraviglia,
in un andar dicendo, che proietta il soggetto verso l’esterno, e lo immerge
nel vortice dell’energia. L’unità si dissolve così nella molteplicità,
si espande in un orizzonte collettivo. Ciò si produce linguisticamente in un confronto
con tutta la tradizione culturale e con i volti più vari che presenta il mondo
contemporaneo, in una commistione tra ‘alto’ e ‘basso’,
in una serie di figurazioni allegoriche ed enigmatiche, e con una cura particolarissima
per gli artifici retorici, per le costruzioni e le invenzioni metriche: la poesia
di Cacciatore si svolge in una strenua ed eruditissima messa in opera di soluzioni
artificiose tipiche della più esasperata lirica manieristica e barocca.
Ma l’oscurità della materia e l’artificio della costruzione non sono
altro che il necessario corrispettivo di quell’assillante ricerca di riconoscimento
della realtà, del suo inestricabile sviluppo, di quel voler uscire fuori dell’unità
nella dissolvente molteplicità, di quell’affidarsi al vortice dell’energia
che percorre il mondo: come nei grandi barocchi, l’artificio è un offrirsi
alla sterminata vastità del reale, è uno strumento (forse l’unico strumento
possibile) per catturare la natura; ma, rispetto alle tendenze prevalenti nel
barocco, l’artificio di Cacciatore non conduce ad un movimento ascensionale,
ma ad una sorta di ingresso dentro il corpo oscuro delle cose, ad una specie di
abbandono alla deriva dell’energia, a quel clinamen con cui il grande Lucrezio
indicava la caduta e la deviazione degli atomi. In Cacciatore è in effetti particolarmente
forte la suggestione dell’atomismo antico, la traccia di un antico e addirittura
arcaico naturalismo materialistico. Con i suoi esercizi egli ci racconta, fino
all’ossessione, fino a creare un senso di spaesamento e di angoscia, la
vertigine e lo sgomento del voler dire, del voler prendere la realtà, del volersene
far carico, del farsene trascinare; quasi mira a registrare le alterazioni che
pensiero e conoscenza producono nella mente e nel corpo di chi è impegnato sulla
loro strada: Pensare è sorreggere i transili schianti/ Secondo l’assillo
che punge ove smania/ Il tatto vi avoca e lo modula in tanti/ Ribattiti espansi….
C’è uno schianto, una smania, una puntura, un toccar qualcosa, un battere
e ribattere, un aprirsi e allargarsi fisico nel movimento del pensiero, nel suo
stesso uscire fuori di sé: e c’è un inevitabile, assillante, anche se non
detto, confronto con
la morte, con la sua ineludibile incombenza. Anche questo ci dice la parola
enigmatica di questo poeta così difficile e singolare.