Alfredo Giuliani
Su Cacciatore
Il caso dello scrittore Edoardo Cacciatore (1912-1996) è il più strano che mi sia capitato d'incontrare. Sono stato il primo, e per parecchi anni il solo in Italia, ad azzardare una ricognizione critica del poema La restituzione, uscito da Vallecchi nel 1955. In precedenza l'autore aveva pubblicato un'opera in prosa, L'identificazione intera (E.S.I. 1951) che scoprii grazie alla segnalazione del mio prediletto libraio, Paolo Tombolini, e mi portai a casa insieme con il poema. Circostanza fortunata, perché quel libro si rivelò un formidabile aiuto. L'articolo che scrissi per “il Verri”, la rivista fondata da Luciano Anceschi nel '56, fu stampato l'anno dopo, nel numero 3 e risultò, tante erano le questioni sollevate dal testo, più un piccolo saggio che una recensione.
In quel periodo ero molto interessato a capire ciò che andava succedendo nella
poesia italiana (davo ogni tanto anche un'occhiata al mondo). M'ero
convinto che il prestigioso canone chiamato Novecento, vigente fino alla metà
del secolo, aveva smesso di funzionare. M'aspettavo mutamenti, novità
che erano nell'aria. E per quanto potevo partecipavo alla mutazione in
corso. Il silenzio che circondava La restituzione era stimolante.
Il poema di Cacciatore un'impronta nuova l'aveva di certo. Incurante
del canone, proveniva e andava da un'altra parte. Intanto, il lettore
doveva adeguarsi all'insolito impulso ritmico, dissonante e insieme colloquiale,
cadenzato in misure metriche chiuse; i versi erano punteggiati di rime non musicali,
non cromatiche, ma quasi intonazioni rituali di una liturgia laica, del discorso
a meraviglia, lirico-gnomico. E poi, per orientarsi, bisognava conoscere alcune
cose. Naturalmente, ciò che era utile allora, lo è altrettanto oggi.
Recentemente è uscita una raccolta di Tutte le poesie di Cacciatore già pubblicate
in volumi per lo più introvabili (Manni editore, pagg. 670, Euro 30). Il massiccio
evento è curato e presentato da Giorgio Patrizi con sensibile attenzione. Bene.
Ma c'è un punto, un vuoto che io continuo a trovare strano. Nel mio saggetto
del 1957, poi raccolto nel volume Immagini e maniere (1965 e 1996), parlando
della Restituzione alla luce del percorso mentale raccontato nella Identificazione
intera, avevo intravisto una traccia
molto attraente nell'inclinazione gnomica del poeta: “una sorta di radicalismo
orfico”. Questa traccia, che io sappia, non è stata presa in considerazione da
nessuno. Eppure m'è apparsa in seguito sempre più evidente.
Oggi lo dico più recisamente e tranquillamente: non si capisce l'essenziale
di Cacciatore se non ci si rende conto della sua ispirazione orfica. L'identificazione
non è stata più ristampata. Peccato, è una chiave quasi indispensabile per entrare
nella formazione dell'autore. È una forma stralunata di narrazione autobiografica,
scritta con meticolosa lena tra il 1935 e il '46; è il tormentato e incantato
resoconto di un viaggio filosofico-iniziatico verso la poesia. Ma ancora più
indispensabile è leggere una buona opera sui
misteri orfici (e di Eleusi e di Dioniso). Ottima è l'antologia di Paolo Scarpi
Le religioni dei misteri (Fondazione L.Valla).
Lampante stranezza di Cacciatore: nel tempo ormai lungo delle dissacrazioni,
aveva una concezione sacrale della poesia. Nato a Palermo da genitori agrigentini,
trapiantato a Roma all'età di cinque anni, siciliano nel midollo e cosmopolita
nell'animo, sembrava spuntare direttamente dalla Magna Grecia. Si può
avere fortissimo il senso del sacro, e non professare la fede in nessuna religione,
non credere in nessun dogma. Il senso del sacro di Cacciatore aveva le sue radici
nell'orfismo e, più in generale, nei ‘misteri' della grecità
arcaica. L'orfismo del poeta si concretizzava nell'atto mentale
del riscatto: “La realtà riscatto ininterrottamente”; “Ero
felice pensando che il nostro compito, dovunque, fosse di riscattare.”
Il nostro orfico non era affatto fuori dalla Storia. Le dedica per esempio un'intera
parte della Restituzione (un poemetto dentro il poema), nella quale agisce un
severo e disincantato sarcasmo. Ne cito un pezzetto finale: La storia ch'è
tra inferi e divi/ Non fa caso tra deboli e forti/ Nell'invidia bruciano
i vivi/ Nel pensiero bruciano i morti// La storia non ama i volitivi/ Né i rassegnati
alle proprie sorti/ Ama chi è come morto tra i vivi/ Ama chi sente vivo tra
i morti.
Ma badiamo bene, l'accento che risuona qui e in tutto il poemetto è l'interpretazione
orfica della Storia. L'apertura non è sarcastica. Anzi, è un invito solenne
a contemplare il confine impalpabile tra vita e oltre: Chiudi le palpebre dico
è per uscire/ Le vertebre volgi non è sonno di morte/ Territorio antico porte
senza infissi/ Segni prolissi ignudi muri di avorio/ Un ardire è in tutti improvvisamente
degni/ Caduchi i lutti nella mente rimane/ La fantasia ad essenza delle imprese/
Strane e la natura subito ha nostalgia.
Proviamo a leggere alcuni passi che non sembrano pretendere particolari conoscenze:
Momento in movimento senza tradimento/ Il giorno t'idoleggia e si sente
imperfetto/ Fa' che io intenda il tuo esempio disattento/ Che lo scempio
divulga a supremo diletto… /…/ Movimento un momento edificato in
tempio/ Il resto al tuo confronto che bigotteria/ Il passato il futuro hanno
le mani giunte. Ma nulla è pio od empio… /…/ Le idee rintoccano
se le cose toccano/ Ma il pensiero in verità non è mai vandalo/ Nascono parole
sono voglie che schioccano/ Irrefrenabilmente vien fuori lo scandalo/ /…//
Lo scandalo è qui in realtà vivere vorremmo/ Toccando il pensiero non le cose
che avemmo. Lo struggente desiderio di toccare il pensiero ci porta di colpo
a un frammento eleusino sull'iniziazione: “Il pensiero dell'intellegibile,
puro e semplice, attraversa l'anima balenando come un lampo, offrendo
talora per una sola volta l'opportunità di toccare e di contemplare.”
E a Dioniso, secondo l'interpretazione orfica, ci porta apertamente l'epilogo
della Restituzione: Dove sono i presunti inganni della vita?
/…// Ognuno ha in mano il suo specchio e la sua trottola/ Intorno al capo
il frusciare di una nottola.
Specchio e trottola sono tra gli oggetti o giocattoli rituali che compaiono
nell'iniziazione di Dioniso fanciullo. Il poeta concede a tutti anche
un simbolo d'altra specie: la nottola è uccello caro alla dea Atena, e
raffigura la ragione che domina le tenebre. Lo specchio e la trottola è il titolo
del successivo poema che apparirà da Vallecchi nel 1960. Si vogliono altre prove
della costante ispirazione misterica di Cacciatore?
Scatta da quell'ispirazione il gesto mentale che strappa fenomeni e pensieri
al senso comune e al rovinìo del tempo. In parecchi casi il lettore non è tenuto
a sapere niente fuori dai testi. Può semplicemente avvertire quel gesto, e tanto
basta. Cito parzialmente due poesie, sperando che invoglino i lettori bendisposti.
Questa luna che dice ad ogni cosa svèstiti/ La realtà svela ai sepolcri dell'Appia/
Nella luna di luglio due volte superstiti/ Al morto prima ed ai vivi poi ch'io
sappia/ /…/ La nullità consiste si fa pietra bianca/ /…/ Questa
luna in cui ora andiamo smarriti/ È la morte di cui ci siamo rivestiti.
Ha eletto te a sua patria l'indesiderabile/ Nell'intimo gli estranei
di cui sei fatto/ Ora sono Giuditta ora sono Oloferne/ Inebriati da quell'innocente
baratto/ Trasformano i pensieri in mani fraterne/ Non più il desideriovuole
cosa e cosa/ È l'indesiderabile in cui si riposa.
L'intero cursus animi dello scrittore è stato segnato dall'immane
elaborazione di un lutto, dalla forsennata contesa col pensiero della morte,
quell'estranea che ci indica “la strettezza del varco” e ci
esalta la vita. Quell'incompresa che ci sfida alla gara. Tutto è cominciato
con la morte improvvisa del fratello maggiore, ammirato e amatissimo, mito “indiscusso”
della sua adolescenza. Edoardo, sedicenne, ne è sconvolto. Spezzata quella sicura
immediatezza, tutto sembrava finire nel buio serrato, impenetrabile.
Leggiamo almeno poche righe di ricordo da L'identificazione: “Andavamo,
e sulle spalle inconsapevoli erano i drappi leggeri di tutte le civiltà. Solcando
le acque verdi dell'anima ti seguivo, e in silenzio entravi nei porti
vivi e operosi di tutte le epoche”. Qui, col passo e il silenzio dei due
fratelli, è evocato quel meraviglioso groviglio di tracce che è Roma, invitante
a stregate peregrinazioni nel visibile e nell'immaginario.
Dalla pena della crudele interruzione, Edoardo esce trasformato. Sente una voce
sorgere “dalla conchiglia della nuca”: E d'ora innanzi sarai
folle di ragione. “Da ragazzo estremamente estroverso – racconta
tanti anni dopo in un'intervista – divenni riservato, pensatore,
e da questo trauma profondo uscii con una certezza: “Ogni cosa è tutt'altra
cosa.” Così comincia il viaggio iniziatico ricostruito con qualche segretezza
nell'Identificazione intera (a cui da ultimo l'autore avrebbe voluto
aggiungere un sottotitolo più affabile e familiare: Andirivieni e rimpatrio).
Se l'inesorabile alterazione è un incitamento, la restituzione che la
vita fa di sé, pur nel suo crudele “spandimento”, è un atto di accoglienza:
hai il mondo in palma di mano. Il mondo ti comprende. Tu appartieni intimamente
all'Esterno. Che ci puoi fare? Tale pacata visionarietà della Restituzione
non è tuttavia la cifra risolutiva della poesia di Cacciatore. La visionarietà
dell'Esterno, che irrompe nel tuo pensiero e continuamente lo altera,
non può essere addomesticata.
La raccolta successiva, Lo specchio e la trottola, è discontinua. In molte
occorrenze sembrano prevalere intenzioni sarcastiche programmate. I
comportamenti del metropolitano “uomo moderno” sono fissati in metafore
caricaturali troppo spesso di scarsa evidenza o indecifrabili. La spinta orfica
dell' Identificazione s'è ingarbugliata. Ciò nonostante, un discreto
numero di poesie, più ispirate che programmate, merita ammirazione. Ne cito
appena un frammento superbo: Belletto a posto quando la tempesta tacque/ Senti
io credo tu credi all'adorno incesto/ Squarcio di cielo e quercia in un
orcio d'acqua/ Epoca a pezzi e non temo – meno mi piace/ 'uragano
d'origine epigono in pace.
Col saggio Dal dire al fare del '67, libro piuttosto agile e sogghignante,
Cacciatore si costruisce una nuova piattaforma ideologica. Scopre il surriscaldamento
del mercato; la proliferazione delle cose “d'impiego consueto”;
il mondo dove le idee si squagliano dentro le cose, e i fruitori godono di una
“enorme somministrazione di trivialità”. L'avidità ha messo
le ali ai piedi. Tutto deve cooperare alle macchinazioni del Prodotto.
Sembra che nel libro si mescolino due pulsioni: l'una a smascherare la
nuova arrogante realtà del mercato, che col suo banale e luccicante terrorismo
diffonde “un'irradiazione straziante, quasi schizofrenica d'irrealtà”;
l'altra a esaltare le virtù orfiche e imprevedute del “corpo pubblico”
che è oggi il mondo dei consumatori. I corpi, anche se gli umani non lo sanno
chiaramente, vivono un fascinoso processo di liberazione delle energie, una
salvifica caduta di tutti i divieti d'accesso. L'orfismo moderno
di soppiatto rovescia le pretese del demonico mercato. Il poeta scopre l'orfismo
di massa!
Il poema totalizzante Ma chi è qui il responsabile? (1974) è una deriva del
curioso saggio del '67, frutto più della volontà che dell'estro
creativo. Stenta a farsi riconoscere. L'automatismo di cortocircuiti metaforici
sconcerta e annoia il lettore. Che fine hanno fatto le immagini e il discorso
gnomico? Sembra di sfogliare un catalogo di enigmi senza sbocco. Tra l'irridente
e il distratto, l'autore mi disse che per scrivere certe parti del libro
gli erano state utili le Pagine Gialle dell'annuario telefonico. Appunto.
Però
una decina di pagine me le terrei care: la lunga e divertente litania “Andatura”,
il delizioso “Transistor” e “Il giuoco si scatena”.
Dopo il deludente intervallo, l'inaspettato contraccolpo. Stavolta è di
nuovo in scena il pensiero e la voglia spasmodica di “toccarlo”.
Cacciatore è tornato ai lampi eleusini e all'orfismo dionisiaco. Ha riflettuto
a lungo, costruendosi una Fisica fantastica dell'Energia cosmica: l'energia
“zonzeggia” battito battito per l'universo, e il pensiero
ritorsivo in quel transito cadenzato vuole intrufolarsi.
Il dramma è raccontato per filo e per segno nel poema in prosa “Itto itto”,
pubblicato soltanto nel '94 (editore Manni). Potete leggerlo o no, fate
voi. Non è necessario per capire La puntura dell'assillo, cinquanta ed
un sonetto, smilzo libretto del 1986, che non riassume per niente il volumone
da cui scaturisce; ne esprime invece l'anima, ne spreme il succo. E lo
fa con ispirazione felice di essersi liberata dell'ingombrante fardello
(seicento pagine di fatica intellettuale pazzesca).
Il pensare inscenato nei sonetti è dionisiaco, è “adorabile coito d'amore”,
è “allegria”. Pensare è sorreggere i transili schianti/ Secondo
l'assillo che punge ove smania/ Il tatto vi avoca e lo modula in tanti/
Ribattiti espansi…. L'atroce divieto di uscire da sé non è mai abolito,
ciò il pensiero lo sa. Ma da qualche parte Cacciatore dice: a noi spetta “rendere
prensile quanto si altera”. La puntura dell'assillo ha un suo potere
di seduzione: induce il lettore (di poesie) a innamorarsi del proprio pensiero.
Toccare no. Una sfioratina, forse, fuggevolissima… potrebbe scapparci.
P.S. Mi sono stupito di non trovare nel libro Tutte le poesie edito recentemente
da Manni il poemetto “Pari e Patta”, scritto molto probabilmente
dopo “Itto itto” e certamente dopo La puntura dell'assillo.
Sono entrambi distillati dall'immane scrittura-investigazione di “Itto
itto”. “Pari e Patta” conta venticinque strofe di dieci versi,
le quali si accorpano in sei sequenze distinte composte di un numero di strofe
che va da 3 a 5. Direi che ogni sequenza è tematizzata nel verso della prima
strofa. Si tratta dunque di una composizione accuratamente architettata. “Pari
e Patta” è stato pubblicato due volte. La prima nel 1986, nel n.81 della
rivista “Alfabeta”. La seconda nel volume Chi l'avrebbe detto
(Feltrinelli 1994) con una piccola festosa variante dell'autore a me dedicata.