Mario Lunetta
La permanenza della catastrofe
Sulla scrittura problematica di Edoardo Cacciatore
È raro imbattersi, specialmente in una letteratura come la nostra impregnata
nel profondo di difficilmente biodegradabili tensioattivi cattolici (e, più
precisamente, gesuitici – fino al limite di un profumo di lingua di chiesa
che per esempio nel Manzoni de I Promessi Sposi e degli Inni sacri, testi in
questo senso capitali, è addirittura palpabile), in un autore che, come Edoardo
Cacciatore, sia al tempo stesso coltivatissimo e crudele: crudele nel senso
che la sua intransigenza di pensiero-scrittura non arretra dagli
esordi alla fine della parabola davanti a nessun arrangement diplomatico, a
nessuna mediazione da ciambellano e simili, per esplicarsi senza remore in tutta
la sua ardua ricchezza. Ho accennato al tema della crudeltà, intendendo sottolineare
col termine, o se più piace con la ‘categoria’, il nesso inestricabile
e interattivo che nella scrittura cacciatoriana, poetica e riflessiva, metaforica
e argomentante, stringe in endiadi lo spazio della fermezza e lo spazio della
pietà. Qualcosa, certo, di molto diverso dalla nozione di crudeltà di matrice
artaudiana, in cui la corporeità ha un ruolo protagonistico, fino a cancellare
tutti i tratti cerimoniali della rappresentazione, come mostra un frammento
di lettera che, nell’ultimo tratto della sua vita, Antonin Artaud invia
a Paule Thévenin (“…mi consacrerò ormai / esclusivamente / al teatro
/ così come lo concepisco / un teatro di sangue, / un teatro che ad ogni rappresentazione
avrà fatto / guadagnare / corporalmente / qualcosa / tanto a colui che recita
/ quanto a colui che vede / recitare, / del resto / non si recita / si agisce
/ Il teatro in realtà è la genesi della creazione”). È la torsione virulenta
e plasmàtica di una visione teàtrica ferocemente segnata da anni e anni di calvario
biografico. Qualcosa di molto diverso, sicuramente, in Cacciatore; e tuttavia
con più di un punto di consonanza coi manifesti
programmatici dello scrittore-teatrante francese, e ancor più esplicitamente
con quanto Artaud scrive in una lettera a Jean Paulhan del 13 settembre 1932:
“Questa crudeltà non è fatta né di sadismo, né di sangue, almeno non in
modo esclusivo. io non coltivo sistematicamente l’orrore. La parola ‘crudeltà’
deve essere intesa in senso lato e non nell’accezione fisica e rapace
che abitualmente le si attribuisce. (…) Dal punto di vista dello spirito,
crudeltà significa rigore, applicazione e decisione implacabile, determinazione
irreversibile, assoluta”.
In un libro come Itto itto (Manni, 1994), curato, con competentissima intelligenza
da Giorgio Patrizi, quell’inflessibile e ferreo sacerdote dell’Energia
carico di maschere barocche che è Cacciatore, afferma: “Gli eccessi dell’Energia
non sono una sregolatezza, sono gli appannaggi della sua privilegiata regola”.
Gli ictus, gli itti secondo lessìa cacciatoriana, sono i battiti della sua stessa
vitalità, si direbbe le pulsioni del suo caos. Renderli ritmicamente sintattici
è compito del poeta assegnato al Dipartimento
Pensiero, perché tanto, “l’Energia è sempre in salvo, lei”.
E ancora: “La libertà non è un passeggio arbitrario della degustazione.
È, per contro, un necessario gesto nell’esercizio della elaboratività
frenica. Questo perché, in realtà, non si è mai liberi. Privi di indipendenza,
– dal momento che si dipende dalla labescenza via via mentre essa si smuove
ed àltera, – ci si accomoda scrollo scrollo per sottrarsi agli incomodi
che ne seguono. Ma non ci si sottrae mai tuttavia all’accusa di cedevolezza
che ci muove la realtà durescente e durevole, la cui mole ci scorta a quando
a quando fino a quando non ci vessa con i suoi oneri al punto tale da demolirci”.
Quindi, leopardianamente: “La Poesia, quando riesce effettivamente tale,
seguita ad essere tònosi: rinforzo energetico a non finire”.
La crudeltà di certi autori è soprattutto nella loro irriducibilità. E bene
scrive Patrizi nell’introduzione a Itto itto, parlando dell’apax inquietante eeterodosso costituito dall’avventura della scrittura di Cacciatore:
“È noto come Cacciatore abbia pagato questo rigore di ricerca con la propria
rimozione dal repertorio dei classici, dei modelli ufficialmente riconosciuti
e legittimati dalla critica e dalla storiografia letteraria e come la recente
riacquisizione all’analisi e allo studio della sua poesia sia dovuto all’iniziativa
di generazioni di studiosi meno legate all’unicità rassicurante dei canoni
che ci aveva raccomandato una certa tradizione”:
In effetti, la sua prosa e la sua poesia, che lavorano da sempre su una tastiera
assolutamente interattiva e risultano perciò vicendevolmente inseparabili, conoscono
soltanto la cifra dell’implacabilità e dell’azzardo estremo, e starei
per dire manieristicamente estremistico; sono, alla fine, macchine tutt’altro
che dispensatrici di placamento ma piuttosto produttrici di disagio, centrali
generatrici di vuoto in forza della loro strenua costipazione e, perciò stesso,
di fastidio; qualcosa perciò di radicalmente opposto a
quella tendenza alla medietas, e magari al compromesso (linguistico e di senso)
così tipica del nostro parnaso otto-novecentesco, proclive sul suo versante
più ufficializzato, per stimmata genetica e per piccolo cinismo opportunistico,
al Lirismo Domestico (e addomesticato), al minimalismo del vissuto micron lievemente
patetico, o al finto maledettismo da passerella.
In linea drasticamente controtendenziale, Cacciatore è convinto – per
natura e cultura – che la poesia è un’ermeneutica della realtà;
e ancora, che è – com’egli stesso ha scritto una volta – “un
atto liberatorio, un soccorso conoscitivo che il poeta può prestare ai suoi
simili perché si è addestrato più di loro a capire la realtà. Che è feroce,
crudele, spietata e solo attraverso un viaggio graduale verso la totalità dell’esperienza,
alla ricerca dei nessi tra gli eventi, mossi da un impulso meta-razionale alla
conoscenza dell’essere del mondo, si può cogliere l’eternità di
un istante, si può affermare l’arìtmesi degli urti (itti, battiti) che
si rifrange e si placa nelle cellule del discorso”.
Egli ha perfetta coscienza del fatto che la poesia non è una particola, né contiene
alcun Corpo Mistico nel suo sangue di volta in volta pesso o sottile. Sa, invece,
che è un’esperienza continuamente in fieri, capace di mettere a dura prova,
nel suo prodursi in quanto organismo verbo-pensante, ogni certezza acquisita,
ogni pigrizia comodamente consolidata. Massimo feticcio dell’inerzia universale
è ciò che il poeta chiama in Itto itto, libro-diagramma dei suoi bàttiti mentali,
termometro delle sue febbri e dei suoi geli in esaltazione o in desolazione,
Senso Comune. È lì, appunto, la volgarità del banale sempre incombente: il fiato
greve emesso dalla conformizzazione gregaria, dalle varie inerzie della sottocultura
di massa, dall’omogeneizzazione delle diversità. “La Ragione, –
scrive Cacciatore nel suo libro dei bàttiti in perenne dibattimento, continuando
a praticare senza tregua quell’arte dei travestimenti che è in verità
messa in atto del principio del mutamento perenne, che in poesia egli esplora
senza pause sconnettendo gli assetti dell’abitudine e dilacerando al filo
di un logos sontuoso la divisa unitaria e organica che comunque indossa con
inesorabile convinzione – disponendosi nella sgombra vacuità dei suoi
circoli, rende vane le mene tortuose e tritanti del Senso Comune che di quei
ragionamenti difettosamente parziali aveva fatto taglieri a mezza luna per spicinare
l’ammucchio capitalizzato da un altro. In ogni caso, operi la Ragione
perlustratrice o no, se ne incaricherà sempre l’Alterazione, che è in
appannaggio all’Energia, a ridurre a tritume ogni abuso”.
L’Alterazione energetica del già saputo: come dire lo Scarto, la “mossa
del cavallo” cara a Sklovskij nei suoi anni Venti cubofuturisti. Il gesto
che non asseconda ma spariglia. L’affermazione del controsenso. Del diniego,
magari. Del rifiuto insomma di procedere nei vialetti rassicuranti della Vulgata
che di tratto in tratto si spande come una mareggiata sulla società e sugli
individui, in un bagno micidiale di ideologia. Cacciatore sa che la poesia non
eternizza niente: al massimo, quando la sua è un’energia possente, spezza
la continuità dell’enorme spessore di menzogna che avvolge e intride la
nostra esistenza, e che lavora ai livelli del minimo quotidiano come a quelli
dottrinari per farsi pura astrazione indimostrata e a suo modo assoluta. La
scrittura, che tradisce sempre la sua incancellabile contiguità all’ideologia
che comunque veicola, è paradossalmente anti-ideologica quando la propria stessa
ideologicità smaschera e mette allegoricamente in scena. Contiene il mondo ma
sputtana la sua falsa rappresentazione, grida la nudità del re e decapita i
feticci.
Cacciatore, che di questa pratica è maestro, sa con Wittgenstein che “ogni
spiegazione è un’ipotesi”. Per questo, la foresta del linguaggio,
quella foresta meta-barocca e così spesso spinta a un gelido diapason, la cui
voce plurale si ode e si gode lungo tutto l’arduo percorso delle scritture
del poeta, rilutta dal dare di sé un’immagine univoca, e comunque prefigurata.
Significherebbe dissiparne artificiosamente la giusta oscurità, ridurne la complessità
e la valenza di enigma. Da La restituzione (1955) a Graduali –
testi del 1954 riproposti dall’editore Manni nell’86 a cura di Filippo
Betti
ni, il quale individua con precisione la natura e la fisionomia della scrittura
cacciatoriana, quando osserva che essa “Si fa (…) poesia non solo
di mutamento ma di ‘ossimori’. E ossimorica si presenta la sua espressione
tutte le volte essa incorra in nuclei di ambivalenza, di contraddizione, di
concordia discors, che non cancella e non dissimula ma lascia, di colpo, affiorare
dalla scorza protettiva del mondo fenomenico”–; da L’identificazione
intera (1951) all’imponderabile Itto itto, la sopradetta foresta è per
Cacciatore il luogo della ricerca senza speranza e insieme il luogo di un precario
conforto: un conforto non banalmente catartico ma sprezzantemente pagato ad
altissimo prezzo intellettuale ed etico: una sorta di non-speranza del tutto
priva di narcisismi nichilistici. Quindi, ancora col filosofo del Tractatus
logico-philosophicus, “dissodare il linguaggio” per liberarsi dalla
stregoneria del sapere supposto.
“Ogni lingua ha un suo silenzio” dice Canetti. E la sonorità multitonale
della lingua poetico-filosofica cacciatoriana ha anch’essa i suoi silenzi,
come dire i suoi crepacci improvvisi che si aprono sotto i piedi del lettore
e gli mostrano ciò che mai i tepori della sua morbida attesa, o la gommapiuma
della sua routine mentale gli avrebbero prospettato. Un atto di violenza, certo.
Cioè, un atto di grande, democratica fiducia nell’onestà intelligente
di chiunque intenda misurarsi con le asprezze di un testo complesso, che configura
se stesso – pur nella sua catafratticità – come fenomeno di progettualità
aperta. “Lo spleen” osserva Benjamin “è il sentimento che
corrisponde alla permanenza della catastrofe”. Nel linguaggio fermentativo
e insieme densificato di Cacciatore, la permanenza della catastrofe è forse
il dato meno mutevole negli anni, nel corpo della sua straordinaria avventura
allegorica. La contraddizione va senza posa esplorata e regolata contro la sua
facies equivoca, fino a farla deflagrare. Questa è – da sempre –
la strategia del poeta della Puntura dell’assillo, il lievito ossessivo
del suo pensiero-forma. La stagnazione, l’ossificazione, l’orizzontalità
marmorea del
senso mistificato sono i suoi eterni, inconciliabili nemici. Alla loro ipocrisia,
Cacciatore – uomo di volto alato e di criniera leonina – oppone
la ricchezza del disordine. Il disordine dei segni, cioè il contrario della
loro confusione, può produrre chiarezze sempre ulteriori, da conquistare scontando
tutti i rischi della propria quête nel pànico aggrovigliato del Labirinto.
Perché quest’immagine repentina, a questo punto del mio modestissimo discorso
cacciatòrico? Per suggestione testuale, certo; ma anche, mi piace supporre,
per fascinazione metonimica suggerita dal trovarsi ubicata la casa del poeta
ai piedi di quello stupendo labirinto vegetale che è l’Orto Botanico,
sotto l’incombere del Gianicolo. Largo Cristina di Svezia 12: è qui che
Edoardo ha a lungo abitato con Vera Signorelli sua moglie, anche lei scrittrice
di conio non comune, coprotagonista – come ricordò una volta suo marito
– di quell’ ”incontro totale: sentimentale e intellettuale”,
che ha segnato una volta per sempre le loro vite. Ogni volta che sono entrato
in
quella casa, sempre m’è parso di ‘udirvi’ un silenzio intensamente
laborioso, la palpabile presenza di una concentrazione umana e poetica al tempo
stesso aperta al mondo e impermeabile: qualcosa di analogo, insomma, alla sensazione
che invariabilmente mi comunica l’Orto Botanico: di sconfinata luce misteriosa,
e di abisso.
Ha detto esattamente Alfredo Giuliani che un poeta come Cacciatore appartiene
a una linea purtroppo minoritaria e “perdente” sul piano dell’accettazione
e della risposta immediata, all’interno di una tradizione poetica come
la nostra, inguaribilmente impregnata di umori lirici e di frenesie patetiche.
“È paradossale – argomenta il critico nel 1957, a proposito della
Restituzione – la passionalità con cui Cacciatore tratta le idee. Nella
sua mente ogni pensiero diventa vivo, ma d’una vita pulviscolare, finché
non si
placa in alcune metafore resistenti, strumenti si direbbe, se a volte non apparissero
con una loro irriducibilità ontologica”. E Patrizi, in un’analoga
inclinazione di lettura, a proposito della Puntura dell’assillo, nella
nutrita presentazione del volume di Tutte le poesie (Manni, 2003): “C’è
un’attitudine speculativo-discorsiva nella costruzione della Puntura:
una ricca, barocca, organizzazione fonica supporta la ferrea articolazione del
procedimento riflessivo. Il piano semantico di queste composizioni, si vuol
dire,
mai si disgiunge da quello formale, né da quello di una connotazione del testo
all’interno di una tradizione del genere, del metro e del ritmo. I tre livelli
si intrecciano funzionalmente, valorizzandosi a vicenda e ricomponendo la
complessità di un’esperienza letteraria del tutto singolare”.
Quello di Cacciatore è insomma un timbro che fa del pensiero non un surplus messo tra parentesi e delicatamente rimosso, ma un dato sostanziale, una centrale
energetica, una catena di ictus per dirla con le sue parole, continuamente attraversata
dal prodursi vertiginoso della scrittura: che è – non solo in lui, ma
in lui in termini decisivi – un gioco strenuamente mentale, materiale,
metafisico, ad oltranza. Direi così che Cacciatore è nella modernità parte rilevante
di quella linea ‘dantesca’ che nella nostra poesia ha sempre avuto
vita difficile; è insomma della stessa famiglia di quei possenti animali del
pensiero poetante che si chiamano non solo Leopardi, ma prima di lui Bruno,
Campanella, Foscolo, e che anche nel Novecento, fino ai nostri giorni, annovera
autori di gran tempra. Tutti questi straordinari poeti hanno fatto del linguaggio
una ricerca inesausta che funzionasse non solo dentro se stessi, ma dentro (e
non di rado, contro) la realtà e i fantasmi mentali dell’individuo e dell’essere,
del vuoto storico e del senso. Realisti visionari. Inventori lucidissimi e fantastici
di ciò che si vede e di ciò che è occultato. Demiurghi della coscienza attiva.
Attraversatori impavidi di territori interdetti, e altro, altro ancora.
Cacciatore è uno di loro, e occupa nella mappa poetica dei nostri anni un posto
di prima grandezza. Ecco perché, allora, i suoi libri di poesia stricto sensu e i suoi libri di prosa teorico-filosofica fanno un corpus che va considerato
in modo unitario e interconnesso: non sono dei frammenti – e sia pure
dei grandi frammenti – che si possano valutare separatamente; in realtà,
fanno parte di uno stesso sistema, di uno stesso universo, quel leggendario
Universo Cacciatoriano così forsennatamente obliquo e così acutamente penetrante:
un cosmo che è sempre stato trascurato in patria, come il portato di un profeta
solitario e inassimilabile alla lingua della tribù; e che solo pochi intellettuali,
pochi scrittori ed artisti hanno saputo apprezzare all’altezza dei suoi
meriti. Non ci fa, tra l’altro, certamente onore il fatto che qualche
grande studioso straniero (un nome per tutti: Gustav René Hocke) si sia accorto
del valore del poeta prima di certi studiosi italiani: ma, si sa, la nostra
è una cultura in cui l’Arcadia continua a dominare quasi totalmente, e
all’interno della quale il discorso elegiaco-patetico riceve un ascolto
molto più forte di quello dotato di energia dialettica. Di questa
seconda specie è la scrittura di Cacciatore: aspra, irta, direi perfino marmo-rea
in certe sue formulazioni definitive e assertive, insomma lapidaria: ma al tempo
stesso, all’interno di sé scissa, frantumata, talora polverizzata come
cenere cosmica.
Si pensi, solo come un esercizio di campionatura minima, a riprova, al Proemium denso di enjambements che apre La restituzione: L’autunno romano dolcezza
e fastigio / Alle pietre restituisce all’aria il grigio. / Un silenzio
interviene denso di altri gridi / Nel tuo corpo ritrova radici amorose / La
felicità che è all’apice delle cose. / Nell’immaginazione il nero
mortifero / S’imperla di grigio si fa cielo signifero. / Non il crepuscolo
non l’alba che rivedo / Non è il sole smorto entro un bosco ceduo. / Questi
oggetti all’istante con tanta minuzia / Svelati all’alterazione
senza più astuzia / Nel chiarore senz’ombre innaturali nidi. / Torneranno
naturalmente a ripetersi / Amorosamente assentiranno a concedersi / Con simile
viso con somigliante impronta. / Ma a chi varrebbe riconoscere in un’onda
/ Quella che mortalmente trattenne un respiro. / Il solito eccidio sanno nel
lento giro / Tramonti e aurore insanguinati alle dita. / Né morte squallida
né arroganza di vita / Sullo sciame inarrestabile subito emersa / Novità inaudita
natività diversa.
Si pensi al fantasma dantesco esplicitamente evocato in citazione nell’incipit
di “Ridine è la libidine” carico di rimalmezzo, all’inizio
de Lo Specchio e la Trottola (1960): Voce d’ingorda voglia è questa ma
a chi parla / Una corda che taglia ov’è nient’altro il viso / Questa
voce e per stanza solo ha una soglia / Volontà di riso tanta su cui si staglia
/ E danza certo ora a darsi un contegno e canta? / Rìdine è la libidine incela
chi infesta / Festa è di mani recise che si stringono / Fuoco di fascina e per
giuoco sala è forno / Cotto il poco giorno il grande cerchio d’ombra /
Dall’interno già sgombra scala è all’aperto. / Di piede forcuto
che mi racconti e inferno / O uccelliera di orizzonti il paradiso / Altro avviso
nei plessi nervosi altra èra / Il seme ignari e il grembo e forse mai insieme
/ Quanto non fu per tremiti e fremiti sai. / Una furia mi trascina o hai mosso
un cingolo / Lotto di delirio da capo a piedi sembro / Filo di saliva tenuto
ancora a segno / Lascia la lingua e coli giù nella cenere / Venere dai riflessi
vedi farsi e Sirio. / Percosso ogni vincolo la carezza è esatta / Ti riposi appena ed il silenzio
ringhia / Si spezza l’attenzione i sogni marciscono / Uniscono a perdita
di mente le narici / Radici in tale fonda incuria feconde. / D’onde l’abbraccio
di sale mai scatta ed acqua / Lena unica è l’arbitrio che si dona / Ti
abbandona ti abbandona il laccio degli occhi / Pena al principio i rintocchi
delle tempie / A piacere infieriscono senza ritegno. / Avere in sé l’alito
d’altri ancora valido / La pietra invidia questo alla carne vorace / Empie
provarne le balze ad una ad una / In pace annettersi l’adagio sostenuto
/ Il silenzio ove sfuma di strage e fa testo.
Così, con questi sordi clangori e subitanei silenzi d’attesa, si snoda
il grande viaggio di Edoardo Cacciatore, fino ai cinquanta ed un sonetto de
La Puntura dell’assillo, attraverso libri come Ma chi è qui il responsabile? (1974) e il già ricordato Graduali (1986). E proprio dalla Puntura mi piace
estrarre due stupendi testi che costituiscono, in fondo, due tempi di una stessa
dichiarazione di poetica o, se si preferisce, di autobiografia letteraria in
dodecasillabi.
Fulmineità del linguaggio: Zonzeggia il linguaggio eppure obbedisce / Al fulmine
spiccio che coglie nel segno / Ci scaccia all’Esterno ma a modo di strisce
/ Scontorce le voglie e le affibbia a un congegno / Che ci esula intanto benché
sia pienone / Reciproco entra e caletta a collana / Quel tutto-esaurito un alt
propone / Flussìpede va la realtà e si sbrana / Linguaggio è tale perché da
una frotta / Intende ottenerne una docile fresa / Le voglie scontorce a forza
dirotta / In fretta per farne un cenno d’intesa / Va il fulmine ormai
che fu così spiccio / Su sillabe a zonzo non dà raccapriccio.
E ancora, Dà meraviglia: Benché sia mnemonico dà meraviglia / L’insieme
degli itti che incombe al mattino / Riapri i tuoi occhi dal sonno e ti piglia
/ Nel vortice suo lo svelto cammino / Al quale appartiene per forza vorresti
/ Deviare la rotta inventarti un altrove / Altrove è altrimenti di tutti i tuoi
gesti / Recenti le prove magari assai nuove / Annosa esperienza si fanno ma
avviene / Che gli itti in cadenza avranno altro posto / Ti orienti per dare
obiettivo al tuo bene / Spostato quel bene non c’è si è nascosto /
L’insieme degli itti è tale faccenda / Fa sì che il suo buio a un tratto si
accenda.
Lo stesso Cacciatore parla, in un libro come Carichi pendenti (1990) della necessità
che la poesia moderna “diventi, più e più, ermeneutica della realtà”.
E Giulio Ferroni, introducendo l’antologia personale che il poeta realizzò
per Einaudi, qualche mese prima della morte, ribadisce la natura della sua scrittura
in versi: una poesia-pensiero che elabora con assoluta coerenza la propria ossatura
e la propria fisionomia, “attraverso lo svolgersi di una parola che tende
ad identificarsi con il ritmo stesso della mente nel
suo rivolgersi al mondo: nell’orizzonte di una singolarissima mistica
laico-materialistica, che per l’appunto pone l’accento sul rapporto
perduto e sempre ricercato tra pensiero e realtà, che tende ad immergersi nel
mondo esterno, a riscattarne il significato sempre effimero e sempre definitivo
spontaneo è il rinvio da una parte alla linea democritea e lucreziana, dall’altra
alla tradizione ermetica rinascimentale, ai suoi esiti più laici e materialistici,
e in primo luogo a Giordano Bruno, uno dei grandi ‘autori’
di Cacciatore)”.
Attestata su strutture metrico-retoriche tanto simili a un sistema difensivo,
la scrittura poetica cacciatoriana è in realtà costantemente, direi disperatamente
percorsa nelle proprie arterie da perentorie necessità interrogative, da aperture
ansiose sull’enigma malato del mondo. In questo senso, ne accompagna i
moti – soprattutto i più inesplicabili – e al tempo stesso li scruta
nelle loro interne contraddizioni. Davvero sempre, come suona il titolo di un
suo libro, il poeta è assillato dal bisogno di conoscere ruoli, mansioni, infine
responsabilità morali: uindi – inevitabilmente – espressive. Nessuno,
in questa poesia, può chiamarsi fuori, può dare forfait, può dire io
non c’ero. Nella sua densità semantica si annida, con le mosse di una scherma
che chiama costantemente in causa anche se stessa, le proprie aporie e
le proprie tensioni, una dantesca, petrosa “volontà di dire” tra le più intense
e agguerrite della nostra tarda modernità. La sua strategia, che solum è
sua, ci appartiene in effetti con lancinante acutezza. Il suo gesto non èd’aria
o di fumo pro/fumato, è di pietra, di metallo e di sangue. È quello del
Verbo antagonistico in cui si incrociano ciò che si chiama Pensiero e ciò che
si chiama Metafora, coi loro bagliori e il loro buio,per toccare zone di
chiarezza temeraria e definitiva.