Mario Lunetta

La permanenza della catastrofe
Sulla scrittura problematica di Edoardo Cacciatore

È raro imbattersi, specialmente in una letteratura come la nostra impregnata nel profondo di difficilmente biodegradabili tensioattivi cattolici (e, più precisamente, gesuitici – fino al limite di un profumo di lingua di chiesa che per esempio nel Manzoni de I Promessi Sposi e degli Inni sacri, testi in questo senso capitali, è addirittura palpabile), in un autore che, come Edoardo Cacciatore, sia al tempo stesso coltivatissimo e crudele: crudele nel senso che la sua intransigenza di pensiero-scrittura non arretra dagli esordi alla fine della parabola davanti a nessun arrangement diplomatico, a nessuna mediazione da ciambellano e simili, per esplicarsi senza remore in tutta la sua ardua ricchezza. Ho accennato al tema della crudeltà, intendendo sottolineare col termine, o se più piace con la ‘categoria’, il nesso inestricabile e interattivo che nella scrittura cacciatoriana, poetica e riflessiva, metaforica e argomentante, stringe in endiadi lo spazio della fermezza e lo spazio della pietà. Qualcosa, certo, di molto diverso dalla nozione di crudeltà di matrice artaudiana, in cui la corporeità ha un ruolo protagonistico, fino a cancellare tutti i tratti cerimoniali della rappresentazione, come mostra un frammento di lettera che, nell’ultimo tratto della sua vita, Antonin Artaud invia a Paule Thévenin (“…mi consacrerò ormai / esclusivamente / al teatro / così come lo concepisco / un teatro di sangue, / un teatro che ad ogni rappresentazione avrà fatto / guadagnare / corporalmente / qualcosa / tanto a colui che recita / quanto a colui che vede / recitare, / del resto / non si recita / si agisce / Il teatro in realtà è la genesi della creazione”). È la torsione virulenta e plasmàtica di una visione teàtrica ferocemente segnata da anni e anni di calvario biografico. Qualcosa di molto diverso, sicuramente, in Cacciatore; e tuttavia con più di un punto di consonanza coi manifesti
programmatici dello scrittore-teatrante francese, e ancor più esplicitamente con quanto Artaud scrive in una lettera a Jean Paulhan del 13 settembre 1932: “Questa crudeltà non è fatta né di sadismo, né di sangue, almeno non in modo esclusivo. io non coltivo sistematicamente l’orrore. La parola ‘crudeltà’ deve essere intesa in senso lato e non nell’accezione fisica e rapace che abitualmente le si attribuisce. (…) Dal punto di vista dello spirito, crudeltà significa rigore, applicazione e decisione implacabile, determinazione irreversibile, assoluta”.
In un libro come Itto itto (Manni, 1994), curato, con competentissima intelligenza da Giorgio Patrizi, quell’inflessibile e ferreo sacerdote dell’Energia carico di maschere barocche che è Cacciatore, afferma: “Gli eccessi dell’Energia non sono una sregolatezza, sono gli appannaggi della sua privilegiata regola”. Gli ictus, gli itti secondo lessìa cacciatoriana, sono i battiti della sua stessa vitalità, si direbbe le pulsioni del suo caos. Renderli ritmicamente sintattici è compito del poeta assegnato al Dipartimento Pensiero, perché tanto, “l’Energia è sempre in salvo, lei”. E ancora: “La libertà non è un passeggio arbitrario della degustazione. È, per contro, un necessario gesto nell’esercizio della elaboratività frenica. Questo perché, in realtà, non si è mai liberi. Privi di indipendenza, – dal momento che si dipende dalla labescenza via via mentre essa si smuove ed àltera, – ci si accomoda scrollo scrollo per sottrarsi agli incomodi che ne seguono. Ma non ci si sottrae mai tuttavia all’accusa di cedevolezza che ci muove la realtà durescente e durevole, la cui mole ci scorta a quando a quando fino a quando non ci vessa con i suoi oneri al punto tale da demolirci”. Quindi, leopardianamente: “La Poesia, quando riesce effettivamente tale, seguita ad essere tònosi: rinforzo energetico a non finire”.
La crudeltà di certi autori è soprattutto nella loro irriducibilità. E bene scrive Patrizi nell’introduzione a Itto itto, parlando dell’apax inquietante eeterodosso costituito dall’avventura della scrittura di Cacciatore: “È noto come Cacciatore abbia pagato questo rigore di ricerca con la propria rimozione dal repertorio dei classici, dei modelli ufficialmente riconosciuti e legittimati dalla critica e dalla storiografia letteraria e come la recente riacquisizione all’analisi e allo studio della sua poesia sia dovuto all’iniziativa di generazioni di studiosi meno legate all’unicità rassicurante dei canoni che ci aveva raccomandato una certa tradizione”:
In effetti, la sua prosa e la sua poesia, che lavorano da sempre su una tastiera assolutamente interattiva e risultano perciò vicendevolmente inseparabili, conoscono soltanto la cifra dell’implacabilità e dell’azzardo estremo, e starei per dire manieristicamente estremistico; sono, alla fine, macchine tutt’altro che dispensatrici di placamento ma piuttosto produttrici di disagio, centrali generatrici di vuoto in forza della loro strenua costipazione e, perciò stesso, di fastidio; qualcosa perciò di radicalmente opposto a quella tendenza alla medietas, e magari al compromesso (linguistico e di senso) così tipica del nostro parnaso otto-novecentesco, proclive sul suo versante più ufficializzato, per stimmata genetica e per piccolo cinismo opportunistico, al Lirismo Domestico (e addomesticato), al minimalismo del vissuto micron lievemente patetico, o al finto maledettismo da passerella.

In linea drasticamente controtendenziale, Cacciatore è convinto – per natura e cultura – che la poesia è un’ermeneutica della realtà; e ancora, che è – com’egli stesso ha scritto una volta – “un atto liberatorio, un soccorso conoscitivo che il poeta può prestare ai suoi simili perché si è addestrato più di loro a capire la realtà. Che è feroce, crudele, spietata e solo attraverso un viaggio graduale verso la totalità dell’esperienza, alla ricerca dei nessi tra gli eventi, mossi da un impulso meta-razionale alla conoscenza dell’essere del mondo, si può cogliere l’eternità di un istante, si può affermare l’arìtmesi degli urti (itti, battiti) che si rifrange e si placa nelle cellule del discorso”.


Egli ha perfetta coscienza del fatto che la poesia non è una particola, né contiene alcun Corpo Mistico nel suo sangue di volta in volta pesso o sottile. Sa, invece, che è un’esperienza continuamente in fieri, capace di mettere a dura prova, nel suo prodursi in quanto organismo verbo-pensante, ogni certezza acquisita, ogni pigrizia comodamente consolidata. Massimo feticcio dell’inerzia universale è ciò che il poeta chiama in Itto itto, libro-diagramma dei suoi bàttiti mentali, termometro delle sue febbri e dei suoi geli in esaltazione o in desolazione, Senso Comune. È lì, appunto, la volgarità del banale sempre incombente: il fiato greve emesso dalla conformizzazione gregaria, dalle varie inerzie della sottocultura di massa, dall’omogeneizzazione delle diversità. “La Ragione, – scrive Cacciatore nel suo libro dei bàttiti in perenne dibattimento, continuando a praticare senza tregua quell’arte dei travestimenti che è in verità messa in atto del principio del mutamento perenne, che in poesia egli esplora senza pause sconnettendo gli assetti dell’abitudine e dilacerando al filo di un logos sontuoso la divisa unitaria e organica che comunque indossa con inesorabile convinzione – disponendosi nella sgombra vacuità dei suoi circoli, rende vane le mene tortuose e tritanti del Senso Comune che di quei ragionamenti difettosamente parziali aveva fatto taglieri a mezza luna per spicinare l’ammucchio capitalizzato da un altro. In ogni caso, operi la Ragione perlustratrice o no, se ne incaricherà sempre l’Alterazione, che è in appannaggio all’Energia, a ridurre a tritume ogni abuso”.
L’Alterazione energetica del già saputo: come dire lo Scarto, la “mossa del cavallo” cara a Sklovskij nei suoi anni Venti cubofuturisti. Il gesto che non asseconda ma spariglia. L’affermazione del controsenso. Del diniego, magari. Del rifiuto insomma di procedere nei vialetti rassicuranti della Vulgata che di tratto in tratto si spande come una mareggiata sulla società e sugli individui, in un bagno micidiale di ideologia. Cacciatore sa che la poesia non eternizza niente: al massimo, quando la sua è un’energia possente, spezza la continuità dell’enorme spessore di menzogna che avvolge e intride la nostra esistenza, e che lavora ai livelli del minimo quotidiano come a quelli dottrinari per farsi pura astrazione indimostrata e a suo modo assoluta. La scrittura, che tradisce sempre la sua incancellabile contiguità all’ideologia che comunque veicola, è paradossalmente anti-ideologica quando la propria stessa ideologicità smaschera e mette allegoricamente in scena. Contiene il mondo ma sputtana la sua falsa rappresentazione, grida la nudità del re e decapita i feticci.
Cacciatore, che di questa pratica è maestro, sa con Wittgenstein che “ogni spiegazione è un’ipotesi”. Per questo, la foresta del linguaggio, quella foresta meta-barocca e così spesso spinta a un gelido diapason, la cui voce plurale si ode e si gode lungo tutto l’arduo percorso delle scritture del poeta, rilutta dal dare di sé un’immagine univoca, e comunque prefigurata. Significherebbe dissiparne artificiosamente la giusta oscurità, ridurne la complessità e la valenza di enigma. Da La restituzione (1955) a Graduali – testi del 1954 riproposti dall’editore Manni nell’86 a cura di Filippo Betti ni, il quale individua con precisione la natura e la fisionomia della scrittura cacciatoriana, quando osserva che essa “Si fa (…) poesia non solo di mutamento ma di ‘ossimori’. E ossimorica si presenta la sua espressione tutte le volte essa incorra in nuclei di ambivalenza, di contraddizione, di concordia discors, che non cancella e non dissimula ma lascia, di colpo, affiorare dalla scorza protettiva del mondo fenomenico”–; da L’identificazione intera (1951) all’imponderabile Itto itto, la sopradetta foresta è per Cacciatore il luogo della ricerca senza speranza e insieme il luogo di un precario conforto: un conforto non banalmente catartico ma sprezzantemente pagato ad altissimo prezzo intellettuale ed etico: una sorta di non-speranza del tutto priva di narcisismi nichilistici. Quindi, ancora col filosofo del Tractatus logico-philosophicus, “dissodare il linguaggio” per liberarsi dalla stregoneria del sapere supposto.
“Ogni lingua ha un suo silenzio” dice Canetti. E la sonorità multitonale della lingua poetico-filosofica cacciatoriana ha anch’essa i suoi silenzi, come dire i suoi crepacci improvvisi che si aprono sotto i piedi del lettore e gli mostrano ciò che mai i tepori della sua morbida attesa, o la gommapiuma della sua routine mentale gli avrebbero prospettato. Un atto di violenza, certo. Cioè, un atto di grande, democratica fiducia nell’onestà intelligente di chiunque intenda misurarsi con le asprezze di un testo complesso, che configura se stesso – pur nella sua catafratticità – come fenomeno di progettualità aperta. “Lo spleen” osserva Benjamin “è il sentimento che corrisponde alla permanenza della catastrofe”. Nel linguaggio fermentativo e insieme densificato di Cacciatore, la permanenza della catastrofe è forse il dato meno mutevole negli anni, nel corpo della sua straordinaria avventura allegorica. La contraddizione va senza posa esplorata e regolata contro la sua facies equivoca, fino a farla deflagrare. Questa è – da sempre – la strategia del poeta della Puntura dell’assillo, il lievito ossessivo del suo pensiero-forma. La stagnazione, l’ossificazione, l’orizzontalità marmorea del senso mistificato sono i suoi eterni, inconciliabili nemici. Alla loro ipocrisia, Cacciatore – uomo di volto alato e di criniera leonina – oppone la ricchezza del disordine. Il disordine dei segni, cioè il contrario della loro confusione, può produrre chiarezze sempre ulteriori, da conquistare scontando tutti i rischi della propria quête nel pànico aggrovigliato del Labirinto.

Perché quest’immagine repentina, a questo punto del mio modestissimo discorso cacciatòrico? Per suggestione testuale, certo; ma anche, mi piace supporre, per fascinazione metonimica suggerita dal trovarsi ubicata la casa del poeta ai piedi di quello stupendo labirinto vegetale che è l’Orto Botanico, sotto l’incombere del Gianicolo. Largo Cristina di Svezia 12: è qui che Edoardo ha a lungo abitato con Vera Signorelli sua moglie, anche lei scrittrice di conio non comune, coprotagonista – come ricordò una volta suo marito – di quell’ ”incontro totale: sentimentale e intellettuale”, che ha segnato una volta per sempre le loro vite. Ogni volta che sono entrato in quella casa, sempre m’è parso di ‘udirvi’ un silenzio intensamente laborioso, la palpabile presenza di una concentrazione umana e poetica al tempo stesso aperta al mondo e impermeabile: qualcosa di analogo, insomma, alla sensazione che invariabilmente mi comunica l’Orto Botanico: di sconfinata luce misteriosa, e di abisso.

Ha detto esattamente Alfredo Giuliani che un poeta come Cacciatore appartiene a una linea purtroppo minoritaria e “perdente” sul piano dell’accettazione e della risposta immediata, all’interno di una tradizione poetica come la nostra, inguaribilmente impregnata di umori lirici e di frenesie patetiche. “È paradossale – argomenta il critico nel 1957, a proposito della Restituzione – la passionalità con cui Cacciatore tratta le idee. Nella sua mente ogni pensiero diventa vivo, ma d’una vita pulviscolare, finché non si placa in alcune metafore resistenti, strumenti si direbbe, se a volte non apparissero con una loro irriducibilità ontologica”. E Patrizi, in un’analoga inclinazione di lettura, a proposito della Puntura dell’assillo, nella nutrita presentazione del volume di Tutte le poesie (Manni, 2003): “C’è un’attitudine speculativo-discorsiva nella costruzione della Puntura: una ricca, barocca, organizzazione fonica supporta la ferrea articolazione del procedimento riflessivo. Il piano semantico di queste composizioni, si vuol dire, mai si disgiunge da quello formale, né da quello di una connotazione del testo all’interno di una tradizione del genere, del metro e del ritmo. I tre livelli si intrecciano funzionalmente, valorizzandosi a vicenda e ricomponendo la complessità di un’esperienza letteraria del tutto singolare”.
Quello di Cacciatore è insomma un timbro che fa del pensiero non un surplus messo tra parentesi e delicatamente rimosso, ma un dato sostanziale, una centrale energetica, una catena di ictus per dirla con le sue parole, continuamente attraversata dal prodursi vertiginoso della scrittura: che è – non solo in lui, ma in lui in termini decisivi – un gioco strenuamente mentale, materiale, metafisico, ad oltranza. Direi così che Cacciatore è nella modernità parte rilevante di quella linea ‘dantesca’ che nella nostra poesia ha sempre avuto vita difficile; è insomma della stessa famiglia di quei possenti animali del pensiero poetante che si chiamano non solo Leopardi, ma prima di lui Bruno, Campanella, Foscolo, e che anche nel Novecento, fino ai nostri giorni, annovera autori di gran tempra. Tutti questi straordinari poeti hanno fatto del linguaggio una ricerca inesausta che funzionasse non solo dentro se stessi, ma dentro (e non di rado, contro) la realtà e i fantasmi mentali dell’individuo e dell’essere, del vuoto storico e del senso. Realisti visionari. Inventori lucidissimi e fantastici di ciò che si vede e di ciò che è occultato. Demiurghi della coscienza attiva. Attraversatori impavidi di territori interdetti, e altro, altro ancora.
Cacciatore è uno di loro, e occupa nella mappa poetica dei nostri anni un posto di prima grandezza. Ecco perché, allora, i suoi libri di poesia stricto sensu e i suoi libri di prosa teorico-filosofica fanno un corpus che va considerato in modo unitario e interconnesso: non sono dei frammenti – e sia pure dei grandi frammenti – che si possano valutare separatamente; in realtà, fanno parte di uno stesso sistema, di uno stesso universo, quel leggendario Universo Cacciatoriano così forsennatamente obliquo e così acutamente penetrante: un cosmo che è sempre stato trascurato in patria, come il portato di un profeta solitario e inassimilabile alla lingua della tribù; e che solo pochi intellettuali, pochi scrittori ed artisti hanno saputo apprezzare all’altezza dei suoi meriti. Non ci fa, tra l’altro, certamente onore il fatto che qualche grande studioso straniero (un nome per tutti: Gustav René Hocke) si sia accorto del valore del poeta prima di certi studiosi italiani: ma, si sa, la nostra è una cultura in cui l’Arcadia continua a dominare quasi totalmente, e all’interno della quale il discorso elegiaco-patetico riceve un ascolto molto più forte di quello dotato di energia dialettica. Di questa seconda specie è la scrittura di Cacciatore: aspra, irta, direi perfino marmo-rea in certe sue formulazioni definitive e assertive, insomma lapidaria: ma al tempo stesso, all’interno di sé scissa, frantumata, talora polverizzata come cenere cosmica.
Si pensi, solo come un esercizio di campionatura minima, a riprova, al Proemium denso di enjambements che apre La restituzione: L’autunno romano dolcezza e fastigio / Alle pietre restituisce all’aria il grigio. / Un silenzio interviene denso di altri gridi / Nel tuo corpo ritrova radici amorose / La felicità che è all’apice delle cose. / Nell’immaginazione il nero mortifero / S’imperla di grigio si fa cielo signifero. / Non il crepuscolo non l’alba che rivedo / Non è il sole smorto entro un bosco ceduo. / Questi oggetti all’istante con tanta minuzia / Svelati all’alterazione senza più astuzia / Nel chiarore senz’ombre innaturali nidi. / Torneranno naturalmente a ripetersi / Amorosamente assentiranno a concedersi / Con simile viso con somigliante impronta. / Ma a chi varrebbe riconoscere in un’onda / Quella che mortalmente trattenne un respiro. / Il solito eccidio sanno nel lento giro / Tramonti e aurore insanguinati alle dita. / Né morte squallida né arroganza di vita / Sullo sciame inarrestabile subito emersa / Novità inaudita natività diversa.

Si pensi al fantasma dantesco esplicitamente evocato in citazione nell’incipit di “Ridine è la libidine” carico di rimalmezzo, all’inizio de Lo Specchio e la Trottola (1960): Voce d’ingorda voglia è questa ma a chi parla / Una corda che taglia ov’è nient’altro il viso / Questa voce e per stanza solo ha una soglia / Volontà di riso tanta su cui si staglia / E danza certo ora a darsi un contegno e canta? / Rìdine è la libidine incela chi infesta / Festa è di mani recise che si stringono / Fuoco di fascina e per giuoco sala è forno / Cotto il poco giorno il grande cerchio d’ombra / Dall’interno già sgombra scala è all’aperto. / Di piede forcuto che mi racconti e inferno / O uccelliera di orizzonti il paradiso / Altro avviso nei plessi nervosi altra èra / Il seme ignari e il grembo e forse mai insieme / Quanto non fu per tremiti e fremiti sai. / Una furia mi trascina o hai mosso un cingolo / Lotto di delirio da capo a piedi sembro / Filo di saliva tenuto ancora a segno / Lascia la lingua e coli giù nella cenere / Venere dai riflessi vedi farsi e Sirio. / Percosso ogni vincolo la carezza è esatta / Ti riposi appena ed il silenzio ringhia / Si spezza l’attenzione i sogni marciscono / Uniscono a perdita di mente le narici / Radici in tale fonda incuria feconde. / D’onde l’abbraccio di sale mai scatta ed acqua / Lena unica è l’arbitrio che si dona / Ti abbandona ti abbandona il laccio degli occhi / Pena al principio i rintocchi delle tempie / A piacere infieriscono senza ritegno. / Avere in sé l’alito d’altri ancora valido / La pietra invidia questo alla carne vorace / Empie provarne le balze ad una ad una / In pace annettersi l’adagio sostenuto / Il silenzio ove sfuma di strage e fa testo.
Così, con questi sordi clangori e subitanei silenzi d’attesa, si snoda il grande viaggio di Edoardo Cacciatore, fino ai cinquanta ed un sonetto de La Puntura dell’assillo, attraverso libri come Ma chi è qui il responsabile? (1974) e il già ricordato Graduali (1986). E proprio dalla Puntura mi piace estrarre due stupendi testi che costituiscono, in fondo, due tempi di una stessa dichiarazione di poetica o, se si preferisce, di autobiografia letteraria in dodecasillabi.
Fulmineità del linguaggio: Zonzeggia il linguaggio eppure obbedisce / Al fulmine spiccio che coglie nel segno / Ci scaccia all’Esterno ma a modo di strisce / Scontorce le voglie e le affibbia a un congegno / Che ci esula intanto benché sia pienone / Reciproco entra e caletta a collana / Quel tutto-esaurito un alt propone / Flussìpede va la realtà e si sbrana / Linguaggio è tale perché da una frotta / Intende ottenerne una docile fresa / Le voglie scontorce a forza dirotta / In fretta per farne un cenno d’intesa / Va il fulmine ormai che fu così spiccio / Su sillabe a zonzo non dà raccapriccio.
E ancora, Dà meraviglia: Benché sia mnemonico dà meraviglia / L’insieme degli itti che incombe al mattino / Riapri i tuoi occhi dal sonno e ti piglia / Nel vortice suo lo svelto cammino / Al quale appartiene per forza vorresti / Deviare la rotta inventarti un altrove / Altrove è altrimenti di tutti i tuoi gesti / Recenti le prove magari assai nuove / Annosa esperienza si fanno ma avviene / Che gli itti in cadenza avranno altro posto / Ti orienti per dare obiettivo al tuo bene / Spostato quel bene non c’è si è nascosto /
L’insieme degli itti è tale faccenda / Fa sì che il suo buio a un tratto si accenda.

Lo stesso Cacciatore parla, in un libro come Carichi pendenti (1990) della necessità che la poesia moderna “diventi, più e più, ermeneutica della realtà”. E Giulio Ferroni, introducendo l’antologia personale che il poeta realizzò per Einaudi, qualche mese prima della morte, ribadisce la natura della sua scrittura in versi: una poesia-pensiero che elabora con assoluta coerenza la propria ossatura e la propria fisionomia, “attraverso lo svolgersi di una parola che tende ad identificarsi con il ritmo stesso della mente nel suo rivolgersi al mondo: nell’orizzonte di una singolarissima mistica laico-materialistica, che per l’appunto pone l’accento sul rapporto perduto e sempre ricercato tra pensiero e realtà, che tende ad immergersi nel mondo esterno, a riscattarne il significato sempre effimero e sempre definitivo spontaneo è il rinvio da una parte alla linea democritea e lucreziana, dall’altra alla tradizione ermetica rinascimentale, ai suoi esiti più laici e materialistici, e in primo luogo a Giordano Bruno, uno dei grandi ‘autori’ di Cacciatore)”.
Attestata su strutture metrico-retoriche tanto simili a un sistema difensivo, la scrittura poetica cacciatoriana è in realtà costantemente, direi disperatamente percorsa nelle proprie arterie da perentorie necessità interrogative, da aperture ansiose sull’enigma malato del mondo. In questo senso, ne accompagna i moti – soprattutto i più inesplicabili – e al tempo stesso li scruta nelle loro interne contraddizioni. Davvero sempre, come suona il titolo di un suo libro, il poeta è assillato dal bisogno di conoscere ruoli, mansioni, infine responsabilità morali: uindi – inevitabilmente – espressive. Nessuno, in questa poesia, può chiamarsi fuori, può dare forfait, può dire io non c’ero. Nella sua densità semantica si annida, con le mosse di una scherma che chiama costantemente in causa anche se stessa, le proprie aporie e le proprie tensioni, una dantesca, petrosa “volontà di dire” tra le più intense e agguerrite della nostra tarda modernità. La sua strategia, che solum è sua, ci appartiene in effetti con lancinante acutezza. Il suo gesto non èd’aria o di fumo pro/fumato, è di pietra, di metallo e di sangue. È quello del Verbo antagonistico in cui si incrociano ciò che si chiama Pensiero e ciò che si chiama Metafora, coi loro bagliori e il loro buio,per toccare zone di chiarezza temeraria e definitiva.