Višnja Machiedo



La donna-modello surrealista
(secondo André Breton)

 

L’empire des femmes est beaucoup trop grand en France,
l’empire de la femme beaucoup trop restreint.

Stendhal, De l’Amour (1853; I ed. 1822)

 

Am I that I observe or that which observes me?

Leonora Carrington, “What is a woman?” (1970)

Nel primo tentativo di una prefazione al suo trattato Dell’Amore, Stendhal scrive: “L’amore rassomiglia a quello che nel cielo si chiama la via lattea, un ammasso brillante formato da migliaia di piccole stelle, di cui ognuna è spesso appena una nebulosa cosmica. I libri hanno registrato quattro o cinquecento minuscoli sentimenti successivi e molto difficili da riconoscere che compongono questa passione (...) I migliori di questi libri (...) furono scritti in Francia, paese dove la pianta chiamata amore ha sempre paura del ridicolo, dove viene soffocata dalle esigenze della vanità, questa passione nazionale, e non raggiunge quasi mai la sua vera altezza.”
In questo contesto, ironizzando un po’ sui suoi connazionali e contemporanei, da quell’inguaribile fautore ma anche lucido analista dell’amorepassione che era, Stendhal lo chiamerà anche una “malattia dell’anima”, “una specie di follia molto rara in Francia”. Un centinaio di anni più tardi André Breton scrive L’amore folle, mentre otto secoli dopo il sanzionamento del codice dell’“amore cortese” nelle corti provenzali – questi “tribunali dell’amore”, dove le donne medievali, esortate dai trovatori, ne discutevano e ne dettavano le regole – la ricerca dei surrealisti viene alle prese con questo argomento spinoso sui sentieri ora tortuosi ora sovrapposti della nozione e reinvenzione surrealista dell’amore.

Sfogliando recentemente l’Antologie amoreuse du Surréalisme (Parigi, 2001), a cura di Vincent Gille (entrata nella mia biblioteca appena l’anno scorso), mi sono imbattuta in un saggio di Nora Mitrani (1921-1961), filosofa e sociologa (nata a Sofia), in cui questa stretta collaboratrice dei surrealisti nel secondo dopoguerra dice tra l’altro:
“Amata eppure ambigua, per i surrealisti la donna è tiepida abitante della capsula, e, a turno, dello spazio esterno, dove la sua anima stridente impazzisce per la propria lucidità; ora una creatura troppo carnale, velenosa, ora una rosa pubblica, e ora invece Nadja, dagli occhi orlati di nero, una maga, sibilla, mediatrice dell’invisibile. Ma forse lei imparerà, (o lo ha già fatto), ad assumersi i due ruoli simultaneamente? (Allora le categorie maschili non saranno più tanto valide, e gli uomini avranno paura.)”
Seguirò la traccia di quest’immagine alquanto semplificata della “donna amata dai surrealisti”, senza condividere appieno l’oppinione di Nora Mitrani, che cioè il cuore maschile venga ancor oggi più eccitato dall’immagine antica della donna sublime (la regina Ginevra dei romanzi sui Cavalieri della tavola rotonda, la Beatrice dantesca o la Signora con l’unicorno) in esso profondamente radicata, che da Marilyn Monroe; e credendo, inoltre, che la donna-poeta, vagheggiata da Rimbaud, non esista solo come un essere che “ogni tanto solleva le palpebre” rompendo d’un tratto la sua capsula nel desiderio di iniziare un dialogo con il mondo. Poiché Nora Mitrani, in un altro saggio, si riferisce all’“amore assoluto” di Alfred Jarry (da cui è visibilmente affascinata, sebbene Breton, ad esempio, lo trovi molto ripugnante), e nel passo appena citato menziona esplicitamente Nadja, la reale – non fittizia – eroina dell’omonimo libro, cercherò – intraprendendo un percorso critico diagonale attraverso altre due opere di André Breton, dove egli continua la riflessione teorica e la celebrazione incantata dell’amore e della donna – di tracciare a grandi linee le componenti di quest’ultima, cioè una formazione graduale di un modello femminile fondato su incontri e esperienze autentiche, ma anche sulle aspirazioni/ideali del surrealismo, elementi che esso fece propri attingendo al ricco patrimonio, cioè sulle traiettorie incrociate della sua ricerca spirituale e poetica transrazionale.
In questo senso L’amore folle (1937) si presenta come l’anello centrale di quella catena concettuale che Breton costruisce tra Nadja (1928) e, per esempio, Arcana XVII (1945). Ne L’amour fou si tratta (di nuovo) di una donna reale, di cui l’autore del libro si innamora follemente, ma l’identikit di questa donna, più o meno decifrabile, non coincide proprio con il binoma ambiguo proposto da Nora Mitrani. È scandalosamente bella e, ovviamente, carnale, ma non “velenosa”; è soprattutto semplicemente donna, mediatrice magica della Natura in mezzo al paesaggio urbano, “regista onnipotente” di coincidenze misteriose tra il mondo mentale e quello materiale, tra la sfera immaginaria e quella sensuale, tra il “caso oggettivo” e la necessità soggettiva. Lo statuto dell’essere femminile eletto, eccezionale, le viene regalato e incondizionatamente garantito dall’amore-passione destato in Breton e, peraltro, ricambiato. Le pagine dell’Amore folle non riportano, tuttavia, nemmeno una frase dell’ispiratrice stessa pronunciata in prima persona: essa è presente (intessuta) cioè richiamata nel testo di Breton, per la maggior parte autodiegetico, dai pronomi “tu”, “il tuo” eccetera, quando l’autore le si rivolge direttamente nel corso di una delle descrizioni liriche oppure nel suo commento riflessivo. Lo stesso vale in misura uguale anche per la terza donna amata, che diventerà l’ispiratrice di Arcana XVII, il testo narrativo più complesso e più compiuto di André Breton, testo che porta all’estremo vertice l’osmosi inedita e meravigliosa del suo discorso poetico, narrativo e saggistico.
Infine, non mi rimane che concludere, l’unica di queste tre donne che, nel testo, parla anche direttamente al lettore in prima persona e con cui Breton conduce un dialogo, è Nadja, persona il cui amore egli non sapeva, non poteva e forse non voleva neanche ricambiare. Tuttavia, l’incontro con lei scosse profondamente la vita e il pensiero di Breton, perché essa apparve sulla scena della ricerca e della dottrina surrealista come l’amblema reale della donna sognata dai surrealisti. Vale a dire che Breton viene sorpreso dalla lucidità, dalle visioni (tra cui alcune si confermano subito o in seguito), dallo “spirito aereo” giocoso e disubbidiente di questa fragile donna giovane e bella, nonché da eventi e correspondances stupefacenti che si diffondono in modo concentrico attorno alla loro breve avventura in comune. Ammira con la più totale sincerità questa “anima errante” – come Nadja si autodefinisce – questa donna-medio semipazza, questa fata in grado di concetrare su di sé il desiderio surrealista della meraviglia. Senza essere particolarmente colta, Nadja capisce a volo i testi di Breton, indovina tutto su di lui e sul suo futuro ruolo. Gli regala i suoi disegni misteriosi, che dimostrano un talento indiscutibile, ma tutto questo come se non passasse i limiti di una seduzione mentale – dirà Breton molto più tardi – e “rappresenta soltanto la rivincita dello spirito sulla sconfitta del cuore”. Il fatto che egli abbia lasciato Nadja, malata, povera e infelicemente innamorata, al triste destino di una pluriennale agonia nel manicomio, persino una certa reticenza da parte sua circa l’espressione di un eventuale rimorso di coscienza, sono un indicatore evidente che la nozione surrealista bretoniana dell’amore non lascia molto spazio alla compassione. L’ammirazione che Breton nutre nei confronti di questa donna “più misera di tutte e di tutte peggio difesa” agli occhi della gente comune, a causa della quale essa si riduceva in misero stato, scivolava, ma si dimostrava ugualmente temeraria quando si trattava di servire la liberazione umana “passando la testa e poi un braccio tra le sbarre scostate della logica”, la “più odiosa delle prigioni”, partendo “molto lontano dall’ultima zattera” del desiderio umano di sopravvivenza, questa ammirazione non è tuttavia priva di una malcelata pena dovuta alla sua incapacità di accettare completamente e amare l’unico essere che incarna il senso della sua ricerca. Ma da questa sofferenza sterile non nasce caritas o almeno la “pietà amorosa” invocata nella poesia dei trovatori, cioè una nuova forma di compassione, indipendente dallo spirito cristiano (tanto repellente per i surrealisti). “Ho visto – scrive Breton – i suoi occhi color felce aprirsi la mattina sul mondo in cui i remeggi delle ali della speranza infinita si riconoscono appena tra gli altri rumori, rumori di orrore, mentre io in questo mondo avevo fino ad allora visto solo occhi che si chiudono”. Nadja aperse gli occhi a Breton in quel “bosco di segni” offertoci dalla realtà, ma rimase per lui non più che la prova chiave del valore magico degli incontri “casuali”, l’annunciatrice del futuro “amore puro e semplice di una donna” come quello che ai affaccia sulla terza parte, conclusiva, dell’omonimo libro e da cui verrà sostituita– a ragione, sottolinea Breton. D’altro canto, dell’impotenza, della disperazione dell’amore folle di Nadja per il capo del movimento surrealista, possiamo giudicare appena in tempi recentissimi, da quando, durante l’asta del suo ricco lascito artistico, nell’aprile del 2003, un involucro di vecchie carte fece sfondare il tesoro di 27 lettere inedite che Nadja aveva inviato a Breton dall’inizio del loro incontro fino a qualche giorno prima del suo ricovero in manicomio. (Per la somma di 140 000 euro le ha comprate la Biblioteca Jacques Doucet, anche altrimenti la migliore tesoreria di documenti e pubblicazioni surrealiste). Si tratta di una scoperta imprescindibile, di un impressionante rovescio del testo di Nadja, l’opera fondamentale e più famosa del periodo del surrealismo francese.
“E così grande Amore mio questa unione delle nostre due anime – scrive Nadja a Breton con la sua ortografia un po’ insicura - così grande, così profonda, e così freddo questo abisso in cui affondo senza mai attendere nulla senza nulla abbracciare dell’Aldilà e poi quando ritorno (...) tu sei tutto il meglio e ti abbraccio, tu sei qui ma la morte è anche qui dietro di te”.
“Scusami sai che sono tua schiava e che tu sei tutto per me, ma voglio di piú voglio prendere tutte le tue pene, soffrire al tuo posto, voglio che tu sia felice. Tu sei forte, bello, buono, bisogna che tu sia signore e che tutti ti rispettino come io ti amo”. (...) “Sempre discendo completamente sola queste scale che portavano alla felicità”.

È indubbio che la “maga” Nadja si era data a Breton con il corpo e con la mente, che lo adorava alla follia. Ma il suo amore è lucido e nello stesso tempo pietoso, perché vuole assumere su di sé le pene di lui. È altrettanto evidente che i due furono amanti almeno per un breve periodo; sarà lo stesso Breton a confidare a Pierre Naville: “Fare l’amore con Nadja è come farlo con Giovanna d’Arco” (cfr. Henri Béhar, André Breton, le grand indésirable, Parigi 1990). Tuttavia, ci chiediamo, la disapprovazione e la protesta sincera di Breton contro le istituzioni psichiatrice e i metodi di cura dell’epoca rappresentano una giustificazione sufficiente per il fatto che egli non si interessasse in seguito del destino di Nadja?
La futura nozione bretoniana dell’amore tra l’uomo e la donna si fonderà sulla “unione libera”, reciproca, elettiva, passionale; incondizionata e allo stesso tempo sensuale, emozionale e spirituale, ma anche sull’autocrazia imprevedibile della sua fenomenologia. Problemi quasi irrisolvibili dal punto di vista filosofico sorgeranno però a causa dell’imminente invocazione di Breton dell’amore unico, cioè concentrato su una sola donna. Si tratta di una specie di “voto” teorico, difeso ripetutamente da Breton ad onta di atteggiamenti diversi e perfino opposti dei suoi compagni di strada, che egli si ostinò a argomentare fino alla fine della sua vita, benché la filosofia del personalismo non fosse proprio affine alla Weltanschauung surrealista di Breton. Evitando con cura ogni trascendenza, assoggettando l’amore all’essere individuale, alla persona come sostanza e non come essenza, Breton deve per forza toccare di passaggio, pur senza volerlo, la nozione cristiana dell’amore, altrimenti da lui condannata e attaccata con violenza.
A dispetto della propria esperienza di successivi amori passionali per diverse donne, e malgrado le tracce più profonde del platonismo nella sua dottrina amorosa, Breton ripete con insistenza che proprio “l’amore folle”, monogamo, deve vincere. Si tratta, certamente, di una decisione la cui verità rimane tutta da dimostrare. E questo amore “vince” veramente a livello del testo: la sua descrizione non è quasi mai oggettiva, approssimativa a un documento umano o a un comunicato parascientifico, vaggheggiato, a quanto sembra, a priori dall’autore. Essa è invece determinata dall’estimazione simbolica degli eventi, luoghi e esseri, ingentilita da incessanti osservazioni liriche e emotive, in cui talvolta si fonde, ma in compenso trova una soluzione per le sue incognite (contraddizioni, paradossi e aporie) in affascinanti “equazioni poetiche”. Parallelamente o successivamente, la tesi stessa si misura attraverso la suspense del pensiero tagliente dell’autore, espresso ora in frasi labirintiche ora in aforismi, se non altro perché la riflessione di Breton vuole rimanere accessibile all’apparizione di un possibile senso accessorio o una nuova domanda. Tutti i libri in prosa di questo poeta francese appartengono a loro modo alla “letteratura delle idee”, benché il suo ragionare e il suo scrivere superino i limiti del pensiero logico, collegando e intessendo quello che a quest’ultimo sembra incompatibile, inconciliabile. (Basti ricordare almeno la definizione bretoniana – quasi ossimoronica – dalla “bellezza convulsiva”: “esplosiva-fissa”, “accidentalemagica” ecc.) Per il resto, qui non abbiamo a che fare con la sintesi dialettica quanto con una simbiosi degli elementi, opposti e inconciliabili solo dal punto di vista di un razionalismo inflessibile, intollerante. Uno scrittore di idee, come Breton, è assorto anzitutto nella vita del pensiero, non nella costruzione di un sistema di pensiero rigido, egli ci tiene a esprimere questo errare vitale dello spirito (pensieri a un tempo sensuali, affettivi e razionali) di qualcuno (lui stesso) che non dimentica di essere solo un uomo e dubita del potere massimo della propria comprensione. Se alle origini del movimento surrealista stanno la rivolta e la speranza, se esso viene mosso dallo sconfinato desiderio umano, e se aspira a raggiungere l’uomo “intero”, questo non significa che nel futuro l’ideale non si dia a un siffatto programma e fine nella forma di una domanda, vale a dire come una serie di interrogativi che accompagnano tutte le risposte e tutte le definizioni proposte fino ad allora. Proprio in nome di un tale umanesimo e la sua sincera resistenza al pensiero antropocentrico e antropomorfico, e non per la sua maniera discorsiva anche troppo artistica, Breton si avvicina talvolta al vero filosofare. Davanti alle difficoltà che affrontava sulla sua strada verso la conoscenza, concluse da tempo il filosofo Ferdinand Alquié, “il surrealismo non scelse né l’illusione della scoperta, né il pessimismo della rinuncia. Si elevò a una coscienza più alta. Si trasformò in una riflessione sulla speranza”. (Philosophie du surréalisme, Parigi 1955).
L’amore e la donna sono temi imprescindibili proprio di questa riflessione sulla speranza, accanto alla poesia e la creazione artistica, si capisce, con le quali si trovano in perenne sintonia, in una permanente interazione con la meta della liberazione graduale e totale dell’uomo e il suo impadronirsi di tutte le sue forze soppresse e smarrite. L’ateismo affermato non impedisce per niente a Breton di appropriarsi (ridefinendoli) dei concetti religiosi come “rivelazione”, “stato di grazia”, “redenzione”, “paradiso”, o, ad esempio, “adorazione”, “tentazione divina”, “miracolo”, “il sacro”.... e trasferirli dall’Aldilà nell’al di qua terrestre, dove esclusivamente li cerca. Inclusi così nella forma profana della “speranza eterna”, questi concetti coesistono con le conquiste della psicanalisi, tenute in grande considerazione da Breton, ma anche da lui trattate in maniera ambigua, in declinazione dal loro canone strettamente teorico, e come origine possibile di visioni nuove. Come un polipo per niente invertebrato, il pensiero di Breton allunga le sue numerose zampe anche in direzione di altre ipotesi scienfiche e di altre premesse filosofiche, col tempo sempre di più anche verso gli elementi stimolanti della tradizione ermetica. Sebbene come pensatore Breton non fosse purista, a questo “sognatore incorregibile” dobbiamo una delle visioni più pure (per niente puritane) e più universali dell’amore dopo il Romanticismo. Se non è raro che nell’esaminazione e nella riflessione sull’amore di Breton pullulino contradizioni e paradossi, la sua celebrazione non presenta oscillazioni. Niente può impedire a Breton di riconoscere, nella propria visione dell’amore, “il vero rimedio universale”, nonostante tutte le contestazioni, le diffamazioni, le derisioni. Si tratta senz’altro dell’amore che “riprende tutto il potere, (...) ed è pronto a riconoscere il suo oggetto in un unico essere” (Arcana XVII), perché la fede nel suo potere, ammette Breton, non cede nemmeno per un passo davanti alla sua personale “esperienza contradditoria”. Non va dimenticato che Breton possiede la mentalità del capo, e non solo dell’”eterno innamorato”, che egli sta alla testa dell’alveare della comunanza (centripetale e centrifuga) di un movimento spirituale e artistico rivoluzionario. È quindi proprio lui a indirizzare, equilibrare le differenze individuali, lui a addattare gli atteggiamenti divergenti tra di loro, a opporsi o imporre i propri. Guardando in avanti, verso il futuro, come ogni leader – per lui anche l’amore è sempre un passo in avanti rispetto a noi – categoricamente serio e poco sentimentale, Breton è solido come una roccia nella tempesta, “incorruttibile, fatto di granito, puro, vincente (...) un contadino estremamente colto (...) un’autorità spinosa, una forza insuperabile” testimonia Georges Perros (in NRF, N. 172, 1967).
Sta probabilmente in questo ruolo costruttivo la ragione per cui Breton, anche quando discorre dell’amore, non opta per il metodo critico del dialogo “aporetico”, e la ragione per cui il suo “monologo” narrativo si trasforma in una sorta di “riassunto”, forse anche in una summa summarum purificata di polemiche, dissidi, problemi e contrasti non trascurabili, legati alla reinvenzione surrealista dell’amore, molto tempestosa e onnicomprensiva, a cui egli dà infine il decisivo stampo personale nelle sue opere.
La celebrazione della donna – ispiratrice dell’ amore incondizionatamente “reciproco” – come se avesse perciò già assorbito l’incontro con l’Altro e la sua alterità, includendolo nell’implicito scambio dei beni, in quella reciproca, comune metamorfosi raggiunta attraverso l’unione “androgina” dei due amanti. Come se Breton parlasse anche per le sue innamorate, persino quando non parla a nome delle loro personalità. La sua nozione dell’amore folle non si fonde del resto su una specie di trasporto mistico?! (Con una serie continua di immagini poetiche analoghe, come per compenso, si direbbe, Breton “femminizzerà” quasi tutto l’universo, “riappassionandolo” in armonia con questa generalizzazione celebrativa dell’essere femminile). Non ribadisce forse Stendhal incessamente, nel suo saggio Dell’amore, che per un uomo profondamente innamorato “non esiste nulla nella natura che non gli parli dell’amata” e che egli “vaccilla e si compiace di tutto quello che immagina”! Ma, in Breton, dietro a tutto questo veglia una coscienza angosciosa, lucida, sulle strutture del mondo di gran lunga più ostili, della loro ostinata resistenza allo spirito di libertà, e, di conseguenza, il successivo “urlo e furore” della rivolta surrealista, un perpetuo rapporto conflittuoso verso queste strutture e la vita che vanno cambiate. Se rappresenta anche veramente “la coda del cometa” (J. Gracq) di quell’idillio meraviglioso, breve e irripetibile del Romanticismo tedesco, della sua innocenza infantile e la sua “magia bianca”, il surrealismo francese deve invece ricorrere a una strategia più articolata, quanto meno autoilludente, più efficace, di quelle che esige la sua epoca (dopo Sade, Marx, Freud e Lenin), per permettere ai propri sogni, i propri desideri, le proprie idee di continuare a volare. Non c’è dubbio che Breton fosse d’accordo con la tesi di Novalis che, accanto alla Poesia e la Libertà, deve essere proprio l’Amore il punto conclusivo della storia del mondo e che ogni uomo è un germe visibile dell’amore tra la Natura e lo Spirito. Ma, confrontato agli sviluppi della Storia sempre più nefasti, con il materialismo volgare e il nichilismo dell’epoca tecnocratica, assorto nel “nocciolo della sessualità” impenetrabile e tenebroso, nel problema della morte e la questione escatologica del destino umano, Breton non si può lasciar andare solo all’idealismo sognatorio. (Non designa questa differenza, ad esempio, quell’abisso che divide l’”umorismo nero” surrealista dall’ironia romantica?)
Esiste un enigmatico disegno di Nadja risalente al 1926. chiamato “L’incantesimo”, che mi fa ricordare il misterioso “Fiore azzurro”, oggetto della ricerca del protagonista di Novalis, Heinrich von Ofterdingen. Sullo sfondo teneramente azzuro di questo disegno si distingue un fiore a quattro petali – in realtà quattro elissi incrociate perpendicolarmente di due paia di occhi con iridi e sguardi diversi – e con due calici verticali a forma di cuore, di cui quello inferiore (rovesciato) è la riflessione speculare del superiore. Da questo fiore-rebus perfettamente stilizzato spicca, dalla parte destra, uno stelo blu scuro a forma di punto interrogativo che finisce in una freccia diretta verso il lato inferiore in direzione di una lingua guizzante nella bocca spalancata di un serpente dalle iridi verde-azzuro. Alla linea curva dello stelo del fiore si ricollega, dopo un minuscolo iato, l’arabesca spirale del tronco del serpente di cui solo la coda si eleva sopra il suolo. A proposito di una delle varianti di questo disegno, dove Nadja, tra l’altro, ha scritto “questa è l’anima degli amanti”, riprodotta nel libro, Breton osserva che essa aveva inventato per lui il meraviglioso “Fiore degli amanti”. Al posto di una interpretazione dettagliata dell’insolita organizzazione simbolica di questo disegno di Nadja (che oltrepassa gli intenti di questo contributo), intendo soffermarmi piuttosto sulla differenza tra questo involontario amblema surrealistico e il fiore azzuro romantico di Novalis. Con il suo colore quest’ultimo – come simbolo di amore, armonia naturale primordiale, condizione paradisiaca – rimanda alla irrealtà sognata e i poteri magici ambiti dall’anima. Il fiore di Nadja, d’altro canto, si collega con il serpente, alludendo a tutto il suo simbolismo complesso, polisemico, che richiama, volens-nolens, la libido, i poteri demoniaci, la maledizione, il male, a prescindere dalle connotazioni negative spontanee o volontarie presenti nel gesto stesso del disegno dei Nadja. Dato che Nadja amava dipingere se stessa come una sirena, dal di dietro, e dato che, secondo la parole di Breton, si confrontava con la fata Melusina (metà donna, metà serpente) vittima dell’arroganza maschile, credo che il serpente nel suo disegno incarni sia l’aspetto positivo che quello velenoso, sulla larga scala della sua aura simbolica - dalla chiaroveggenza profetica fino alla perfidia mortifera. Il serpente della pazzia non risuchiò forse alla fine anche il fiore reale dell’amore folle che l’infelice Nadja aveva coltivato per André Breton?!
Melusina stessa si distingue nel museo immaginario bretoniano delle donne mitiche, figure reali nonché mitologiche, letterarie, pittoriche, e finanche qualche personaggio dal Museo delle cere. La prima rivelazione di bellezza e amore Breton la visse, secondo la propria confessione, nel Museo di Gustave Moreau: era incantato dalla sua Salomè, Elena, Dalilla, Chimera, Semele e Fata col grifone, meravigliato soprattutto dallo sguardo femminile che esprime “estasi, violenza, orrore”. A queste si affiancarono poi Diotima, Eloisa, Iside e Aurelia di Gérard de Nerval, Justina e Giulietta del marchese de Sade, Matilda di Lewis, la Monaca portoghese, la strega di Michelet, la Gradiva di Jensen, ma anche l’Alice di Carroll, accanto alla Cenerentola (folcloristica), a Sophie von Kühn, a Bettine Brentano, Flora Tristan ecc. ecc. L’osservazione di pazienti isteriche in stato di trance condizionò altrettanto la riflessione estetica di Breton e si iscrisse in una certa misura nella sua definizione di “bellezza convulsiva”. Lasciando da parte lo sfondo psicanalitico di siffatte predilezioni, la tipologia dell’essere femminile suggeritoci dalle figure e personalità menzionate indica a una gamma e una forza della femminilità davvero invidiabile. Pertanto quella “semplicemente e soprattutto donna”, di cui Breton si innamora, non è per lui né semplice né donna comune, ma un relais per la rivelazione del meraviglioso che circonda invisibilmente la realtà, con la poesia e l’arte la mediatrice più importante dei momenti di epifania nella vita quotidiana. L’amore che, nel Convivio di Platone, muove alla “poiesis” non è secondario qui alla funzione che la coppia amorosa ha come genitrice (quest’ultima non affatto essenziale per il surrealismo), come nel dialogo tra Diotima e Socrate: la Poesia e l’Amore per Breton sono “coetanei” e quasi sinonimi.
Il surrealismo rinnova infatti in maniera nuova quell’unione inscindibile tra l’amore e il poetare inventato nel dodicesimo secolo dalla poesia dei trovatori. Per il surrealismo l’amore è un assioma evidente, il primo principio, il signore universale (nella lingua provenzale/occitanica, a differenza del francese, amors è un sostantivo di genere femminile) che governa la vita e le relazioni inerpersonali e trova (trobar) la sua incarnazione nella poesia.
Riconoscendo poi nella capacità poetica di sublimazione una delle principali origini del modello surrealista dell’amore, Benjamin Péret dice che senza esso nessuno può vedere nella donna (già la “Donna” dei trovatori) “l’essere complementare capace di donare alla vita umana il suo pieno senso”, e che quella “scintilla creata dalla sublimazione sarebbe vana e inutile se non illuminasse il bisogno essenziale incarnato in un essere: la donna”. Anche Péret aggiunge poi che il filtro che “permette di trovare l’eletta nella moltitudine può essere solo la poesia, il luogo geometrico dell’amore e della rivolta” (Il nucleo del cometa, 1955). È possibile parlare di evoluzione o di cristalizzazione (concetto che Stenhal introdusse nella sua riflessione sull’amore) del modello (ideale) di donna nelle raccolte poetiche e le opere di prosa di André Breton fino all’intromissione fiabesca della donna-bambina (femme-enfant) nell’Arcana XVII? Oppure la donna-bambina sussume in sé la maggior parte delle caratteristiche, tutti gli attributi essenziali delle sue predecessore? “Questa creatura esiste”, dice Breton, “anche se non è investita della piena coscienza del suo potere”, e “l’arte deve preparare il suo avvento sul trono di tutto l’impero dei sensi”. “Deve sempre averla davanti agli occhi nel suo trionfo” aggiunge Breton, “mentre mette in fuga i pipistrelli nel loro nauseante volo sillogista, e le lucciole tessono al suo ordine il filo misterioso che solo porta al cuore del dedalo /labirinto.” Non si tratta qui di una Lolita, né della parodia di una bambina capricciosa. La donna-bambina non ha età, perche la sua “complessione disarma tutti i rigori”, persino quelli “dell’età”. La donna-bambina viene, al contrario, rinvigorita da tutti i colpi della vita che la “affinano e insomma la perfezionano come lo scalpello di uno scultore ideale (...) sulla via della perfezione, una via senza fine”. Ma per poter determinare le sue aspirazioni, il corso delle sue reazioni sconosiute anche a lei stessa, bisogna “osservarla a lungo davanti al suo specchio e soprattutto rigettare tutte le maniere di ragionare di cui gli uomini vanno così miseramente fieri e miserabilmente istupiditi, fare tavola rasa dei principi in base ai quali si è edificata, in maniera così egoista, la psicologia dell’uomo”. Quest’ultima non si può in nessun caso, sottolinea Breton, applicare alla donna; la psicologia femminile va esplorata in polemica con quella maschile, “a condizione che dopo vengano conciliate”. Breton promuove la donna-bambina non per opporla all’altra donna, ma perché solo in lei “si trova nella condizione di trasparenza totale, l’altro prisma della visione di cui ci si ostina a non tener conto, perché obbedisce a leggi del tutto diverse, di cui il despotismo maschile deve impedire ad ogni costo la divulgazione”. Il prisma della visione, insomma, che congiunge in sé la lucidità, 72 l’immaginazione e il meraviglioso potere del rapporto giocoso con il mondo (è l’infanzia, per Breton, la condizione più vicina alla “vera vita”) e tutte le possibilità femminili già stabilite o ancora non scoperte, grazie alle quali il surrealismo rispetta, ama e celebra la donna come “una grande promessa”. Sugli sgoccioli di una delle guerre più terribili, mentre sta srivendo Arcana XVII, Breton è meravigliato dalla frase – frutto di una di quelle fantasticherie profetiche femminili – che scopre il modo di evitare la guerra in futuro, e perciò la cita per esteso nel libro: “Oggi bisogna fare figli nuvolosi. Capisci, non figli tra le nuvole, ma figli fatti di pezzi di nuvole”.
Forse oggi a tanti la donna-bambina di Breton pare altrettanto un modello tra le nuvole, oppura persino fatto di nuvole. In quale costellazione sociologica, oltre ai casi individuali, può una tale donna mantenere oppure acquisire tutti i suoi vantaggi? Sarebbe troppo pretenzioso aspettarsi una risposta a questa domanda in forma di ipotesi o tesi rigidamente formulate a André Breton, poeta, non sociologo. Solo chi è adepto di women’s studies può, d’altro canto, giudicare in quale misura le varie correnti del femminismo simultaneamente presenti con tale vigore negli ultimi decenni abbiano nel frattempo rinunciato a “schemi maschili” come esigevano Breton e gli altri surrealisti. È d’altro canto indubbio che nella nuova etica dell’umanesimo (surrealista) di Breton alla donna viene assegnato un ruolo decisivo, riformatore. Ma non sembra questa un po’ esoterica, spirituale-erotica – mistica in confronto a, per esempio, la pragmatica volontà di potere femminile che – in opposto a quella maschile – si è evidenziata anche nel movimento femminista? Benché l’attuale e futuro ruolo riformatore della donna non si fondi per Breton solo sull’evidenza della donna amata – la musa surrealista, ma anche sugli esempi di poetesse, artiste, intelettuali attive nel movimento, di cui egli stesso scriveva, lanciandole, l’amore rimane lo stesso la prima pietra e contemoraneamente la cima della sua sfera. L’amore è la fuga dalla solitudine, dal deserto del soggetto pensante, a cui fu condannato dall’ego cogitans; amando il suo oggetto, una persona concreta, attraverso questo punto d’appoggio vivo, questa esistenza a parte, egli acquisice di nuovo la pienezza di sé come essere umano. L’amore è questo “stato di grazia” in cui subentra la conciliazione tra il soggettivo e l’oggettivo, l’esterno e l’interno, l’unione dello spirituale e del fisico, quando – dice fra l’altro Breton – “l’esaltazione al culmine del piacere dei sensi non si distingue più dalla realizzazione folgorante di tutte le aspirazioni dello spirito”. Ma l’affondare nel trance, sottinteso dall’atto amoroso, Breton lo esige in modo analogo nell’atto della creazione poetica, artistica, e quindi non bisogna stupirsi troppo se fu da alcuni considerato un parente moderno (laico) del Maestro Eckhart, di Jacob Böhme (Breton si riferisce anche a santa Teresa di Avila!) piuttosto che di Hegel, Marx o Freud, ai quali la sua dottrina si appoggia in parte, in modo del tutto personale, ma esplicito. Siccome il surrealismo ebbe il coraggio di collegare quanto è piu lontano, contraddittorio e inconciliabile dal punto di vista della routine, della ragione, della scienza, alla ricerca di quell’acme dello spirito che abolirà/sopprimerà il giogo del dualismo, in cui la veglia non sarà più opposta al sogno, la realta all’immaginazione, il passato al presente, ecc., va sottolineato che egli nel farlo non esitava a sottomettere la strada di sviluppo al proprio slalom tra materialismo e idealismo, far tesoro anzi di diversi elementi del pensiero mitico (dal patrimonio celtico agli indiani americani), del tesoro dell’utopia sociale di Fourier, ispirandosi verso la fine persino al Cabala.
Così il surrealismo, con Breton aveva tracciato a poco a poco la strada a un originale disegno antropologico, in cui all’essere (più che al sesso) femminile fu relegata una funzione salvifica, ma non un viso sociologicamente stabilito, generalizzato, subito riconoscibile. Mi permetterei di dire che con ciò ci ha indebitato piu che sdebitato. Un lontano 15 maggio, nel 1871, nella sua famosa lettera a Paul Demeny, Arthur Rimbaud dice:
“Quando sara spezzata l’infinita servitù della donna, quando ella vivrà per se stessa e di se stessa, quando l’abominabile uomo le restituirà la sua libertà, ella sarà anche poeta! La donna troverà lo sconosciuto. I mondi delle sue idee saranno diversi dai nostri? Ella troverà cose strane, insondabili repellenti deliziose; noi le prenderemo, noi le comprenderemo.”

Numerose artiste, poetesse, intellettuali hanno intessuto le proprie scoperte nel surrealismo francese e internazionale, ma il contributo femminile rimase lo stesso all’ombra di un movimento in apparenza “maschile”, che la critica ha finora valutato in modo non sufficiente o persino del tutto taciuto. Per fortuna, lo hanno ricevuto e compreso almeno i compagni di strada surrealisti.
Rimane ancora da chiedersi: “l’eterno femminino” si accontenterà della parità dei sessi o continuerà la propria ricerca del senso della vita, invece di acconsentire alle nuove capsule globalizzanti da cui la donna oggi, come anche l’uomo, è irretita da tutte le parti? Si ricordino i versi di Breton:

La mia donna dagli occhi di acqua per bere in prigione
La mia donna dagli occhi di legno sempre sotto accetta
Dagli occhi del livello d’acqua del livello d’aria e di fuoco

(Legame libero, 1931)

P.S. Sono dell’opinione che le ispiratrici di tre opere chiave in prosa di André Breton, a cui mi sono richiamata più spesso nel testo di sopra, meritino di essere identificate più da vicino. Sotto l’intimo sopranome di Nadja si nascondeva Léona Camille Ghislaine Delcourt, nata nel 1902 a Lille, impiegata saltuariamente a Parigi come commessa, attrice e ballerina. Dopo l’incontro con Breton (ancora sposato a Simone Kahn) nel settembre del 1926, aderisce per un breve periodo al movimento surrealista, ma gia nella primavera del 1927 viene internata, e, su richiesta della sua famiglia, rinchiusa a vita in un manicomio nel nord della Francia, dove muore nel 1941. Salto il nome della giovane donna che nel cuore di Breton sostitui trionfalmente Nadja, nel terzo capitolo dell’omonima opera, perché abbandonò l’autore dopo un breve rapporto pieno di passione. È molto piu conosciuta Jacqueline Lamba, ispiratrice dell’Amore pazzo, seconda moglie di Breton e madre della sua unica figlia. Nasce nel 1910 a Parigi, dove incontra Breton nel 1934, partecipa attivamente al movimento e divorzia nel 1943 durante il loro comune esilio a New York, sposando in seconde nozze lo scultore David Hare. Oggi viene considerata un’artista surrealista molto piu importante di quanto le fosse stato riconosciouto. Jacqueline muore nel 1995 in Francia. L’ispirazione per Arcana XVII fu trovata da Breton in Elisa Claro, nata in Cile, di cui si innamora nel 1943 a New York. Questa donna divorziata si trova in quel momento sull’orlo del suicidio per la morte di sua figlia, mentre Breton si dispera per l’apocalissi della guerra in corso, ma anche per la perdita indiretta della figlia Aube. Il nuovo amore fa nascere una nuova speranza nei due disperati e porta loro la salvezza, la vita nova: da una specie d Libro dei morti Arcana XVII si trasforma in modo sottile in un epitalamo, una canzone di nozze. Elisa sposa Breton e vive con lui a Parigi fino alla morte di lui. “È la donna più straordinaria nel gruppo dei surrealisti dal 1946 in poi”, testimonia la pittrice americana Marie Wilson, “una persona profonda e meravigliosa... una presenza importante... una donna molto severa, molto introversa, profonda, che ha contribuito infinitamente all’evoluzione del surrealismo”, ma nel contempo molto ritirata, per quanto acquistasse grande fama con collages e oggetti d’arte fantasiosi. Elisa era poliglotta e grande conoscitrice delle opere filosofiche di Hegel (e non solo di Hegel), custode discreta e premurosa del patrimonio bretoniano fino alla morte, avvenuta di recente.

(Traduzione dal croato: Iva Grgic´)

Saggio ripreso con l’autorizzazione dell’autrice da La Battana (Rijeka - Fiume), nn. 153-154 / Luglio-Dicembre 2004.