Giorgio Patrizi
Per Edoardo Cacciatore
All’inizio del nuovo secolo, forse il Novecento andrà ripensato, riletto,
riformulato e andrà così finalmente colto il lavoro di chi, nell’accumulazione
delle voci che è andata riempiendo in modo quasi parossistico le pagine e le
menti di questi ultimi anni di letteratura, ha saputo costantemente mantenere
viva e lucida la creatività e la consapevolezza del discorso poetico. Troppi
lirismi, intimismi, evocatività di grana grossa, pretestuose epifanie occupano
le antologie di questi cento anni aperti dal dramma del Moderno – la perdita
della totalità e la scoperta dell’ideologia – e chiusi dal dramma
di non riuscire ancora, se non in modi imperfetti e luttuosi, a far rimarginare
la ferita provocata da quella perdita, mentre discorsi e scritture hanno tentato
in tutti i modi, nel corso dei decenni, di assuefare e risarcire l’individuo
tormentato da quello scacco. Di fronte a questa patetica e dilaniante ricerca
di verità, la lingua della poesia ha battuto i sentieri più diversi ma difficilmente
è riuscita a forgiarsi gli strumenti di una ‘ricostruzione’ paziente
e appassionata, utopica e meticolosamente scientifica assieme. Ed è per questo,
evidentemente, che quando Hocke deve indicare i testi che attraverso i secoli
della storia della poesia italiana testimoniano questa urgenza di un approccio
‘manieristico’ al mondo ad un solo autore del Novecento italiano
fa riferimento: ad Edoardo Cacciatore che, con il rigore di studioso estraneo
ai gruppi e alle fazioni, Hocke definisce uno dei più notevoli poeti contemporanei.
Cacciatore, manierista, neoretorico, gnomico, è autore di una poesia che costituisce
una sorta di apax nel nostro Novecento, oggi finalmente raccolta e ripubblicata
da un fondamentale volume dell’editore Manni. È una poesia che non guarda
tanto ai modelli italiani coevi o della tradizione in cui ha le proprie radici
la letteratura di questo secolo. Piuttosto si rivolge ai grandi testimoni della
crisi – espressiva e conoscitiva – di cui si è detto, Eliot o Benn,
e intende riformulare forme metriche chiuse, in una grande
varietà di misure e di accenti, verso l’esempio del sonetto elisabettiano,
che suggestionò anche Eliot per la duttilità di un metro capace di consentire
“la mescolanza sui generis di passione e di pensiero, di sentimento e
di raziocinio”, come scrisse Mario Praz. Cacciatore soffre, nella storia
della poesia contemporanea, proprio di questa singolarità, della propria radicale
estraneità ai modelli dominanti nella poesia del secondo dopoguerra.
Due sono, egli scrive in un saggio del ‘58, i caratteri della creazione
poetica, la sua “toccante immediatezza” e la sua “gradualità”.
In entrambi questi caratteri si compie la prossimità alla vita della poesia
e quel movimento che la conduce verso una sempre più completa adesione all’alterazione
che regna nell’universo. La crescente riconoscibilità del mondo nella
poesia, la possibilità di quello di specchiarsi, in qualche modo, in questa,
è descritta con estrema lucidità e, secondo il binomio dei geni, ragione e passione.
Tutte le possibili articolazioni dell’esistenza sono ricondotte al moto
che le attraversa e le nutre e il medesimo ritmo è riconosciuto ugualmente
nella poesia, nella specificità del suo statuto discorsivo ed enunciativo. La
scandalosità del messaggio poetico è allora proprio nell’“indiscrezione”
di cui scrive Cacciatore: “se tu, con sgombra mancanza di tatto, invece,
ti rifiuti a quegli accomodati trofei, a quei tropi retorici messi in auge dagli
accreditati detentori di coscienze; se tu fai capire chiaro e tondo, con tutto
il tuo dire e con tutto il tuo fare, che il tuo linguaggio è astruso perché
ha fatto scorrere la lingua prensile paro paro, senza mai risputarne gli avanzi
più ostici, sopra tutte le astruserie della realtà così prossime talora all’allucinazione,
allora ecco questa tua assoluta mancanza di tatto... può far perdere la bussola
al cosiddetto consumatore di cultura”. . Il lettore è introdotto, dal
lessico composito e straniato, in un universo linguistico dove tesi di rilievo
speculativo – tesi, appunto, che intendono dimostrare cosa sia e come
funzioni il pensiero – vengono svolte e sostenute dall’articolazione
logica della riflessione e dalla sua grammaticalizzazione; la persuasione è
raggiunta attraverso la verifica della consequenzialità del senso del discorso
sul piano semantico e su quello fonico-ritmico. L’esperienza del linguaggio,
qui
tesa a recuperare i più diversi livelli di espressività, è l’esperienza
dello spazio di una ragione non regolata da ordini cartesiani, ma piuttosto,
come si è già detto, da equilibri pitagorici.
Esistono testi il cui destino sembra essere quello di perdersi nel mare dell’intertestualità.
Sono scritture provocatorie, irriducibili che, nell’istante in cui si
scontrano con la tradizione o con le ideologie dominanti, provocano deflagrazioni,
rigetti e dunque processi di rimozione, di occultamento, di silenzioso assorbimento.
. Sarebbe difficile rintracciare il nome di Cacciatore nelle più diffuse antologie
di poesia italiana. Ad accostarlo, a studiare, analizzare i suoi testi sembrano
essere proprio coloro che avevano attraversato l’avventura della neo-avanguardia
e dello sperimentalismo degli anni Sessanta, consapevoli di come e quanto, dietro
quell’esperienza, ci fosse l’acutissima presa di coscienza del linguaggio
di La restituzione (del ‘55) o de Lo specchio e la trottola (del ‘60).
A chi poi frequentava la teoria e la critica letteraria fuori d’Italia,
il nome di Cacciatore ritornava, di anno in anno, da recensioni, traduzioni,
antologie. Con una sorta di fenomeno di “ritorno del rimosso”, alla
coscienza della poesia italiana era restituito, dall’esterno, un testo
che, magari assunto ed interiorizzato da diversi poeti contemporanei, era però
misconosciuto, appunto rimosso. Ed ecco allora Cacciatore, tradotto in tedesco
dalla rivista “Merkur” negli anni Cinquanta, o recensito dal “Times
Literary Supplement” come una pietra miliare del Novecento italiano, o
tradotto nell’antologia Altro polo edita in Australia (Sidney 1980) dedicata
ai più importanti poeti italiani contemporanei. La sua poesia si afferma come
un’esperienza importante del nostro Novecento: è “un pensiero in
forma di poesia” che, come tale, non cessa di svolgersi, di arricchirsi,
di amplificarsi. Definire quanto a questa voce debbano le riflessioni teoriche
e molti tra i testi più rappresentativi della poesia di questo secolo è un’operazione
complessa che, oltre a rispondere ad una istanza di rigore filologico, si pone
come un dovuto atto di risarcimento.