Hrvoje Pejaković

(Zagabria, 1960 – ivi, 1996)

 

 

(Naslijedismo…)

Ereditammo:
le sere e l’urlo,
l’errare e l’orlo,
le sagome nella nebbia.
La mela di dissidio la mela di conversazione.

 

IN QUESTO MOMENTO   (U ovom trenutku)

La mela da noi morsa si fende
in due metà, i rondoni sul centro
tratteggiano la linea che non devo
varcare. Non avveniva,
non avviene, non avverrà: e poi
perché del resto nascondere il viso tra
le mani, declinare il mai? Nell’occhio
cieco appena moti di partenza, semiprofilo
coperto di ragnatela. Per il sussurro
dalla tua metà, mille giorni
nella mia. Ma quest’eredità di anni
anticipatamente afoni da collocare
ancora nel buio, quel cavo dente
molare di ricordi sempre ritoccato
dalla lingua ormai ingrossata
d’insonnia…

 

(Pod crnim suncem…)

Sotto il sole nero.
Nel silenzio paludoso,
nel bosco di voci smarrite.
Nel regno dove la spada non zappava che sul nome della ferita.

 

INCOMPIUTO  (Nedovršeno)

Puoi scrivere solo quello che puoi
pronunciare, puoi pronunciare solo quello che
puoi respirare, puoi respirare solo quello
che sei anche ieri. Se entri nel prossimo
giugno in quella cucina, giacerà sullo scaffale
un piattino con l’olio raggrumato, dimenticato
dalla scorsa estate. La vita è

 

Traccia, frammenti  (Trag, ulomci)

Scelta

Ebbi appena pulito la stufa, cavato i libri dai pacchi, ebbi appena fissato le riproduzioni sulle pareti e trovato il posto migliore per il giradischi, quando nella stanza irruppe Tutto. Bell’albero Tutto, orrendo Tutto; da esso dipende tutto e da esso proviene tutto, a tutti esso è necessario e lo seguono con lo sguardo e lo bramano e da esso escono anime. Scatola Tutto, soffione Tutto: con una collana di cristalli con gli occhi della note con antenne tremanti d’insetti luccichio di giornali sorriso di Marilyn Monroe con bersagli dipinti dalle associazioni di tiro a segno con maschere mortuarie con giardini uccelli col rosso col nero con un libro di sabbia con concerti domestici miniere di sale. Contrariamente alle aspettative, la storia continua poi senza terremoti. Apertura e chiusura di finestre, lettere mute nell’armadietto, sbucciatura di mele, lettura per dimenticare, oblio per poter rileggere. Suolo pietrificato sotto i piedi, cielo d’acciaio sopra la testa.

*

Quando leggo un libro, mi riesce sempre più difficile semplicemente leggere, lasciarmi condurre dalle frasi dove vogliono esse. La lettura assomiglia invece all’investigazione – occhi spalancati, attenzione rivolta in più direzioni, affinché io già dalle prime strappi al libro un senso, che gli restituirò poi, imponendoglielo fino alla fine.

*

L’affermazione di Jakobson che nella lingua non esista la proprietà privata, è difficile, per quanto volessimo considerarla profondamente vera, accettarla con allegria. Non suona essa (più dolorosa appunto in quanto è vera) assai minacciosa, quasi un’eco di quanto accada nel corso delle rivoluzionil e d’altre grandi scosse sociali, quando l’Eterno irrompe con la forza vittoriosa nell’Interno e non ci lascia nulla di veramente nostro a cui potremmo ricorrere? È allora il dovere del poeta di provare ad affrontare, con ogni mezzo a disposizione, la frase di Jakobson, di provare a creare quell’impossibile proprietà privata, un necessario pezzetto di spazio recintato in cui è lecito rilassarsi, ascoltare la musica, guardare quadri, conversare… Sì, conversare soprattutto, conversare in quella maniera in cui nel mondo privo di privatezza ciò non è possibile mai. Ma quel sogno è irrealizzabile, la lingua (lingua dei nostri padroni, lingua nostra padrona) ci possiede fino all’ultimo capillare, ci abita senza residui con la sua crudele presenza assente.

(ANGOLO SETTENTRIONALE, 1992)