Prefazione

a Grytzko, in memoriam
a Giovanni
a Massimo
a Tonko

          Il manoscritto di quest’opera era pronto nella sua prima variante alla fine di gennaio del 2000. Andava pubblicata, sull’amichevole suggerimento di Grytzko Mascioni, a mo’ di supplemento ad un’antologia delle mie poesie in proprio, effettivamente apparsa in raffinata veste editoriale dalla casa Book di Bologna. Rinviate invece «ai tempi migliori» (si fa per dire!) le traduzioni dai poeti croati, l’intervallo trascorso mi ha dato la possibilità d’ampliarne e d’aggiornarne la scelta. Così la «gionta» (per dirla questa volta con Ariosto) ha superato se stessa (osservazione ironica ed autoironica!), assumendo le proporzioni d’un libro vero e proprio. Ai 15 poeti del 2000 se ne sono uniti altri 7, senza che fossero trasgredite le premesse iniziali: 1. venivano – e vengono, cioè – presentati esclusivamente autori scomparsi (implicito il vantaggio di opere circoscritte sott’occhio del critico-traduttore); 2. tali scomparse dovevano – e devono ancora – riferirsi al periodo posteriore al 1945 (ossia al secondo dopoguerra). All’insegna di «non ogni male viene per nuocere» l’intervallo trascorso mi ha dato la possibilità di rileggere meglio alcuni autori accanto ai quali forse ero passato troppo frettolosamente e di soffermarmi, d’altro lato, con attenzione sul lavoro degli altri recentemente mancati. Il fatto che tre poeti su 22 siano scomparsi nel Duemila, altri quattro negli anni ’90 e ben sette di loro, infine, negli anni ’80, fa risalire al di sopra del 50%, indipendentemente dai dati anagrafici, i nomi collocabili nella poesia grosso modo contemporanea, non solo moderna.
         (Aggiungo tra parentesi d’essermi occupato, fin dalla metà degli anni ’70 anche – e soprattutto! – dei poeti viventi. Lo erano ancora molti al di qua del limite della miglior vita, senza contare le scelte da Tadijanović, Ivšić, Slaviček… tuttora presenti nella contemporaneità letteralmente intesa, nonché in maggior parte i protagonisti d’una panoramica Giovane poesia croata di cui si danno le indicazioni nella Nota posposta. Tutto quanto, insomma, idealmente parlando, potrebbe costituire il punto di partenza d’un secondo volume, la cui realizzazione dipenderà non tanto dalla buona volontà del sottoscritto – tempo, forza e salute permettendo – quanto dallo sbocco editoriale di quest’opera, tuttora incerto. Ma il rischio – anzi il lavoro a rischio! – in questo senso ha costituito, si direbbe, la fatalità archetipica dell’autore croato: è sufficiente far ricordare che il bilingue Vladimir Nazor non riuscì a pubblicare in Italia le sue poesie in proprio sparse nelle riviste lungo la penisola, né quei Lirici croati, editi infine nel 1942 a Zagabria! Sfortunato Nazor rispetto a Luigi Salvini, curatore più abile nello stesso periodo il quale, forse in quanto cittadino italiano, poté far stampare presso Garzanti i suoi Poeti croati moderni. Un discorso a parte costituirebbe la scarsa opportunità, a dir poco, d’occuparsi di poesia nazionale ai tempi dell’ex-stato: anche il sottoscritto – colpevole degli Otto poeti croati (da Ujević a Vučetić) e della menzionata Giovane poesia croata – dovette sopportare degli attacchi giornalistici formato «lenzuolo», basati esclusivamente sulle insinuazioni politiche.)
         Nel corso dei secoli, a partire dall’umanesimo quattro-cinquecentesco in croato (Marulić) e in latino (Sisgoreus era di Sebenico e Pannonius, che le enciclopedie italiane danno per ungherese, era nato e morto in Croazia) al petrarchismo dalmata e raguseo (riferibile, cioè, alla Repubblica di Dubrovnik), ad un manierismo ad alto livello (Bunić Vučić) ecc., i croati – privi di completa autonomia dopo la caduta del loro stato medievale (si ricordino: la Serenissima, l’Austria degli Absburgo, rispettivamente l’Austria-Ungheria, le lotte secolari contro i turchi, l’infatuazione panslavista come premessa alle due Jugoslavie, quella monarchica dei Karagjordjević e quella titina) – hanno sviluppato un certo virtuosismo dell’elusione o della non-obbedienza. La poesia, pertanto (a differenza del romanzo e del cinema) si è rivelata il genere privilegiato di tale fuga verso la retorica. Ciò ha permesso agli autori di schivare il dettato, fin dai tempi del realismo socialista suggerito dall’est e di mantenere anche un vigile atteggiamento autocritico verso i propri connazionali e, negli ultimi tempi, perfino verso la propria nazione finalmente ricostruita dopo un’attesa di nove secoli (attesa profetizzata dal re Zvonimir, ucciso per mano non straniera). Più delicati rimangono altri due fattori: l’autore già in opposizione che poi, col cambiamento dei «venti», diventa «ufficiale» (a partire da Krleža) e tace, oppure sfrutta la sua propria (e va detto relativa!) intoccabilità per promuovere o per contrabbandare l’«eresia» (e si vedano i casi di Ivanišević, Vučetić e Kaštelan). (Chi conosce alquanto la storia culturale della Serenissima nel Seicento – e penso in primo luogo agli «Incogniti» e a Loredano stesso – non dovrebbe sorprendersene oltre misura!) Pertanto, altri poeti sono stati colpiti dall’ostracismo ideologico nel secondo dopoguerra (da Ujević alla Košutić, a Šop), rispettivamente imprigionati «a (lunghe!) puntate» (come Gotovac) in seguito alla «primavera croata» del 1971. Si registri anche il caso dell’emigrante (quale fu Vida) non appartenente all’estremismo in esilio. Appena la generazione intorno alla rivista «Krugovi» (Circoli) negli anni ’50 (a cui appartenevano Slamnig, Gotovac, Ivančan, Šoljan e altri) promosse un europeismo senza frontiere (brillanti le traduzioni di Slamnig-Šoljan dall’inglese, compresi i testi antologici di Edgar Allan Poe), mentre quella all’insegna di «Razlog» (Ragione), rivista del decennio successivo, perfezionò un neoermetismo a volte «filosofico» (spaziando in poesia da Eliot a Montale, da Pound a Ponge, da Char a Pavese, da Michaux a Chlebnikov). I protagonisti (a differenza di Petrasov Marović, Sever e qualcun altro) ne sono in gran parte viventi e tuttora operanti. I dati anagrafici dell’ultimo autore (Pejaković) segnalano un salto alla postmodernità e al glottocentrismo personalmente scontato.
         Non del tutto secondaria si è rivelata l’appartenenza plurinazionale di alcuni autori: ciò riguarda soprattutto la componente bosniaca (orientaleggiante, «esotica») nella poesia croata, a sua volta o prevalentemente mediterranea o mitteleuropea. In questo senso s’inserisce nel contesto il primo Andrić (non quello successivo), mentre Dizdar ne rappresenta un caso limitrofo, in quanto le «sue» stele (gli stećak) ricoprono in parte l’Erzegovina popolata dai croati. Archetipicamente bosniaco è anche Nikola Šop, per quanto vissuto prevalentemente in Croazia. Nello stesso tempo (ma è un altro problema) quest’autore rappresenta il caso di «lancio» controcorrente (ideologicamente già non innocuo nei tempi antimetafisici), che i pochi (potrei dire anche: noi pochi) avevano intrapreso tramite l’inglese e l’italiano, ma parallelamente anche in patria, per «correggere» le irremovibili graduatorie antologiche nazionali.
         In breve, la poesia croata non è una poesia chiusa: semmai la minaccia di chiusura le veniva quasi sempre dall’esterno e voleva colpire proprio la cultura che osava alzare la testa e, quindi, anche la poesia, per quanto fosse stata meno afferrabile degli altri generi, mai attesa dalle code dei lettori (come già in Russia) e, nei tempi recentissimi purtroppo, spinta a margine da un giornalismo sempre più scandaloso e vuoto.

Ed ora mi consenta chi legge alcune indicazioni-flash sugli autori, come seguono.
         Il Dante di Vladimir Nazor va collegato, anche se del tutto indirettamente, con la traduzione che questi ne intraprese dell’Inferno. Uscendo invece dai confini della Croazia grottescamente indipendente (1941-1945, in realtà satellite della Germania nazista e cedevole verso l’Italia mussoliniana) sul suggerimento di Ivan Goran Kovačić (poeta che prestissimo sarebbe caduto per mano dei četnik serbi, nello stesso 1943), scrisse inni a Tito, abbandonando Purgatorio e Paradiso, tornò a Zagabria a capo dei partigiani a cavallo, fu eletto (nominato!?) primo presidente della Croazia nell’ambito della «seconda» Jugoslavia (formalmente federativa), ma con poteri limitatissimi. E si preferì non menzionare la sua silloge liberty del 1912, significativamente intitolata I re croati (che aveva trattato in maniera esauriente il glorioso medioevo fino alla «nave di Zvonimir», arenata sulla sabbia e con lo stendardo a scacchiera; simbolo per nulla gradito ai tempi della stella rossa a cinque punte!). A proposito del poema Dante mi tocca confessare una mia amnesia: mi ero scordato completamente, cioè, della rispettiva autotraduzione di Nazor. Rilettala, però, non volli eliminare la mia! L’italiano di questo poeta (la cui «ultima triade» – titolo suo – era costituita da Carducci, Pascoli e D’Annunzio) non raggiunse mai quello degli ermetici, contemporanei più giovani, né superò, direi, quello dell’odiosamato «maestro» Tresić Pavičić (il quale pur aveva pubblicato una sua tragedia autotradotta dal Treves triestino, non quello torinese).
         TIN UJEVIC, il mito delle generazioni successive e ormai imposto mito «scolastico», alquanto in contraddizione con l’esasperato individualismo di questo poeta, rappresenta sul piano nazionale un permanente punto d’irradiazione. Se la bohème autoesaltata, un neopetrarchismo tardivo, un simbolismo (che spazia da Laforgue a Verhaeren) e un estetismo patetico appaiono alquanto datati, come pure un verbalismo funambolesco in versi, non a caso viene riscoperta in Ujević la poesia in prosa. Però, complessivamente si devono a lui visioni cosmiche e sincretistiche, nonché un istintivo esistenzialismo opposto agli obblighi e doveri di qualsiasi genere. La storia da Ujević fu vista attraverso il bicchiere.
         Difende l’individuo a suo modo anche Ivo Andrić, ma in maniera non scintillante e urbana, bensì tramite una frase dall’andamento lento, orientaleggiante. La storia preme sulla natura (vero «libro» in una sua nota pagina di prosa, che richiama Galileo), la quale natura, a sua volta, rivela sotto una costante malinconia inguaribili paure ancestrali. Non a caso le «porte» in Andrić sono significativamente «chiuse» e il titolo stesso della sua silloge giovanile allude all’esilio ovidiano sul Mar Nero (per questo panslavista Roma rappresentava l’equivalente dell’Austria).
         MIROSLAV KRLEŽA ricoprì tutti i generi letterari (occupando scaffali di biblioteche pubbliche e private), sparse invettive a destra e a manca (anche a sinistra, cioè, non si unì ai partigiani e rischiò la vita sotto il governo ustascia), fu espressionista suo malgrado e neobarocco alla Gadda. Si schermì lucreziano dalla metafisica (la sua allergia più ostentata) e curò il trauma della Grande Guerra con l’enciclopedismo (tardivo) e l’onirismo. Fu consapevole, invece, della diacronia civile, nazionale e universale (senza contraddizione), dimenticando quasi la simultaneità (si pensi ad Apollinaire e Cendrars) della sua poesia giovanile. Gli italiani non rappresentavano la sua area preferita (se non i giganti tipo Michelangelo, su cui scrisse un dramma). Eppure, attratto dal futurismo programmatico di Marinetti (oltre la personale barriera ideologica), inclinò al beffardo e non compromesso Palazzeschi, mentre con Papini (questi i suoi tre saggi lunghi) condivise, tra i più e i meno, l’insistente rabbia contro l’imbecillità.
          DORA PFANOVA è la poetessa delle sfumature a bassa voce. Lo scorrere del tempo, tipico del neocrepuscolarismo croato, protrattosi ancora tra le due guerre mondiali, segna quest’opera in cui il «tu» maschile si direbbe più inesistente che assente, implicando alla fine anche l’assenza dell’io. Poesia «senza destinatario» diretto lascia al lettore sentimenti astratti e una vaga spiritualità.
          ANTUN BRANKO ŠIMIC, morto giovanissimo (appena un po’ più anziano di Janko Polić Kamov, 1886-1910, insostituibile proto e postmodernista), conobbe presto (entro il 1921) la poesia italiana (Ungaretti compreso) tramite le traduzioni francesi e ne scrisse con entusiasmo, puntando però su Cardarelli. La sua propria parola petrosa, archetipicamente legata al paesaggio erzegovese, ebbe anche altre spinte: dalla «geometria» di Arno Holz e da altri espressionisti tedeschi alla pittura cubista. Similmente a Karl Kraus egli fondò e riempì da solo (1917-1919) due riviste dai titoli allora sovversivi: «Tormenta» e «Attacco».
          In SIDA KOŠUTIC è riconoscibile il ricorso alla fiaba, area privilegiata della narrativa incomparabile di Ivana Brlić Mažuranić (1874-1938; solo restrittivamente la «Andersen croata»; tradotta a Londra nel 1924 e poi tre volte in italiano in volumi ormai introvabili). È una poesia all’insegna della meraviglia, del «tu» assente-presente, del sogno a cui comunque si preferirebbe la sua realizzazione, dell’apparente paradosso evangelico (dove il poco diventa molto!) e del dolore «positivo» che fa crescere il soggetto.
          Di DOBRIŠA CESARIC si omette un omaggio esplicito a Esenin (tradotto in altra circostanza), modello riconoscibile un po’ dovunque nella scia della tradizione slava (e russa particolarmente) in generale. È un poeta «in sordina», riuscito a schivare la storia in maniera più assoluta, opponendole tacitamente la storia personale, il destino degli umili (quasi eterno), la botanica (stato in luogo e negazione, anzi, del movimento!), e il rapporto tra tempo e Tempo. Ormai da decenni autore «scolastico», per la sua perfezione formale, sopportato come innocuo ai tempi del dogmatismo, ormai recepito anche in forma musicale di chanson.
          La (ri)presentazione di NIKOLA ŠOP si riduce appena ad alcuni momenti-chiave: principalmente alla coesistenza dell’arcadia (neocrepuscolare) – dalla quale sparisce il soggetto autobiografico e misterioso, lasciando perplessi gli «ospiti» evidentemente materialisti – e dell’apertura cosmica senza precedenti. In effetti gli «ospiti» librati (nella polivalenza semantica) saranno anche gli astronauti ante litteram di fronte alle sfide perpetue dei nuovi «orli», nella ricerca dei nuovi spazi salvifici. E tutto quanto espresso da un visionario, traboccante dalla sua reale immobilità fisica. Infine, la novità riguarderà anche i neologismi, il cui uso si direbbe al pari del non visto e non sperimentato, affine a quello nel Paradiso dantesco.
          DRAGO IVANIŠEVIC aveva tradotto presto Lorca, Ungaretti (di cui, anzi, fu amico) ed Éluard. Sfiorò nel 1941 il surrealismo (con la sua prima silloge), ma a posteriori rivela certi tratti comuni anche a Montale: dall’espressivo fonosimbolismo consonantico ad un ripensamento ormai critico e maturo (perfino autoresponsabile) sulla storia non magistra. La fugacità di tutto (il potere compreso, brechtianamente canzonato!) non suscitò in lui lamentele o rimpianti crepuscolari, bensì la consolazione metastorica della grecità di Hölderlin, della trasparente luce mediterranea. Delle novità d’Ivanišević la critica nazionale non s’accorse, purtroppo, che assai tardi e quasi in retrospettiva.
          Un presunto naïf (per quanto abbia scritto delle monografie, una delle quali su Nazor), ma alquanto mascherato, appare invece ŠIME VUCETIC, volutamente irregolare e asimmetrico, surrealista pur istintivo nei suoi salti semantici e nell’alternazione continua tra il micro (ingrandito) e il macro (in secondo piano). Non osando contraddire la storia, egli sbriciolò il discorso, nella cui atomizzazione osò, invece, contrabbandare qualche spunto patriottico-croato. Il suo Mediterraneo è natura, non storia civile, pertanto non privo di tenerezza dall’autore espressa verso qualsiasi forma di vita.
          Fu doppia sofferenza, individuale e universale, la storia per VIKTOR VIDA, esule e suicida, lontano dalla patria. Forse il suo dolore struggente (poiché i vinti hanno sempre torto!) deve qualcosa anche al surreale nella poesia ispanica. Comunque, la sua metafisica, nelle rispettive implicazioni dell’al di qua, giunge all’esemplare nobiltà di perdono. Distaccato dal comunismo, ma già antifascista, smentì una sua macabra invenzione (con cui aveva voluto scuotere gli alleati contro la Croazia «indipendente»), a sua volta ricopiata da Curzio Malaparte in Kaputt, come scandalosa verità (da allora citatissima!)
          MAK DIZDAR, raccoglitore e libero interprete delle tracce scolpite (più che scritte sulla carta) dei bogumili, suggerisce pure l’equazione tra vita e sofferenza, però in maniera ancestrale. Di fronte ad un mondo imperfetto (opera del cattivo demiurgo – secondo gli gnostici), l’apocalisse si prospetta come consolazione, e l’eterno (gustato nell’istante) come meraviglia. Poeta delle dissipate esistenze, delle vite non vissute, Dizdar riattualizzò bravurosamente un linguaggio arcaico, fuori norma, all’incrocio delle razze in una Bosnia plurinazionale e multiculturale.
          JURE KAŠTELAN fu partigiano, ma anche sottilmente antidogmatico avanti lettera. Nessuna antologia croata riporta la sua lapidaria Autocritica del 1940! Si direbbe che similmente a Camus (poiché il tempo «cancella» lentamente il morti rimpianti in guerra), egli avrebbe preferito un suo proprio Mediterraneo: dal folclore stilizzato, dalla petraia (Kaštelan scrisse anche una monografia su A. B. Šimić), dai simboli (anche cristiani), ma pure dal movimento drammatico (in questo senso la sua bora, che soffia dal continente verso il mare, tutta verbi nel testo, fa ricordare un brano interamente predicativo di Leonardo da Vinci sull’acqua, che il poeta poté leggere – è un’ipotesi – nella mia traduzione a partire dal 1981).
          Se si esclude l’incontro, parziale del resto, di Tin Ujević con il futurismo, BORO PAVLOVIC ne fu il miglior continuatore, un po’ alla Govoni, quindi alquanto svagato, ma esperto in quanto ai dati storici, che sapeva presentare nelle conversazioni torrenziali e scintillanti. E una serenità fondamentale, malgrado i tempi all’autore non clementi, scintilla appunto dal suo permanente sperimentalismo fino alla barriera delle intraducibili rime ludiche. Si rivaluta, invece ora, in lui il tenero poeta d’amore.
          VLADO GOTOVAC risulta la figura più tragica del secondo Novecento croato. Gli danneggiò irreparabilmente la salute la lunga prigionia (quattro più due anni senza contare la vietata attività pubblica, complessivamente per altri sette anni) durante il comunismo e poi – bizzarra sorte! – l’attentato a metà riuscito per mano d’un intransigente nazionalista («pilotato»!?) nella patria ormai libera, ma non tranquilla. Dandosi attivamente alla politica fin dall’inizio della guerra patria (famosi i discorsi di Gotovac contro i generali dell’intrusa ex-armata ormai solo nominalmente federale), il poeta, conseguente al suo liberalismo, difese sempre le premesse dei suoi scritti ossia il diritto alla libertà d’ogni individuo o popolo. Come d’altro lato non abbandonò mai una poesia semantica, che inclina ora al saggio, ora all’aforisma, ora alla trattazione filosofica. Il confronto con Havel (in spe!) va completato almeno con quello dell’amata Simone Weil. Il caso di Gotovac s’impone come una nuova croce: la diacronica identità nazionale (da lì anche l’importanza degli antenati) rischia d’essere tagliata dalla sincronia della delusione.
          Conforme alla nota definizione pirandelliana dell’umorismo come «sentimento del contrario», IVAN SLAMNIG non cessa di sorprendere con i suoi accostamenti inaspettati ossia con una semantica in continuo spostamento, dove il «superfluo» spesso ruba il posto a quelli che furono già i grandi temi. Surreale, ma non surrealista; ludico ma non superficiale; non restio ai locali toponimi riconoscibili, ma europeo che scopre la sua cultura a tratti, Slamnig accetta la vita come esilio sereno. Consapevole che la poesia può essere fatta di parole (anche gergali) più che di fatti.
          Alquanto proustianamente (si pensi a Les jeunes filles en fleur), ma rivelando anche sintomi psicanalitici, DUBRAVKO IVANCAN osserva l’altro sesso nelle poesie non prive d’una certa narrazione, per passare in seguito (sotto la spinta, si presume), del matematico-nipponista Vladimir Devidé) agli haiku. Di tale forma importata dall’Oriente ci fu (al di là del già obbligatorio schema metrico: 7 + 5 + 7) una vera ondata, sanzionata a posteriori con un’antologia (a cura, appunto, di Devidé), in cui Ivančan appare tra i rispettivi decani. Infatti, negli esempi migliori questo solitario (che una volta mi regalò un Hölderlin tradotto in italiano) riuscì ad alternare l’osservazione scientifica e la sorpresa, la meraviglia e l’analogia giustificata.
          Dopo Krleža fu ANTUN ŠOLJAN il letterato più completo, nel senso che si cimentò nella poesia, nel romanzo, nel teatro, nel saggio, nella traduzione… oltre ad essere stato redattore di riviste e collane, nonché curatore di antologie nazionali e universali. Il suo esistenzialismo legato all’europeismo gli permise di stabilire dalla storia un distacco ironico (perciò forse il suo funerale fu boicottato dai politici). Come pure dal postmodernismo in voga si congedò tramite l’allegoria del superstite «mammut» (modernista!). Si nota, inoltre, in Šoljan la solidarietà generazionale (dalla comitiva spensierata alla «necrologia» all’amico perito), mentre l’occhio dell’«età» già «aurea» coglie l’altro sesso prima della sua trasformazione biologica e sociale (la ragazza che diventa donna e moglie altrui, motivo a sua volta šimićiano).
          TONCI PETRASOV MAROVIC, poeta articolatissimo, si riduce a mala pena ad un’esemplare scelta antologica. La sua opera è mercuriale (si pensi a Roberto Sanesi), il suo precoce fatum mette l’autore ancora in vita a confronto con la sua propria «condizione postuma» (per dirla con Ferroni). Era a suo tempo un alibi per la, pur leggibile, resistenza politica quel tipo di densa metaforicità d’impronta neoermetica. La malattia progressiva s’identifica, poi, con il bestiario, la prospettiva s’affida al ricordo familiare e la preghiera oscilla struggente tra questi due poli.
          Il neoermetismo di JOSIP SEVER, al cospetto di quello mediterraneo di Petrasov Marović, si tinge di tinte più anarchiche, richiamando spazi asiatici. Quest’autore studiò il russo e imparò fin ad un certo punto il cinese, soggiornando anche nei rispettivi paesi. La sua visione è spaziale e alquanto catastrofica; i suoi maestri sono Majakovskij e Chlebnikov; i suoi riferimenti vanno cercati a volte tra le righe (come il RUR di Čapek). Nell’ambito della generazione Sever si distinse per non aver idealizzato l’Ovest (molto prima della guerra patria, durante la quale subì dei danni – sotto gli occhi semichiusi dell’Europa – perfino il cimitero nel luogo natio del poeta, dove furono riportate le sue spoglie).
           Il destino di HRVOJE PEJAKOVIC richiama a distanza, per l’immobilità fisica e l’estrema mobilità mentale (fu anche critico attivissimo), quello di Nikola Šop. Un’esistenza leopardiana, per altro verso si direbbe, contata da un’invisibile clessidra, dove la vita si ridusse all’elenco di oggetti a portata di mano o nel raggio dello sguardo e la parola, già Verbo, passando per la teoria di de Saussure, Jakobson e Lacan, rappresentò tutto: mezzo, culto e disperazione.
          Vorrei precisare che, avendo conosciuto di persona 15 autori sui 22 (Šop frequentato per dieci anni, Pejaković nel suo ultimo, tre incontri con Krleža, l’amicizia con Ivanišević, varie conversazioni con Kaštelan, Gotovac, Šoljan, Sever… quest’ultimo collega vicino dai tempi studenteschi), queste righe e le traduzioni stesse hanno anche il carattere seminascosto di epitaffi, oltreché di omaggi, sia pure tardivi.
          Se ho attinto ad un verso di Slamnig per assumerlo al titolo dell’opera intera, non è stato in base ad una preferenza assoluta (anzi, per anni fino ai tempi più recenti non sono riuscito a stabilire un contatto stimolante con la sua poesia). Al di là del contesto particolare, in cui postmodernisticamente (!?) s’incoraggiano le minoranze e scoraggiano le maggioranze (sempre su scala relativa e a danno dei «paesi in transizione»), «oh, s’io fossi…» mi si è offerto, nella sua polivalenza, come ipotesi di transfert (non freudiano!). Non è forse il traduttore colui che si «autodelega» (sospirando!) al posto dell’autore? Colui che lo trapianta in un’altra area? Colui che riscrivendo si misura con l’originale e spera di prolungargli la vita altrove?
          Educato per decenni sulla miglior poesia italiana, oso aggiungere senza pregiudicare: la qualità della poesia d’un popolo (nel caso concreto ridiventato nazione) non è necessariamente proporzionale ai milioni di abitanti (per essere precisi: circa quattro e mezzo in patria e alquanto meno all’estero).
          Si passi, dunque, ai testi…

14 agosto 2003

Mladen Machiedo