Flora Di Legami

Nel segno di Ermes
Poeti croati del Novecento

Oh, s’io fossiPoeti croati del Novecento, pubblicato sul Quaderno n. 11 di “Testuale”, è un libro agile e denso, quasi una ‘cronistoria’, che offre al lettore un interessante repertorio di esperienze poetiche di confine. I materiali si susseguono e s’intrecciano per raccontare di un processo storico e formale, nei suoi punti d’instabilità, unità e decezioni, in circuito europeo. Un diario a più voci con le quali il curatore ama intrattenersi, sulla soglia ferma dei versi, per un vibrato officio della memoria e per una rinnovata circolazione dei testi.

Nel presentare la raccolta di poeti croati, il curatore, Mladen Machiedo, docente, saggista e poeta in proprio, si mostra compagno di strada di percorsi inventivi che recano incisa l’urgenza di un pronunciamento culturale. Non senza significato lo studioso inscrive il suo lavoro antologico sotto le insegne dell’azzardo, precisando che “Il rischio – il lavoro a rischio! – in questo senso ha costituito, si direbbe, la fatalità archetipica dell’autore croato..”(Prefazione, p.5) Come dire che il nodo di responsabilità etica e stile, nella pratica della scrittura, rimane una sfida aperta.

Un testo ‘scenario’, ove il curatore e regista porta in chiaro le sue posizioni. Difficile non accorgersi che talune delle strategie stilistiche individuate dal lettore interno, come cifra qualificante del lavorio poetico croato, appartengono pienamente alla scrittura di Machiedo. (Poesia, 2002) Si pensi all’intreccio obliquo e problematico di tessere culturali – tra oriente e occidente – e di linguaggi (croato, bosniaco e serbo), da cui si genera un fertile crogiolo inventivo Una pluralità di moduli stilistici, tra grumi sillabici, dilatazioni e slittamenti semantici, che connota gli esiti più originali di talune scritture. Interna al laboratorio del poeta è la traduzione. Il curatore non ha necessità di spostarsi verso dimore linguistiche straniere; anzi, sembra muoversi, con disinvolta eleganza, da una stanza all’altra di una casa-lingua familiare e vissuta, al punto di riportare in italiano minimi giochi semantici e fonici dei testi originari.

La correlazione posta da Machiedo tra poesia e storia “…di croati privi di completa autonomia“ (p. 6) colloca il lettore ‘in medias res’, nel punto in cui cogliere sia il confronto non eludibile con l’esterno, sia le strategie formali di elusione e non-obbedienza presenti in molti dei tracciati poetici dell’antologia. Preme al curatore rilevare le complesse relazioni tra passione, eventi e stile, che si annodano in un fare poetico, la cui tensione critica tenti di slogare, se non il linguaggio, i suoi procedimenti testuali. Si tratta di indicare l’orientamento di un’écriture che, nella diversità delle forme prescelte, nel corso di un secolo, porta le insegne di una irriducibile disarmonia. Condizione da cui si genera una continua ridefinizione, oltre che di spazio e tempo, di precedenti equilibri formali. Così in Nazor la terzina dantesca, segnale metrico di narratività, s’inarca in tesi enjambements, in aspri moduli descrittivi e visionari, che scompigliano adesioni omogenee alla tradizione e al reale. “Lupi mannari, trombettieri e vampiri / Di là vanno cacciando i ladruncoli / Da un angolo all’altro, mentre un branco di schiavi / S’imbratta di melma, da loro stessi rigettata / Nei giorni in cui, incompresa, sterile / La libertà li sovrastò […] Noi non abbiamo paradiso,purché io spieghi / Le vele della mia navicella e tuffi i remi, / All’alto mirando per vedere Iddio. / Il nostro Dio da tempo si disfece e svanì / Oppure si disloca dalla segretezza più silenziosa / Delle nostre profondità. Oppure aspetta che / Un nuovo Lucifero nasca dal nostro male / E scavi l’inferno, affinché Lui, onnipotente / Fabbro, sopra voragini tenebrose faccia sfilare / I cerchi sfolgoranti d’un nuovo paradiso…” (V. Nazor, Dante).

In altri testi il discontinuo del reale rifluisce in modalità di condensazione simbolica, tra prosa e versi, sul metro di timbri crepuscolari: “Sussurrami. Il sussurro è un dolce acquietarsi. Cedi dolore, tu sei stanco, coricati come un leone selvaggio quando la notte scende nel deserto.” (Pfanova, Fantasticheria) e: “Dal cielo di ponente / e dalle melograne scoppiate nell’orto / il sangue stilla…” (Šimić, Ardore). Striati da govoniani cromatismi, metricamente inquieti, avanzano i versi di Krleša narrativi e ipermetri, “Malate e gialle sono forme sanguigne di questa notte di San Silvestro, / e tutti colori squallidi e smunti. / Su, ch’io canti sul cadere della Vecchia stagione,donna morta: […] La luna è sanguigna, / e la gente con pensieri combatte, con libri e stampa. La gente combatte con coltello, piombo e gas, / e unghie, e calcio del fucile, e pugno, / la gente si scanna, e gufi ululano sullo Smroku, / pure questa è notte di San Silvestro.” (Notturno di San Silvestro anno millenovecentodiciasette)

Lungo il sentiero novecentesco di nuove connessioni tra reale e scrittura, non è difficile imbattersi in movimenti ideativi che generano una stilistica del rifiuto, tra visioni e sogni dissonanti, una grammatica del contrasto, tra prosa e verso, vitalità e desolazione della pronuncia poetica, anche all’interno di generi prestigiosi. È caso di Šop, la cui scrittura, dotata di un passo oggettivo e figurale, differenzia la forma del poemetto, tramite fluidi scorrimenti di spazi fisici e mentali e una parola critica con punte ermetiche, “Mi era davvero ignoto quel silenzio lanoso. / Volli appoggiarmi ad una pecora, / ma essa affondò / fuggì abissale nella sua lana, / nel centro lanoso. / Non potei raggiungerla,il rigoglio m’intricava. / Oh tosatori, tosate, recidete, / accorciate,spianate la lana, / ch’io giunga alla pecora. / Nell’abisso lanoso odo il suo belato ed il campano.” (Pastorale lanosa) Mentre in Vučetić la spinta oppositiva si articola nel solco di palazzeschiane irriverenze, “Giuro anch’io: non voglio più nemmeno un briciolo di poesia, / non voglio nemmeno una parola mesta o pazzerella, / non voglio più rispecchiarmi nei cocci, beninteso, / di quest’epoca, di questi spazi vuoti.”(S. Vučetić, Giuro anch’io)

Il discorso poetico si fa più complesso, nel corso del Novecento, nel momento in cui le reazioni alla “spina irritativa del reale”, per dirla con Raboni, non si risolvono in simboliche proiezioni dell’io, ma in movimenti oggettuali, cifra di una perdita di centralità del soggetto, che il linguaggio, con i suoi scarti tonali, rende visibili. E si tratta di tensioni che, pur disposte entro strutture e linguaggi di monolinguismo, non esitano in armonici approdi, ma si dispiegano in fitti incroci di pensieri e cose, segni e sensi che, tramite assonanze o rime interne, insistono su lemmi e figure di vuoto, “In qualche luogo tra le foglie del sonno / Selve assonnate / In kolo / Dondolano / Nel sussurro della tarda luna / Di nuovo qualcuno / È condotto / Dove non si arriva (M. Dizdar, Epitalamio) o sospendono le tradizionali delimitazioni di genere in forme polimetre, prosa e versi, come avviene in Kaštelan. “Un mattino innanzi l’alba è stato falciato da una raffica nel primo anno di guerra... Imberbe, ancora quasi bambino, metteva insieme le parole nei versi... Sparito / Come talpa in terra, / come lontra in acqua / Tuffatosi / come pietra / in mare / in gorgo in turbine / in una profondità selvaggia / Nemmeno io lo cerco più... ( J. Kaštelan, Incontro, inaspettato)

Significativo tassello di un quadro poetico novecentesco, questa antologia documenta e conferma, sotto altra angolazione geoculturale, il passaggio da una linea simbolica, con punte di rarefazioni ermetiche, ad una “recensione della realtà” antilirica. Ci si accorge che nella seconda metà del secolo, la voce poetica, se pure monologica, si racconta per via di minimali frangenti “Il ratto / – del resto soppiattone da un canale qualsiasi / sempre zotico imperscrutabile e tenace- / stacca un tuo filo e lo divora. / Ma quel filo che non si può rompere / e il ratto si ferma d’improvviso senza soluzione. / In quell’istante / – è l’istante suo… – / appare precipitosamente una gatta, /…” (V. Gotovac, Storia quotidiana) o in cronache quotidiane, ritmate da stranianti giochi fonici “Sono morto martedì a Oslo / Pioveva a dirotto. / Mi hanno seppellito venerdì a Zagabria / Ma non importa. / Per due giorni sono stato in paradiso.”(I. Slamnig, Pietra blanca sobre pietra negra)Tracce di una poesia che si fa in momenti quotidiani, tra annotazioni concrete e scarti ideativi che segnano la trasformazione della scrittura, sulla soglia di un’identità dilavata, di una parola insignificante. Tra immediati dintorni e riflessioni, alla poesia spetta, come possibile frontiera, un’intensificazione dell’instabilità metrica, uno spazio testuale increspato da tensioni formali che dischiudono nuovi sensi cognitivi e linguistici, mai stabili.

Su tutta la raccolta, tra figure d’insensatezza, solitudine e visionaria desolazione, domina un orizzonte ideologico ed estetico residuale, in cui lo slancio vitale si annoda, consumandosi, alle maglie del disincanto. Singolare filo conduttore, rosso e nero, della silloge, è una condizione di morte. Che poi si tratti di parola-tema dalle valenze polisemiche è tutto il libro a ricordarcelo.

Metafora di eventi cruenti e luttuosi, “Sangue per sangue lacrima. / Sangue dei morti succhiato dal verme. / Sangue del male che procrea cadavere e carogna, / Sangue e sangue… (D. Ivanišević, Senza titolo); sineddoche di uno spazio-tempo assente, “Da gran tempo mi stesi / E a lungo mi spetta / Iacere / Da gran tempo / […] / Chè acquistai mille nomi / Da gran tempo / Chè il mio nome smemorai / Da gran tempo mi stesi / E a lungo mi spetta / Iacere.” (M. Dizdar, L’iscritto sul tempo); metonimia di una scrittura che frequenta il buio della storia e dell’esistenza, per indicare, in frammenti visonari, tesi segnali di un altrove, “Le formiche lasciarono la mia casa / vedo il cadavere mio ed il tuo / Cadaveri sul fondo del lago notturno / dove il nero sole brilla / Così sono liberato da ogni apparenza / (col sudore della vostra fatica / amici sempre ignoti /ho lavato gli occhi sonnolenti) /… / Ripeto / da quando intesi il primo morto / acquistai la libertà… (D. Ivanišević, Un’altra libertà)

O binocolo rovesciato per scoprire,con amarezza graffiante, maschere culturali e finzioni della scrittura: “Poi credendomi davvero felice, morto, / sciolto da doti e legami, /e poi quasi improvvisamente quasi fosse un racconto / riappare in me dell’antica gloria la pantomima. / E sorrido di nuovo alla mia ingenuità / ma anche al mito dell’ingegno cosmo umano… / finchè dopotutto non mi riporti a me stesso / questo piccolo punto che abbiamo chiamato patria.” (S. Vučetić, Giuro anch’io)

La parola poetica, in molti testi croati, vive della relazione con ciò che non si lascia possedere, di una vibrata tensione di contrari. La chiarezza narrativa, la brevità aforismatica si intridono di nuova energia di lontananza in cui si inscrive, per riprendere Char, un ‘ordine insorto’. Le immagini della notte, del buio, del silenzio, associate a segnali di sospensione, cooperano a rafforzare, in alcuni autori, enunciazioni di perdita. “Di colpo di notte sparisce la fiamma / parte per parte ti tolgono la vita / tutti gli amici e i conoscenti / ... invisibili parlano con te al sole / e al buio o nelle piogge ti mettono la mano sulla spalla / quante mani! / infatti tu giaci tra di loro ma non riesci ad abituarti / per la salita faticosa faticosamente procedi per la scala fredda /… (D. Ivanišević, La frana).

In altri testi l’idea di assenza si distende in limpide allegorie. “L’Angelo dei morti scende nella vallata / per visitare la plebe appassita, la terra, / che si sbriciola. /… Copre i morti. / Cancella la rena dalle loro labbra. / Lentamente sulla palma della mano solleva i loro visi / Al chiaro di luna canta / l’Angelo della morte.” (V. Vida, L’Angelo dei morti) o in sequenze narrative dense di segreti, “E ripartimmo, in un crepuscolo più fondo, / da un angolo all’altro, da osteria a osteria, / finchè non si fece tardi per tutti, / il che di solito, come si sa, capita con qualche facilità- / ma nemmeno la torre cittadina osò / nel buio a sonarci le ore, / perché eravamo in troppi. / E così ubriachi scendemmo alla riva / Sasa e Pero e Vlado e io / e quello il cui nome in fondo ignoriamo, / scendemmo a fare il bagno laggiù in mare, / ed era notte e faceva freddo, /… (A. Šoljan, Sera)

 

Tra presenza e assenza, partecipazione e rifiuto, vita e morte, pronuncia ininterrotta e contrazione di senso, si ha l’impressione che sullo sfondo di questo scenario poetico si muova la fantasmatica figura di Ermes; icona di ambivalenti tensioni ideative e stilistiche. Sembra che un dio fanciullo e briccone accompagni le avventure esistenziali e letterarie di questi scrittori, sostenga la energia polemica di tante sperimentazioni stilistiche, nel corso del Novecento. Ed è lo stesso dio - lo si intravede - che, con volto enigmatico, conduce amici e compagni alle porte degli inferi. Cosparge di nebbia gli spazi della terra, di buio i paesaggi interiori, fino al non senso della parola, coagulato nel corpo scarno di versi dai significativi echi caproniani “… nella sparizione fredda / mi sveglio / non trovo / né letto / né corpo / a cui sono appartenuto ” (T.P. Marović, Il sogno dell’uomo che si sporgeva troppo), o “Ereditammo: / le sere e l’urlo, / l’errare e l’orlo, / le sagome nella nebbia. / La mela di dissidio la mela di conversazione.” (H. Pejaković, Naslijedismo). “Sotto il sole nero. / Nel silenzio paludoso, / nel bosco di voci smarrite. / Nel regno dove la spada non zappava che sul nome della ferita.” (Idem, Pod crnim suncem)

In tempi, gli ultimi anni del secolo scorso, segnati da violenze feroci, dalla dispersione di un orizzonte politico, si è fatta più acuta negli scrittori croati la coscienza di una perdita di identità culturale e di un linguaggio che si smaglia e si frantuma. Non rimane che una parola della disidentificazione, per ricordare Zanzotto. Prendere atto di un oltraggio reale, visibile in una lingua ‘presenza assente’. “L’affermazione di Jakobson che nella lingua non esista la proprietà privata, è difficile, […] accettarla con allegria. Non suona essa […] assai minacciosa, quasi un’eco di quanto accada nel corso delle rivoluzioni e d’altre grandi scosse sociali, quando l’Eterno irrompe con la forza vittoriosa nell’Interno e non ci lascia nulla di veramente nostro a cui potremmo ricorrere? È allora dovere del poeta […] provare a creare quell’impossibile proprietà privata […] Ma quel sogno è irrealizzabile, la lingua ci possiede fino all’ultimo capillare, ci abita senza residui con la sua crudele presenza assente” (H. Pejaković, Scelta).