Gio Ferri

Letterale

 

Lesa sul Lago Maggiore, 15 marzo 2007

Cara Marisa,
sto leggendo il tuo romanzo dal titolo luminosamente notturno (nel sogno silente della memoria), Un saluto attraverso le stelle. Poiché, pur con la mia modesta capacità di lettura critica, desidero dirne anche pubblicamente, non dovrei lasciarmi rapire da nostalgie personali che non possono interessare alcuno: tuttavia mi è difficile trattenermi. Tu narri di troppe vicende che lettori della nostra generazione hanno vissuto sulla propria pelle, come si dice con banale metafora (non sempre banale e non sempre metafora…), nella tormentata leggerezza degli anni verdi, e, ahinoi, nel dramma di un popolo. Di molti popoli. Di infinite famiglie come quella di Isabella, la protagonista, come la mia, quella di tutti in quel tempo. Ancora così vicino, ora che ne scrivi. Ancora, probabilmente, in attesa di una completa elaborazione del lutto, per dirla con i soliti psicanalisti. Ma forse è anche questa l’esperienza narrativa e poetica che hai vissuto, e che io leggendo ripercorro dalla parte di me. E, sono sicuro, dalla parte di qualsiasi lettore: perché anche i più giovani oggi, in modi diversi, sopportano le loro guerre di pace. È una storia ancor viva, quindi, e passionale – vista da te con letterario distacco, tuttavia mai pacato o rassegnato all’inesorabilità delle vicende e dei tempi. Del tempo. Le tre sorelle (un poco cechoviane) sorgono dalle acque del lago di Como (una provincia passata in quell’epoca dai piaceri della natura alle rovine della crudeltà), o dai flutti marini delle vacanze estive, come Veneri adolescenti, con i primi inesperti amori che superano le paure loro e della loro famiglia – nello straordinario per grazia di scrittura, sommesso, colloquio con l’intelligenza amorevole della madre Marianna e del Capitano, il padre, tanto silenziosamente affettuoso quanto fedele al suo onesto, coerente, militaresco ruolo. Mentre nel contesto cantano, con le personali passioni, le intime arie di tragedia che salgono e scendono dai monti, in una guerra partigiana, fratricida: intime e infine dolcissime, malgrado tutto, perché vengono riscattate dalle giovanili amicizie che non si sfaldano nemmeno nello scontro ideale e fisico. Ma di questa storia Isabella è anche il corifeo, riprendendo oggi quegli eventi, immersa (per la sua professione di giornalista e scrittrice e giramondo) nelle tragedie che tormentano ancora una volta gli anni a cavallo dei due secoli. Coinvolgente è il parallelo, costante, ricorso alla memoria con-fusa con la nostra presente realtà. E lo sono i giudizi che ne derivano – ora che Isabella può tirar le fila, come una Moira commossa e benevola, ma illuminata di sapiente ineludibile esperienza, di quella e di questa vita, in cui il destino dell’uomo si esaurisce nella nullità della Storia, con la ‘S’ maiuscola. Ma rinasce nella fantasmatica eternale verità della storie, con la ‘s’ minuscola. Valenza questa, pure, di quegli incontri di Isabella, autentici o immaginati, con i cosiddetti ‘grandi’ di quella Storia tragica senza ragioni umanamente accettabili. Così anche i protagonisti di quel periodo, dal ’40 al ’45, Mussolini, Ciano, Claretta… segnano dalla parte dei personalissimi silenzi, al di qua delle mondiali vicende (guerre mondiali, appunto), nella misura minima della loro reale esistenza, il primato della coscienza, liberata dalla protervia, e travolta dal dolore. Ma anche la narrazione rivelatrice nella sua estesa apparizione, come (ma non è contraddittorio), la natura sintetica della poesia, ovviamente trova la sua plausibilità nella materia del linguaggio. Se la lingua di Isabella giovanissima, talvolta felicemente incosciente, è nelle epifanie icastiche dei gesti, delle presenze – il linguaggio di Isabella matura, l’Isabella che ricorda e giudica, e coniuga il passato con il presente, è nella immaterialità effimera del pensiero. Cosicché, prima e dopo, la parola ‘si dice’ sempre per pause ritmiche, per vitali cadenze sintattiche, di attimo in attimo:

“Si va a tavola tra poco” chiama dall’interno della casa la voce di Marianna. Tutti si alzano, si affacciano alla balaustra della terrazza ricercando nel familiare profilo dei monti, nell’ansa del lago che da lassù sembra un fiume, l’orientamento perduto. Erano [per racconti – l’inciso è mio] altrove, in Africa, in Russia; e ora, come nei poemi omerici, aspirano i fumi di prossimi banchetti.

Dall’altrove delle avventure che qualcuno ha realmente vissuto, all’altrove dei miti poetici, si passa tramite il gesto istintivo, apparentemente distratto, ma invece inconsciamente rapito – per un attimo, un attimo solo, appunto – attraverso la presenza mai sfuggente del paesaggio, metabolizzato prima che riconosciuto: … ricercando nel materiale profilo è infine, per tutto il romanzo, la tensione alla ricerca di se stessi nelle origini delle cose dalle quali siamo nati. L’attenzione alle cose, talvolta minimale école du regard, domina impercettibilmente anche la considerazione postuma di Isabella matura su quell’antico duplice amore:

Che cosa andavo cercando, io Isabella, quel mattino d’ottobre, la mano esitante sulla maniglia della porta di casa, gli occhi fissi alle foglie naufraghe nella ghiaia dopo l’interminabile notte?Forse un salvacondotto erotico? L’alibi per una sentimentale poligamia?

Ancora una volta le sensazioni, i tormenti, gli amori si nascondono dietro le scenografie impercettibili, le tattilità distratte delle cose. Ma infine son propriamente le cose che esprimono l’intima verità, più sensitiva che dicibile: la manigliache apre a un tentativo di fuga dall’interminabile notte, le foglie che naufragano nella ghiaia. Forse ricordi che per la poesia (ne ho parlato varie volte anche con Stefano Agosti, maestro di queste situazioni di parola) rifiuto, nella sostanza, i marchi della metafora e del simbolo, per rendermi sensibile alla metamorfica tangibilità della materia. E quella ghiaia è tangibilissima, scricchiola sotto i piedi, soffoca le foglie aperte all’aria del mattino dopo l’interminabile notte. Parafrasando, per esempio, Todorov, l’idea di analessi e di elusione può fornirici diverse chiavi di lettura di questa esperienza di Isabella fra passato e presente – ed entro una certa età di mezzo, una sorta di quarta dimensione, che si evidenzia nella atemporalità del racconto: perciò si può dire della morte della Storia e della presenza assolutistica delle storie. C’è, di conseguenza, il dominio dello spazio (le cose occupano lo spazio prima che il tempo, rispetto al quale sovente appaiono eterne), con i suoi agenti naturalistici e materialistici, paralleli agli agenti, i personaggi, della narrazione, fra metamorfosi, appunto, e inespresse ma condizionanti relazioni. Che devo dirti di più? Tutto questo vuol sottolineare, almeno per i miei gusti, per le mie aspettative, un altro fascino di questo racconto senza tempo, fra tempo e tempo: la possibilità di immergersi nella tua scrittura aprendo anche a caso una qualsiasi pagina. In cui le cose sono lì, indistruttibili, pietre di paragone della memoria.

 

(Scritta a Marisa Bulgheroni in occasione dell’uscita del suo romanzo Un saluto attraverso le stelle, Mondadori, Milano 2007)

 

 

 

 

Lesa sul Lago Maggiore, 12 maggio 2007

Caro Luciano,
i giorni scorsi, in un luogo arcadico, grazie agli amici dell’Università di Torino e delle Giornate di San Salvatore Monferrato, abbiamo avuto modo – evento raro – di stare insieme un bel po’ al seminario sulla tua vicenda poetica. Qui colgo l’occasione per ringraziare tutti quegli amici, quei raffinati maestri di letture. Ma un abbraccio particolare, penso che sarai d’accordo, va a Giovanna Ioli che sa organizzare e ‘tenere in mano’ queste situazioni con sorprendente capacità e signorilità. Ma, lo sappiamo da sempre, con tanta intelligenza critica e, tout court, culturale.

Mi dispiace che quei tre giorni siano trascorsi così in fretta, soprattutto perché la tua vivace presenza molto ci ha aiutati a meglio elaborare il tuo messaggio poetico, e le sue ragioni vitali. Mi permetto ora, per consolarmi (assai malamente, data la mia pochezza di fronte a tanta sapienza critica), di riassumere quanto io stesso ho avuto motivo di dire sulla tua poesia: sebbene si tratti di una povera chiave di lettura, per aprirmi al mistero della tua stanza poetica.Sulla tua poesia e sulla sua peculiarità nell’ambito della poesia italiana, e della poesia italiana del secondo novecento, molto, giustamente e appropriatamente, si è detto in passato e molto si è ribadito qui in occasione di questo seminario. Mi trovo tuttavia di fronte, ancora una volta, come fosse la prima, ad una di quelle magistrali venture che (nel rispetto della polivalente apertura della poesia in generale e della tua in particolare) mi offrono l’opportunità (piacevolissima, se il piacere della parola è il segno più alto della poesia medesima) di penetrare, venendo da più parti e camminando verso più lati, in una dimora avvolta dalla penombra, ma dotata di molte porte e di molte finestre. Che possono essere chiuse e aperte secondo il desiderio di ciascuno. E il piacere tuo medesimo.Il titolo stesso di una tua famosa raccolta, Il tranviere metafisico, ci dice per l’appunto della essenziale marca metafisica - se vogliamo, tanto per meglio comprenderci, di misura dechirichiana - di questa poesia. Fra l’ambigua sospensione delle cose e delle loro analogie e ricezioni, e comunioni, e il coinvolto distacco (ossimoro) che ripropone una sorta di école du regarde, nei silenzi di certe città liberate, svuotate nel sogno, in cui gli orologi non segnano ore ragionevoli, o addirittura sono fermi. Così si è detto, per questa tua poesia, di una forma in-significante, o in-leggibile (per ricordare Gramigna, in cui il prefisso in- non è solo negativo ma può denotare anche un dentro). Di una forma, malgrado le apparenze di certi anche autobiografici racconti, autonoma e autoriproducentesi, com’è proprio delle sottili, nascoste, sottese analogie fra gli eventi di parola, prima degli eventi storici o, per lo più, di una quotidianità microstorica. Una poesia che, vinta ogni banale apparenza, non vuole essere comprensibile secondo i canoni del senso comune, ma squisitamente sentibile, nella musicalità del silenzio. Segni, tracce, che si fanno sentire senza bisogno di argomentare. Una poesia che è sempre in una pausa, una pausa di riflessione, di recuperi memoriali ma anche di sorprendenti astanze, come osservi in nota al tuo testo recente Remi in barca.Posso dire di uno scetticismo religioso (altro ossimoro) che, con sottile ironia, si dibatte senza drammi plateali nel turbamento sommesso di una rassegnata pìetas, anche verso te stesso? E di una fuga, non dichiarata, non notificata, silente, circospetta verso una vigile atarassia (ancora un ossimoro!)?E c’è la tua concezione di una poesia come epifania inattesa, creatura che rinasce da un letargo; che, subito dopo, in un attimo si sperde, o meglio si occulta, si nasconde (senza eclissarsi, tuttavia, lasciando segni impalpabili): 

Poesia sei come uno scoiattolo / resti in letargo per parecchi mesi / quando ti svegli salti in mezzo al verde / ma vedo appena la tua coda folta / prima che scompaia dentro gli abeti.

Si è parlato - anzi ne ha parlato in un pregevole saggio Giuseppe Limone che ci ha coinvolti, anche lì al seminario, con la sua facondia – di certo particolare minimalismo (come ricordi si è molto discusso insieme di questa ambigua definizione). Tu, dice Limone “riduci i tuoi indici di percezione non per impoverirne la resa ma, al contrario, per potenziarne i sensori. La riduzione di superficie della pagina, la contrazione di sonorità, l’attenuazione del registro sono altrettanti strumenti maieutici con cui attivare un segreto elevarsi dei minimi di percezione”. Come ben sai ancora si è scritto, anche a me è capitato di farlo, in ragione di questo minimalismo, che basta un fiat per creare il mondo. Quando ogni parola, anche una sola parola, soppesata – secondo il tuo modo – nella propria singolare rarità, ogni parola aperta alla epifania sommessa degli spazi scritturali e sensitivi e mentali apre alla vita senza mistificazioni. Una parola che scava anche l’abisso del nulla, e ci segnala che su quell’abîme si può misurare, per chi ne abbia la forza, la propria ragione d’esistenza e la propria capacità di affrontare il rischio di vivere.Queste sensazioni profonde, queste considerazioni sempre approssimative e provvisorie (la poesia, e quella tua in particolare, parrebbe volerci distogliere – altra fuga – dalla indiscreta petulante curiosità critica), mi fanno credere che – e ciò è ancora metafisico come s’è visto – il tempo si fermi per dilatarsi senza storia, immisurabile, nello spazio. Uno spazio tanto ristretto quanto, desiderandolo, aperto quando si vogliano aprire quelle porte e quelle finestre. Ma forse è uno spazio che si apre da e nel di dentro. Mi scuso di un’altra suggestione dechirichiana: ricordo diverse versioni dell’Argonauta, in cui il viaggiatore naviga entro una stanza.Ma allora, quando dico stanza, dico casa, dico spazio. Uno spazio illimitato nella sua finitezza: considerata la dominante della forma chiusa. Apparentemente chiusa. Metricamente chiusa, ma lo abbiamo visto, apribile. Non posso fare a meno, quindi, di rammentare in proposito Gaston Bachelard e la sua Poétique de l’espace (del 1957). Ho sottomano l’indice di quel saggio famoso e (sebbene per brevità non possa verificarlo, qui, esaurientemente sulle poesie – ma ciascun lettore potrà facilmente dedicarsi in proprio alla ricerca testuale) ogni capitolo può sembrare il titolo di una ideale tua poesia:

la casa, casa e universo, il cassetto, le cassapanche, gli armadi, il nido, il guscio, gli angoli, l’immensità intima, la dialettica del fuori e del dentro, e così via.

Mi impressionano un breve passo, alcune citazioni, dal capitolo Gli angoli: “… Ogni angolo in una casa, ogni cantone in una camera, ogni spazio ridotto in cui piace andare a rannichiarsi, a raccogliersi su se stessi, è per l’immaginazione, una solitudine, vale a dire il germe di una camera, il germe di una casa…”. Aggiungerei, il germe di un “Universo [temporale] negato”, secondo la stessa idea di Bachelard. Dove, insiste Bachelard, “… nell’angolo non si parla nemmeno a se stessi, e, se ci si ricorda delle ore [immote] nell’amgolo, ci si ricorda di un silenzio…”. Bachelard rammenta l’Arnaud de L’état d’ebauche (Parigi, 1950): ... Je suis l’espance où je suis… E di Sartre che, nel suo libro su Baudelaire, cita una frase di un romanzo di Hughes, Un cyclone à la Jamaique (1931):

… Emily aveva giocato a farsi una casa in un angolino…Stanca di quel gioco, camminava senza meta all’indietro, quando le si presentò d’un tratto il folgorante pensiero che lei era lei…

Al seminario, ciascuno di noi non aveva molto tempo, considerata la ricca e dotta partecipazione. Ma qualche rapida occhiata a taluni tuoi testi testimoniali sono riuscito a darla.La prima poesia de L’ipotesi circense per esempio, dà subito ragione di questa idea di cosmo minimale, e, appunto, si intitola Un cosmo qualunque:

Abitano mondi intermedi / spazi di fisica pura / le cose senza prestigio / gli oggetti senza design / la cravatta per il mio compleanno / le Trabant dei paesi dell’est. / Turbano, ma che mai vorrà dire? / Forse meglio di altri / esprimono una loro tensione / un’aura, si diceva una volta / verso quanto qui ci circonda.

Credo che vada sottolineata, entro l’aura (come si diceva una volta!) di questa cosale, oggettuale (non oggettiva) visione delle cose, e delle memorie, senza prestigio, secondo l’idea volgare di prestigio, l’espressione di una tensione. Proprio l’amorevole, suggestivo, distacco (inutile ribadire ancora gli ossimori, in quanto si tratta di figure fondanti) verso quanto qui ci circonda crea quello stato di tensione che è, a mio avviso, la marca di questa tua silente avventura poetica. Tutta rivolta, prigioniera quasi, a mondi intermedi, forse quarte o ennesime dimensioni, perciò spazi di fisica pura. Fuori dal tempo (i compleanni si concentrano o si espandono in minuscole osservazioni, le cravatte più o meno dozzinali, senza design). E tutto ciò turba: ma non ci turbano le cose in sé, ci turba l’inconscia predisposizione a guardarle, ad occhi socchiusi, qui da questo angolo. Quest’angolo, per dirla appunto con Bachelard, dove non si parla nemmeno a se stessi. In cui l’esercizio del silenzio moltiplica, in un universo di mezzo, il valore nascosto e forse incomprensibile, in vita, della vita. Sorge, a turbare, una inspiegata, momentanea, non durevole, onirica, visione di un al di là. Che mai vorrà dire, questa angolare, spaziale, atemporale condizione? Il religioso mistero di un cosmo qualunque?Più avanti dici di un Genius loci:

Nel primo centenario di Campana / fui invitato a Marradi per un convegno. / Tra le pareti umide e scrostate / di una stanza d’albergo che sapeva / di muffa e di marroni, ossia castagne / ebbi voglia di un amore di passo / o di morire come un commesso viaggiatore.

Le sequenze di questa condizione da commesso viaggiatore, vanno dalla memoria storica di un evento… come dire?… professionale (commissione letteraria, viaggio d’avvicinamento a luoghi mitici o più semplicemente manieristici della nostra moderna cultura), alla momentanea tragedia di una solitudine. Tuttavia va in realtà smitizzata la tragedia che risponde all’espressionismo di Campana e alla incrostata, fredda, ammuffita materialità del luogo: ci pensa, a smitizzare ancora una volta nella sottile ironia, l’odor di marroni! È vero, tuttavia, che si sente, sommesso eppure acuto, un grido di morte e di fuga dalla atarassia verso una occasione brutalmente profana. È vero che il lettore può essere sorpreso da un fantasma figurale: uno dei commessi viaggiatori, con la loro paura e la loro corporale disgregazione, di Bacon. Ma, è una mia impressione, questo riferimento al pittore irlandese può essere valido per il senso tragico della situazione, ma altresì per l’attenzione di Bacon di tracciare misure geometriche e prospettiche (vale a dire stanze, vale a dire spazi metafisici) in cui contenere le paure e le disgregazioni. Fisiche e morali. Trovo importante questa tua composizione, che dà prova di poter affrontare il tragico della vita riducendolo abilmente, e anche amorevolente (l’amore di passo è pure un amore, un desiderio di dolcezza fra la brutalità delle mura scrostate), alla pacatezza di un cosmo qualunque: i disastri stellari, le esplosioni cosmiche, viste dal nostro angolo minimo, in cui siamo rannichiati, silenziosi anche a noi stessi, possono venire recepiti come gli spazi di fisica pura di una volta celeste.Vengono di conforto (in quella stanza?) il sonno e il sogno, che riconducono, nel dormiveglia, al silenzio fantasmatico, pacatamente teso, gli eventi di una sera invasa (stato che parrebbe non rientrare nella tua poetica) da espressionistiche campaniane (talvolta, forse, mistificate) esasperazioni. Soltanto segni (sempre ne L’ipotesi circense):

Prima che mi scendesse sopra gli occhi / un sonno dei più pesanti che ricordi / ho visto, ho creduto di vedere / ma che cosa? non so. Quello che resta / è un tratteggio animato, un poco elettrico / di colori sottili, luminosi / come se si volesse cancellare / (da cancellum, barriera, anzi steccato) / quello che ho visto e ho dimenticato.

La dominante degli endecassillabi distende ritmicamente (tratteggio animato, un poco elettrico) la scossa dell’apparizione onirica. E il salto dello steccato, dalla memoria delle cose viste e non viste (sempre dall’angolo in cui non si parla nemmeno a se stessi) ci getta nel mondo (nei mondi di mezzo) della dimenticanza. Allora la tua poesia, piuttosto che una poesia della memoria, è la poesia della dimenticanza? Non direi, come si suol dire psicanaliticamente per molta poesia del Novecento, poesia dell’assenza. Le cose dimenticate non sono assenti, sono piuttosto presenze accantonate, che comunque ci crcondano. Mi è capitato di prediligere, per capire meglio la fenomenologia poetica, certe – seppure approssimative – mappe cerebrali, tracciate dalle neuroscienze. Da queste mappe si può trarre una scansione dello spazio (ancora spazio!) cerebrale che si definisce nei luoghi del rettiliano (magazzino delle memorie ataviche e primordiali), del limbo (magazzino delle memorie genetiche ed anche recenti), e della corteccia prefrontale (strumento di comprensione e comunicazione razionale). Ho presunto che il poeta peschi nel limbo, se non nel rettiliano, per rivolgersi, senza troppa fiducia e con grandi timori, alle capacità comunicative della corteccia. Timori giustificati dalla propensione della corteccia a condizionare e manovrare (a scopi utilitaristici) i materiali vergini del profondo. Ora, in una poetica della dimenticanza – come sovente si manifesta nella tua scrittura – potrebbe svilupparsi il percorso inverso: guardare le cose presenti, sottrarle alle nominazioni, ai tempi e alle prepotenze della corteccia, per depositarle (a futura memoria?!) nel magazzino del limbo. Il cammino inverso rispetto alla pratica psicanalitica: vale a dire dalla ragionevole ma sempre sommossa e turbata presenza, alla penombra pacificatrice, eternale, dell’inconscio. Come se si volesse cancellare quello che abbiamo visto e dimenticato. Oltre il cancello, Nell’Oltre, insomma…

Un Oltre come Nulla? La ricerca del Dio-Nulla di Meister Eckhart? Lo dici esplicitamente in Un gatto mistico (de Il tranviere metafisico) rivolgendoti al tuo gatto:

… Mi vuoi dire chi abita il tuo nulla?[…] / tu sì che capisci l’essere, contempli… / Meister Eckhart domestico, dammi i tuoi tempi!

Il nulla di una illusione, o di una vita come sogno? Il nulla del tempo, della storia, la totale presenza dello spazio? La nostra presenza nello spazio? Non essere secondo una finibile temporalità, bensì esserci, qui, ora e non più, in quest’angolo che è lo spazio senza principio e senza fine? Dal quale vedere, vivere e dimenticare. Al seminario tentai di concludere provvisoriamente, assai provvisoriamente, leggendo, per l’appunto, Dasein, dalla raccolta Il tranviere metafisico:

L’essere perentorio (Dasein?) / del tappeto o di un listello di parquet / mi fa dopo un po’ pensare al nulla / quasi stessi leggendo, anzi assai meglio, / i detti di un saggio tibetano: / un nulla di pelle, direi un brivido / che fa chiudere gli occhi, per vedere / su creste e cornici di monte /andare come se non andassero i treni, / o me stesso con un cappello di paglia / che pedalo diretto al mercato / in sella a una bicicletta da donna: / una strada un po’ bianca e un po’ piana / esserci, allora?

Per inciso sottolinerei ancora un vezzo abbastanza diffuso nella tua poesia, testimoniato qui da quel verso quasi stessi leggendo, anzi assai meglio. Non si tratta sempre della figura logica della correzione, bensì della ripresa di ciò che si è detto, ora per correggerlo, appunto, ora per rinforzarlo. Per chiarire a se stessi la propria ambigua (poetica) dichiarazione. Si sottolinea così una sorta di incertezza definitoria che conferma la posizione estraniata, incerta e non chiaramente definibile, del punto e della modalità di osservazione: valgano quel quasi e quell’anzi. In breve qualche altro esempio:

Quando si parla di case di settembre / dolce è dir poco di un ritorno…
      … a volte basta un meno, quasi un niente…
      Oppure / svernare agli ultimi piani

in cui l’incertezza si innesta fra taciuto pretesto e testo;

Tenne chiuse le imposte / tutto il pomeriggio / forse uscì / forse rimase…
       … altre superbe cose / più nobili prospere cose…

       … quando al varietà chi sceglievo / si fa per dire…
       … Chiaro che non ho capito niente / che dovrò ancora pensarci un bel po’…

       … questo epitafio
[…] potrebbe essere il mio, più l’incertezza / della stessa incertezza di là a venire…

… fanno uscire di scena / l’io, o soggetto che sia…

C’è l’uso frequente dell’avverbio forse e molti sono i punti interrogativi. Poetica della dimenticanza e quindi del dubbio. Ma anche della probabilità e della speranza.

 

(Questa lettera testimonia in breve quanto m’è capitato di dire al “Seminario sulla poesia di Luciano Erba” tenutosi a Valenza, a cura della Biennale di San Salvatore Monferrato nei giorni 7-9 maggio 2007)

 

 

 

 

Lesa sul Lago Maggiore, 15 giugno 2007

Caro Lamberto,
tutti sanno che tu sei fra gli scrittori che fin dagli anni Sessanta hanno fatto (da poiéin) e interpretato la sorprendente (checché se ne voglia dire) cultura letteraria ed estetica italiana ed europea del secondo Novecento: dal Gruppo 63 in poi, prima e oltre quelle istituzioni editoriali per lo più rivolte quasi esclusivamente alla commercializzazione del pensiero e delle scritture. Il tuo lavoro di ricerca segnica (poesia, poesia visiva, poesia tecnologica…), e critica, va al di là dell’usurata etichetta d’avanguardia e si pone, fra immagine e parola, al centro di una astante constatazione della realtà, poetica, ma ancora socio-culturale, del nostro tempo. In generale non è il caso di sopravalutare l’importanza dei premi (rivolti ormai, per l’appunto, al mediocre sostegno di una altrettanto mediocre produzione libraria), tuttavia va sottolineata la recente attribuzione proprio a te del Premio alla Carriera DAMS dell’Università di Bologna: il DAMS, presso il quale hai anche insegnato. È un luogo e un momento storico (infine abbastanza trascurato dall’establishment cosiddetto culturale) in cui l’avanguardia, oltre le generose e talvolta velleitarie passioni, si fa laboratorio di ricerca sistematica, alla scoperta delle ragioni più interiori e originarie del rapporto fra creatività e società.
Ti scrivo per dirti di qualche mia impressione leggendo i tuoi libri più recenti. Eventi diversi è una raccolta di poesie (lineari: per meglio capirci dobbiamo usare questo impreciso luogo comune parlando di te – sei d’accordo?) in cui una sorta di personalissimo intimismo di parola (là dove la parola nasce) si accomuna a una presa d’atto critica del contesto. Del nostro tempo. Originale ritengo l’impostazione del libro: le tue poesie si dipanano, in un coinvolgente flusso di scrittura, fra le letture critiche di alcuni fraterni e acutissimi amici, complici da sempre in un certo genere di ricerca. Così Marcello Carlino sottolinea (paradossalmente, considerando il tuo impegno storico e tecnologico) l’esercizio di una langue che sembra sfuggire, fino a una ipotesi di indifferenza, alla vanità del mondo e della storia. Una langue sola, entro l’energia della sua evidenza primigenia, ancora non contaminata. Ma infine questa tua diviene una presa di posizione critica propriamente nei confronti della storia e della nostra indigente quotidianità. Così Francesco Muzzioli può dire di una autocoscienza letteraria. E Giorgio Patrizi di una trasformazione di processi di scrittura e di lettura…in cui la sperimentazione si delinea come riflessione globale, fertile di possibili esiti di critica ideologica, sull’intera cultura della società tecnologica.E Mario Lunetta può concludere per una valenza “politica”innegabile di questo libro in cui ti fai marmoreo cronista di uno stato di cose che è ben oltre l’emergenza.
A puro titolo di stimolo per i lettori di “Testuale”, senza pretese di esemplificazione significativa, voglio citare qui due momenti - qualche verso della raccolta - che sottolineano la dialettica persino ossessiva fra la vibrazione dell’io e le imposizioni della esterna realtà:

Protagonista è una bella giornata di primavera, / l’ambiente è una splendida ragazza assente, / chiare, fresche, e dolci acque, / una storia come un’altra, ove le belle membra, / …/… ma non mi fu vicina… / … / … non pianse, non mi baciò… /… / e non vidi le contrazioni della sua faccia, / gentil ramo, erba e fior, dice accoratamente / il poeta, dolenti mie parole estreme.

“La storia”. Difficile farne un riassunto. / La storia va avanti rapidamente / con questi protagonisti, / prigionieri dei soliti ingranaggi / a seconda delle necessità /…/ È curioso ossevare / che il problema non sta mai qui, / ma non è possibile rappresentarlo altrimenti / e per il momento non si intravede via d’uscita 

Ho ricevuto anche le tue Favole minime. Con le raffinate immagini della pittrice Rosa Foschi. Trovo che rileggi con ricreativa e divertita ironia favole antiche da Gulliver, Alice… in poi. E racconti anche certe favole (assurde, assurde e vere come sempre sono le favole) del nostro tempo:

C’era una volta un sacco di gente politicamente corretta che, indossando abiti firmati, si dava da fare per trovare una soluzione ad annosi problemi come contestare società multinazionali, mass media e mode consumistiche… Non furono pochi insomma quelli che cercarono di fare bella figura con gli amici, ma ogni tentativo fallì…

Ma lasciamo al lettore la curiosità di cogliere l’inimmaginabile lettura, di leggerla sorridendo (anche se non c’è molto da ridere!), e vivere a lungo felice e contento…

 

(Scritta a Lamberto Pignotti in occasione dell’uscita di due suoi libri: Eventi diversi, Manni ed., 2006 Lecce, e Favole minime, Empiria ed., 2006 Roma)

 

 

Venezia, 10 luglio 2007

Gentilissimo Dott. Storr,
da parecchi anni ormai (attento alle Biennali d’Arte e di Architettura), per la rivista “TESTUALE”, critica della poesia e dell’arte contemporanee, esprimo puntualmente le mie coinvolte impressioni sull’esposizione. Confido che Lei abbia la pazienza di leggermi, come assai amichevolmente hanno fatto i suoi predecessori, talvolta anche rispondendomi. Con grande attenzione al dibattito da parte dei nostri lettori.
Che dire di questa annata? Dopo il grande vuoto, il grande silenzio della 51° edizione siamo tornati al rumoroso accumulo di mezzi e di risultati. Non so se gioirne, o se rimpiangere quella proposta di solitudine avanzata pericolosamente, ma forse produttivamente per le nostre disperanti confuse incertezze, due anni fa da M.De Corral e R.Martinez.Certo, nessuno può negare che nella accumulazione caotica, figura retorico-sintattica (o a-sintattica) diffusasi nella poesia del Novecento, o, per esempio, nella gloriosa Action painting, si possono cogliere vive suggestioni. Ma se tale è la chiave di lettura di questa esposizione (come di molte altre del più lontano passato), allora, forse, è necessario recepire la mostra come una immensa unica installazione nella quale vanno valorizzate anche le componenti stanziali quali gli ombrosi, storici Giardini, e la straordinaria archeologia industriale, ai margini delle surreali assolate acque lagunari, dell’Arsenale, Corderie e Tese. Devo confessare che da molto tempo ormai m’incanto con maggior emozione davanti alla immensa rugginosa grue all’estremo confine di questa installazione, piuttosto che di fronte a non poche banalità segniche fatte passare per arte. Se consideriamo invece l’accumulo come rigatteria allora il divertimento consisterà nello scoprire, con paziente fatica, qualcosa di stimolante (almeno per il maniaco collezionista di irrazionali emozioni), mestando e rovesciando negli stracci polverosi e talvolta puzzolenti e nelle vecchie carabattole di macerati e macilenti residui Dada (poiché, infine dopo Dada ed epigoni, anche assai valenti, di grandi novità non se ne son più viste! Ed è passato quasi un secolo!). Scavando e scartando, anche in questa 52° ammucchiata, si può essere colpiti da alcune non infelici (se non nuove) sorprese. Potrei innazitutto invitare i miei venticinque lettori, che vogliano avventurarsi fin qui, a non impressionarsi per l’orrore della morte, della guerra, della emarginazione che percorre quasi tutta l’esposizione: e questo clima, va riconosciuto, risollecita almeno a meditare seriamente sulle nostre irresponsabili acquiescenze di civilissimi e sapientissimi e sensualissimi… esteti… Ma proporrei anche di viaggiare, fra sedi canoniche e mostre periferiche, compiacendosi delle geometrie concrete e minimali dell’americano Ellsworth Kelly (maestro storico) e del nigeriano Odili Donald Odita. Il “realismo trascendentale” in caledoscopiche e contr-prospettiche immagini digitali di Adi Da Samraj. Gli spazi luministici realizzati al neon dallo statunitense Hason Rhoades. I “bauli” in parte “pop” e in parte “narrative art” della statunitense Christine Hill, La gigantesca scultura in materiale plastico dell’uomo eroso dagli uccelli del canadese David Altmejd. I leggerissimi disegni in punta di penna o di filamenti al neon del britannico Tracey Emin. Gli straordinari immensi colorati pannelli materici, gestuali, informali dell’austriaco Herbet Brandl, e l’informale omaggio a Cage del tedesco Gerhard Richter (ma questi ultimi sono anche gli ultimi ‘maestri’, generazione anni ’30, del colore e del pennello). Colpisce la scultura concettuale dell’argentino León Ferrari, dal titolo “La civilización occidental y cristiana”: Cristo è crocefisso alla croce di un jet carico di missili. È vittima oppure simbolo asservito a una violenza che non puo non dirsi anche cristiana? In fatto di civiltà e di… esaltanti democrazie ci informa la statunitense Emily Prince con foto e schedari, documenti di riconoscimento, delle migliaia di giovani americani uccisi in Iraq.
Suggestive le installazioni filmiche e psichedeliche della Russia.Una citazione a parte merita l’artista concettuale francese Sophie Calle presente con due installazioni. Sempre per i miei lettori ricorderò che la prima racconta, senza essere macabra, anzi dolcemente poetica, la morte della madre e l’ultima parola da lei pronunciata (materiali: una immagine fotografica, un antico ritratto della madre, una cornice vuota, un testo letterario, memorialistico, poeticamente coinvolgente). La seconda, che occupa tutto il padiglione della Francia, rende conto di una operazione originalissima: l’autrice ha ricevuto una lettera di rottura (rottura di una relazione amorosa, di un rapporto di lavoro…, non si sa) e, non sapendo come rispondere, chiede a un centinaio di donne un aiuto, suggerito dalla loro professione (casalinghe, scrittrici, dirigenti, ballerine, attrici, ecc.). Ne risulta un affollato ritratto collettivo dalle risposte più disparate (la dattilografa interloquisce in stenografia, la cieca in brail, la ballerina ballando, la psichiatra psicanalizzando, e così via). Curioso è il coinvolgimento della nostra attrice comica televisiva Luciana Litizzetto che presenta un dvd assolutamente esilarante, a demistificare la situazione ambiguamente sentimentale.
Non si dica che l’’artista’ italiana più interessante di questa Biennale è, infine, seppure a margine, proprio Luciana Litizzetto! Un omaggio alla sua acuta intelligenza e al suo originalissimo umorismo. Benissimo! Ma, volendo parlar seriamente d’arte, l’arte italiana è tutta qui?!Gentilissimo dott.Storr, vogliamo proprio dircelo che lo scandalo (se di scandali dobbiamo ancora scandalizzarci!) di questa 52° Biennale è l’assenza quasi assoluta di una proposta organica d’arte italiana? Per una manifestazione che è appunto italiana? Gli italiani non hanno prodotto arte negli ultimi anni? Non è il caso che, qui, anche per ragioni di spazio, si facciano nomi di qualche rilievo. Toccava a Lei e agli altri organizzatori farli: in particolare ai responsabili nostrani. E presentarne le opere. Certo, c’è l’omaggio al grande Vedova, ma non fa parte propriamente della Biennale, salvo per l’intervento pregevole di Baselitz all’ex Padiglione Venezia. Fra Giardini e Arsenale non si trovano più di cinque o sei artisti italiani, quasi tutti operanti negli Stati Uniti. Possiamo ricordare (ma non si tratta di esempi, in quanto è tutto quello che passa il convento!) Luca Buvoli (con le sue scritture luminescenti), Gabriele Basilico (con le sue immagini fotografiche di ruderi urbani), Paolo Canevari (con il suo drammatico filmato di un ragazzo che fra le macerie gioca a calcio con un teschio umano), Angelo Filomeno (dalle immagini magiche, fantasmagoriche, luminescenti), Giovanni Anselmo (scultore rigorosamente minimale). Ma quasi tutti, nascosti qui è là, e ripeto americanizzati, con non più di una o due opere. L’Italia in sostanza finisce qui ed è pure migrante da uno spazio all’altro, in cui si presentano ben 270 artisti, invasivi sovente con installazioni e opere di scarsissima qualità e di nessuna novità.
Dopo anni di assurda, incomprensibile assenza, è vero, è stato riaperto un Padiglione Italiano. Per raggiungerlo alle Tese dell’Arsenale (penultimo, ultima è la Cina), il visitatore deve farsi una passeggiata di un paio di chilometri (fortunatamente, l’ho già detto, valorizzata dalla stanziale scenografia di archeologia industriale). Anche qui, tuttavia, nessuna particolare novità. Due soli artisti e oggettualmente poco rappresentati. Giuseppe Pennone, scultore, ormai un ‘maestro’ dell’arte povera: oltre quarant’anni di coerente ricerca sulle forme e le metamorfosi delle piante, il bosco, il ruscello, nella fluenza della linfa, nel calco della materia naturale. Il più giovane Francesco Vezzoli, invece, s’affida sì alla maniera, ma non a una sua esclusiva maniera: riprende - espressività ormai sperimentata da decenni – l’accumulo ripetitivo di immagini in movimento ossessivo, di frastuoni, il tutto (ovviamente) simbolico della nostra globalizzata perdita di identità individuale.
C’è, è altrettanto vero, il Suo progetto (scelta indubbiamente doverosa) di dar largo spazio alla realtà multietnica di un’arte africana e asiatica. Si tratta di poetiche, per forza di cose, fortemente ideologizzate, perciò formalmente modeste. L’arte passa dalla visione coinonica del profondo, alla accettazione della superficialità della comunicazione, sovente retorica e talvolta mistificante. L’operazione finisce per ridursi a manifesto, a bandiera, mimando proprio la metodologia che dovrebbe avversare: il dominio svuotato, per entropia, e svuotante, dei media.
Forse, ma è difficile parlarne in breve spazio, si scopre qualcosa di convincente in alcune delle innumerevoli installazioni disperse per la città lagunare, ma sempre supportate dalla Biennale. Possiamo fare qui – per i nostri lettori che sappiamo curiosi di quanto diciamo in questa lettera a Lei indirizzata – qualche affrettato ma meritevole esempio. Mi riferisco (ma altre cose periferiche vanno viste con qualche interesse) alla Camera 312, promemoria per Pierre Restany a cura dello scultore e poeta visivo Ruggero Maggi di “Milan Art Center”: centinaia di postik firmati da altrettanti artisti italiani, a formare una sorta di invasiva luminosissima tappezzeria. Ancora i sanguigni Paquetes del cileno Claudio Bravo al Museo Diocesiano. Il petroso omaggio di Beuys a Szeemann all’Arsenale Novissimo. All’Isola di San Servolo Isolamenti e follia, a cura di Bonito Oliva con la presenza del Marat di Vettor Pisani… Ecc. Ecc., ma per lo più senza ulteriori particolari emozioni.
Vorrei concludere segnalando, come s’è fatto per precedenti Biennali, la lapalissiana banalità del titolo: Pensa con i sensi / senti con la mente. Un titolo che potrebbe andar bene per qualsiasi altro progetto espositivo: comunque un obsoleto riferimento psicologico-sensitivo che poteva esserci risparmiato! Certi dualismi idealistici e, di contro, certe filosofiche, biologiciche concezioni unitarie fra mente e corpo, fanno parte, come è fin troppo noto, di una letteratura antica di secoli.

 

(Scritta a Robert Storr, direttore della 52.Esposizione Internazionale d’Arte di Venezia)

 

 

 

 

Lesa sul Lago Maggiore, 5 settembre 2007

Caro Giancarlo,
sto rileggendo Improvvisi, un librino delizioso anche graficamente (e silente… nella grigia, quasi bianca, velatura della sua copertina così pulita, così lontana dagli orpelli di certe pletoriche edizioni), un oggetto da portarsi in tasca e da prendere in mano, mentre passeggio qui nel parco o in riva al lago (come il tuo lago immobile / dipinto quasi da una luna / che non sa più nascondersi… /… Un respiro, un soffio / e noi che andiamo / nell’eco del silenzio). In questo inizio di settembre così pacifico e pacificante. C’è qualcosa di commovente in questa mia disposizione da te suggerita: ciò devo forse alla nostra comunione che si è sempre, miracolosamente, arricchita proprio nella lontananza. Da quanto non ci vediamo? E poi c’è quell’esergo tolto da Coro di Giuliano Gramigna: “Non frammenti, un punto dove il tutto / si riassume”. Una grave perdita per noi, per tutti i lettori e gli amici questa ancora incredibile partenza di Giuliano. Anche se già lo sentivamo, come uomo, come poeta, come critico raffinato di un altro mondo.

E Gramigna è tutto, con te, nella tua breve nota introduttiva: viaggio nel buio del discontinuo, del mancante… oltre la memoria nell’ombra dello scacco… la voce di un altro… non frammenti ma bagliori di luce… uno spazio ‘incosciente’…

Ma il profondo minimalismo (che in te è una immisurabile qualità) si arrischia più in là della stessa ventura di Gramigna: In quale dimensione / del paradiso / oggi ci avviamo? Ecco un’incerta speranza, una paradisiaca fede che pone l’interrogativo sull’abîme, sui precipizi… fra il tutto che può essere anche un nulla eckhartiano: … che cosa cerchiamo / se di nostro di là / non c’è niente?

            L’attimo, un volo,
            il pensiero che si definisce,
            l’abbaglio di una luce
            improvvisa
           e sono precipizi.

Ma se la poesia, come tu stesso riconosci, è stupore in uno spazio incosciente, allora il niente in una sorprendente epifania si forma nella tua, nostra casa: L’aria quasi rosa / un volo sovrano / dentro un rumore / d’acqua. Sono a casa. La casa della forma? La forma della parola come silenzio? Quanto si è discusso, ricordi, un tempo ormai remoto, di significanti e significati, di alternanti supremazie… quando dovevamo subito accorgerci, invece, che un segno vive muto nella biologia, nella cosmologia di un universo senza giustificazioni…

Questi tuoi Improvvisi segnano una atarassia come sospensione di giudizio. Come epochē. Fra stupore appunto e in-coscienza. Che si può dire? Cosa rivelare se non il silenzio? C’è un desiderio, e insieme un distacco. Il tragico disciolto in dolcezza, in leggerezza: dalla vetrata la sera / respinge il dolore / con una striscia rosa. Forse il dolore è rosso di sangue come lo struggimento di un tramonto, ma la sera piano piano lo addolcisce di rosa. Una accettazione scandita dal ritmo quotidiano di natura:

            La macchia l’ombra il segno
            dell’oltraggio
            che ci portiamo dentro
            un ritmo quotidiano di natura,
            un carico di spine ancora
            che sa di custodire
            delicati fiori?

I delicati fiori nascosti dietro l’assurda e squallida platealità del nostro tempo, le sue violenze, i suoi masochismi (Nell’aria si consumano / bandiere. / volti di un mondo / straniero, enigma / mosso da una esigua / natura morta)… quei fiori in verità mai appasiti… affiorano, lo sentiamo appunto nella muta parola di un dio che non ci sovrasta, ma si incarna fra i nostri sensi e la nostra mente, che sono poi un’unica cosa… un’unica casa: quella degli affetti (l’affettuosa tua dedica “al mio caro cerchio famigliare che oggi, intorno a me, fa quadrato”), quella dei segni oscuri dalla stanza, nel buio rivelati, aperta una porta, da uno sfolgorio / di luce… Ricordi le stanze metafisiche di De Chirico, navigate da solitari argonauti, dalla cui finestra entra inopinatamente un sole sfrangiato, labirintico e misteriosamente festoso? Eppure, a ben guardare, accecante, al sottile turbamento degli improvvisi oggetti desueti… Delle dinamiche non presunte:

            Il bosco ha un respiro
            improvviso, come
            un sussulto
            per una mano che agita
            un mucchietto di foglie.

 

Ecco allora che questa tua poesia, questi tuoi Improvvisi rivelano un segreto metafisico che coinvolge gli spazi (e i tempi irracontabili) fra gli oggetti apparentemente estranei in quanto desueti a sé e agli altri. Fra quegli spazi senza tempo alberga la poesia. E veramente – ma qui non è una affermazione di maniera – “il resto è silenzio”.

 

(Scritta a Giancarlo Pandini in occasione dell’uscita della plaquette Improvvisi, Ed. Fantigrafica, Cremona 2006)