L’in-leggibile*

Questa nota sulla coppia oppositiva e complementare leggibile/illeggibile e sul suo rapporto con la nozione di ‘consumo’, comincerebbe volentieri con una storiella che si trova nel “Motto di spirito” di Freud e che s’impernia anch’essa su una copia di nomi, nomi geografici nel caso. I quali, tutto sommato, sono legati alle pulsioni, e la storiella ha a che fare con la verità.

Su questo tornerò dopo. Quanto al binomio tirato in campo, sembra impossibile istituire la leggibilità o l’illeggibilità di un testo come categoria assoluta, in quanto di solito si determina rispetto a un codice, a una cultura, a un costume, addirittura a risorse individuali. Tuttavia, se la si rapporta all’idea ora dominante, e difficilmente reversibile, di consumo, essa perde alquanto il carattere di relatività, e si offre come modulo a valore generale.

Voglio dire che la qualità assegnata a un libro di oggetto di consumo, cioè oggetto che letterariamente viene consumato, che si butta via dopo l’uso per sostituirlo con uno nuovo, tale qualità implica obbligativamente l’altra, quella della leggibilità.

Leggibile è un libro che si percorre con una lettura, che non lascia dietro di sé alcun residuo. Un testo leggibile non richiede – non sopporta, direi – di essere segmentato da una pluralità di letture, destrutturato e ricostruito con movimento ripetitivo, di essere non mai cominciato e non mai finito. Un libro è essenzialmente leggibile in quanto al termine della lettura non esiste più. Esso si risolve in un vuoto che può venire immediatamente colmato.

Sotto questo aspetto leggibilità e illeggibilità non sono per forza collegate a una maggiore o minore difficoltà di decodifica del testo, a rotture vere o fittizie con il linguaggio corrente, con la koiné narrativa o poetica. Il consumo arriva a neutralizzare e dunque ad usufruire opere che sembrerebbero di approccio francamente ostico, addirittura ermetiche, come si usa dire – soprattutto se epigone. Vale naturalmente anche il contrario. Kafka viene ormai dato per chiaro, ma fortunatamente resta illeggibile malgré tout. Joyce ha corso per qualche tempo il rischio di diventare leggibile.

Non è in gioco, si sarà ormai capito, una oscurità oracolare, sciamanica; tanto meno qualche cosa che faccia rientrare dalla finestra quello che era già stato espulso dalla porta: l’ineffabile. Al massimo, queste sono le forme ‘deboli’ proprio del leggibile.

La continua fuga in avanti, lo spostamento insaziabile dell’oggetto fanno del libro leggibile una forma dell’isteria. L’illeggibile è invece ciò che obbliga a raddoppiare, a ricominciare senza fine la lettura, dominato com’è dalla coazione a ripetere, e dunque s’inscrive a pieno diritto nella nevrosi ossessiva.

Così l’illeggibilità risulta un modo di formazione, o di deformazione, originario del testo, iperdeterminato naturalmente: ma fra le determinazioni un posto decisivo spetta all’assunzione culturale del principio di consumo. Gesti e capacità del lettore vengono ulteriormente degradati nella scala dell’importanza a favore del meccanismo astratto.

Impostate in tal modo, leggibilità/illeggibilità sono solo parzialmente ricoperte dalla nota opposizione di Barthes, lisible-scriptible, ma rimandano al cenno pure barthesiano sui troubles de sens. Un testo consumabile non è semplicemente un testo che ha un senso solo, magari ormai convenzionalizzato. Può anche raccogliere una pluralità di sensi, ma sempre in circuito, vale a dire destinati a chiudersi su se stessi, ossia a distruggere via via ogni loro ingombro.

Il senso del testo detto illeggibile è turbato dalla resistenza a connettersi, dalla tentazione a riprendere da capo, a trovarsi spostato in ogni ripresa. Illeggibile è ciò che non si può leggere una volta per sempre.

Si può citare ancora Mallarmé, quantunque si tratti di un Mallarmé di annata alquanto acerba? È quello dello scritto sull’art pour tous, dove risulta atterrito più ancora che dalla venuta dell’arte del più gran numero, dalla prospettiva che essa diventi insegnabile, un sapere che circola senza residui. Il più tardo “Mystère des lettres”, spezzando una lancia a favore dell’oscurità, non può che ignorare ancora che il consumo arriverà tranquillamente a fagocitare e sfruttare l’oscurità.

La figura dell’illeggibile si connette fatalmente con il problema della ricerca letteraria. Ipotizzo: l’illeggibile, l’in-leggibile (scomponendo il termine) non sarà qualcosa che – se si legga – si legge in/dentro quel nodo più interno del fare letterario che ha somiglianza con l’ombelico del sogno, punto di una ramificazione infinita dove il desiderio insorge “come il fungo dal suo micelio”?

Leggo che “la sperimentazione è finita” e che si afferma il Grande Stile. Un recente convegno a Palermo si riprometteva l’identificazione di un nuovo equilibrio fra ricerca e consumo. Dopo questi anni segnati dalla pratica dell’equivoca leggibilità, con i risultati che sappiamo, sono incline a chiedere piuttosto un po’ di sbilancio, un’ipotesi di lavoro letterario che muova assumendo come punto di partenza, mettiamo, l’illeggibilità.

Resterebbe da liquidare la storiella promessa, che riguarda Leopoli e Cracovia. Come si sa è l’incontro in stazione di due personaggi (è una storiella yiddish), con il patetico lamento di uno di essi: “Perché mi dici che vai a Cracovia, così che io pensi che vai a Leopoli, mentre vai proprio a Cracovia?”. Insomma, perché mi menti nel dirmi la verità? Certo, nell’orario ferroviario, Leopoli e Cracovia stanno al termine di itinerari, di sensi, ben precisi e distinti. Ma l’orario è un libro solo in senso improprio.

Per quanto riguarda il libro in senso proprio, ecco, ciò che ho chiamato l’illeggibilià, che sarebbe meglio chiamare l’infinito delle letture, ha un rapporto abbastanza stretto con la verità, e il falso. L’illeggibile non smette mai di esigere letture perché mente di andare a Cracovia andando a Cracovia.

* (da “Testuale” n. 1, anno I, Gennaio 1984, pagg. 4-6). torna su