Donato Di Stasi


Mille piani di scrittura. La piuma e l’artiglio

(Poesie 1978-2005) di Adam Vaccaro. Ed. Spettacolo, Milano 2006

 

1. Non i malefici della critica, i culturalismi consuetudinari, gli arabeschi insidiosi (estasi e algìe dell’ermeneuta) sono l’oggetto di queste note, ma il succo vitale che si può estrarre da questa scrittura antidiplomatica, filigrana del vissuto collettivo, pressa e lacrimatoio di esistenze aspre, non inclini al feuilleton mediatico.

In un quarantennio di delibazione poetica Adam Vaccaro ha poco lesinato sugli scontri con la realtà e la verità, con l’obiettivo permanente di restituire un senso alle cose e agli eventi, avvoltolati nel secolo appena trascorso: da emigrato e intellettuale (l’asse Molise – Milano), ha passato i suoi lustri a ri-annodare fili, a cercare adiacenze con il mondo, a considerare la società rurale contadina non come un reperto antropologico da Tristi Tropici, sebbene come un deposito di dati naturali, di domesticità e amore agro per la terra, di famiglie, razze, paesaggi, luoghi puri, essenziali (Terra mia pietre morte/devo tornare in mezzo a voi/ per sentire tutto l’amore/ che non vi ho mai dato/per sentire la mia carne così fatta di voi/ per cantare finalmente anch’io/ insieme con gli ulivi caparbiamente abbrancati/ al vostro umore/ la mia e la vostra legge/ di vita aspra, in Sacrario quieto, 1970).

Si rivela nell’antologia La piuma e l’artiglio qualcosa di profondo, non riferibile all’oggetto poetico in sé, ma alla socialità perduta, alle masse, alle moltitudini, non ancora inscatolate nel consumismo, ancora libere di fluttuare nelle ingiustizie, nelle sofferenze, nei presagi dell’avvenire, nelle speranze.

In questo senso (su indicazione di Auerbach e del suo Mimesis) parlerei di realismo ancestrale, di una realtà spaccata fra memoria e futuro, omessa dai libri, introvabile negli inserti delle riviste e dei quotidiani: di fronte a un presente disordinato, furente, insensato, Adam Vaccaro chiede di significare quello che manca, ciò che si è perso irrimediabilmente; la sua richiesta è condotta in tono vibrante, inquieto e non interroga con minore preoccupazione e rigore la caoticità indecifrabile delle scritture contemporanee, postume a se stesse.

Adam Vaccaro scrive indocilmente sui temi del progresso, della democrazia dei diritti; scrive con sincerità in modo assolutamente trasparente, dialogando con il lettore su situazioni esistenziali e emotive così stringenti e radicali da annullare quasi del tutto la malattia storica della nostra cultura, tronfiamente retorica e verbigerante allo spasimo: rievocazione antiarcadica del passato e amore per la bellezza (nella forma di un eros carnale e coinvolgente) costituiscono gli  antidoti del Nostro ai veleni del presente.

Il nucleo rovente della sua opera è rintracciabile in un’idea di felicità irreligiosa, irriverente, atea in senso etimologico; la voce poetante risulta imbevuta di tragedie contadine e miti ctonî, ma nello stesso tempo catapultata negli afrori e nei miasmi della palus putredinis attuale.

Il punto di partenza appartiene a una scrittura tonale (Strappi e frazioni 1977, La vita nonostante 1978), cui ha fatto seguito una fase di maggiore ricerca stilistica (La casa sospesa 2003, Labirinti e capricci della passione 2005), nel corso della quale ritmicità e metaforicità surreale prendono il sopravvento, dovendo testimoniare non il gioco artistico, quanto la significazione di un messaggio ben scandito, capace di allargare il campo delle immagini, degli esempi, delle esperienze.

Adam Vaccaro afferma più volte di non voler rimanere nelle parti morte della vita, nella condizione stagnante dell’inesistenza (Dunque mi dici che il mondo non finisce qui/ che questo è solo un confine/ e non una fine// Dammi allora una mano a seguire questo filo/ che mi si perde tra le mani/ dammi ancora una mano che non mi/ faccia perdere le tue mani, in Il confine 2003).

Si assiste a una coralità dove parla l’io monologante e tutte le voci che lo accompagnano, inespresse, costanti, sommergenti: finalmente la creatività non risulta da un contenimento, ma da un’espansione, da un’invenzione di gesti, così non si registra il solito basso regime di scrittura poetica ferma e deteriore, esclusiva e elitaria, al contrario l’autore configura un linguaggio compiutamente aperto e inclusivo, nel quale alle parole viene restituita, dove possibile, la loro compiutezza. 

2. Che cosa fa l’autore di valore (non misurato in camarille e conventicole) di fronte alla vita aneddotica, didascalica, frettolosa del superuomo di massa? Ingoia il malessere e prova a individuare una mappa di errori che tramano un esistere profondamente precario e inesatto, così le sue composizioni si dimostrano rapida cattura di irrilevanze e suggerimenti,  imperocché manifestano acre volontà di trascrivere idillî discontinui, frammenti ostinati di passato, promemoria intristiti, abbozzi in forma concettuale di valori un tempo comuni in cui provare ancora a dimorare e a rifugiarsi.

Che cosa fa Adam Vaccaro di fronte alle vertiginose accelerazioni della Pre/PostModernità (estraneità dell’individuo a se stesso, astrazione strisciante del Potere, eterodipendenza dalle macchine)? Richiama e reclama radici culturali, pretende di resistere alla totalizzazione consumistica, non si trincera nel rifiuto, nel pessimismo, anzi riflette con coraggio e avanza proposte, teorizza l’antiisteria e una sacra vitalità condivisa con gli altri e invisa ai portatori di gerarchizzazioni (Tu…// che ti giri e chiedi una spinta/ verso un’altra isola esplosa nella nebbia/ e non ti basta sentire ancora quale lingua/ senza parole inventa la mia lingua// quale vela e vessillo è/ il tuo latte fuso al mio – tutto/ per far rinascere il mondo/un poco più mondo, inedita 2005). Contro la passività della persona poetica che nei due canoni dell’intimismo e dell’ideologismo accoglie tutte le forme simboliche, feticistiche e clonate del presente, Adam Vaccaro fa valere l’ipotesi di un mondo altro, di un tendere verso l’umano e le sue ragioni autentiche.

Sembra qui di ripetere ovvietà rimasticate, eppure mi pare un modo convinto di osteggiare l’afasia incipiente, di arricchire instancabilmente la nostra conoscenza del destino.

Il compito della poesia non consiste nel crogiolarsi nella decadenza, nella postumità, quanto nel tracciare validamente, se si è in presenza di autori degni di tal nome, una precettistica minima per convivere con la crisi e, soprattutto, per tentare di uscirne una volta per tutte (ci si dovrebbe ritenere ormai enormemente stanchi di queste stimmate della decadenza, impressesi dal  lontanissimo 1870!). 

3. L’assunto teorico di La piuma e l’artiglio si dispiega in direzione evidentemente anticrociana: si sostiene al suo interno che non si può isolare la poesia dalla verità, e allo stesso modo che i predicati attribuibili all’esperienza estetica non possono essere solo il bello e il brutto; questo implica che la poiesis si lascia cogliere come coscienza estetica del vero (la poesia è questo splendore di sassi/ di un attimo leccati dalla lingua/ d’amore – o di rabbia – d’un mare/ da reinventare nella tua lingua in/ onde di altro amore/ persino l’orrore reso splendore/ altra sapienza del tuo cuore, inedita 2005).

Questo dettato non ha a che fare semplicemente con il mondo asettico della sonorità e della bellezza formale, ma con l’alterità (esistenziale e sostanziale) che si assimila togliendola dalla sua condizione di estraneità.

Adam Vaccaro ha lavorato a un assunto emozionale e gnoseologico, coniugando Erfahrung (apprendimento) e fahren (viaggio, mutamento), in questo senso dal Molise della prima infanzia alla Lombardia  degli anni successivi l’incontro con un differente universo di valori lo ha scosso, lo ha maturato, fino alla messa in opera di una testualità fortemente votata alla sua dimensione civile (Milano infila tunnel del metrò/ per rincorse di istanti veloci/ che sommati fanno un niente// per farne montagne di macerie/ tra sogni di un perduto verde e incanti di incontri che a settembre// fumavano salsicce e bandiere rosse/ parentesi in attesa di ragazzi bravi/ a fare il gioco delle coppie con siringa, in Quintocortile 2004).

Nei versi di Adam Vaccaro circolano le attese utopiche del Movimento (gli anni Settanta in primis), si slargano prospettive di una possibile modificazione degli stati di cose, nei quali nostro malgrado siamo gettati e ai quali apparteniamo: chi percorre queste pagine non trova verità canoniche, o  asfitticamente proposizionali, piuttosto apparati  descrittivi, non misurati su un  principio di  conformità, ma su un’idea di apertura, riguardo a un orizzonte nel quale divenire finalmente consapevoli delle tragiche modificazioni sociali e antropologiche in atto (in Ludi a Menfi 2005). 

4. Un’energia inesauribile brucia nell’inferno della coscienza e per combustione rilascia parole in movimento (materiali e fisiche), attanagliate alla psiche, febbricitanti per quel loro voler capire e dirimere, definire e progettare. Se la dimensione epica risente di un inevitabile limite passatista (esigenza di unità narrativa in un mondo tanto frantumato e disperso), Adam Vaccaro elabora una sua epica in avanti, nella quale sovrappone, contamina, affronta l’inflessibile fatalità del suo tempo storico non per farsene schiacciare, ma per ricondurlo a comprensibilità e visibilità. I suoi testi sommuovono perennemente e reclamano l’intervento attivo del lettore, a cui chiede di saldare il proprio vissuto ai versi e alle varie sezioni del libro, per comparare e spingere oltre i significati, fino a farli diventare reali e operanti.

Una simile pluralità di retoriche pone la questione della dis-locazione, della de-territorializzazione dell’Io, scalfito, mutilato, prossimo a essere cancellato, perché l’eccedenza di materialità becera nega la profondità, imponendo il medesimo, il sempre uguale, il banalmente seriale: Adam Vaccaro si situa tra il piano degli eventi e il piano delle parole, mantenendosi in una salutare e stratificata originalità per non cadere nel solito errore della lirica consolatrice, o dell’ espressionismo autoreferenziale (Vocazioni al disastro perfetto/ di lacrime innaffiato e silenzi/ tra stragi di parole e poltiglia/ di promesse giurate e tradite/ recitate fortezze e debolezze/ di re di erezioni e teneri commossi/ cuori in seppie di nero veleno, in Pallide lune-piccoli re 2004).

Le parole chiedono di essere dette, si propongono alla riflessione, aprendosi, intrecciandosi, cooperando alla comprensione; e poi oscillano, slittano, iniziano percorsi dentro altri codici (mille altri codici), cercando vie indirette e oblique per giungere a possedere uno sguardo divaricato, uno strabismo della vista pendant a una necessaria diplopia del pensiero.

Si tratta di un’esperienza dell’impossibile (Derrida), intesa  come condizione normale in cui bisogna riuscire a stare: Adam Vaccaro non si ferma sulla soglia di un semplice suggerimento, prepara uno spazio d’invenzione che, se accolto con slancio, non può non produrre una concezione inedita di responsabilità.

La profondità sediziosa delle parole, il carattere descrittivo che le accompagna, il loro rutilante moto associativo, tutto questo contribuisce a trasferire la qualità dei concetti alle sezioni trasversali della realtà e lì, come correndo sui chiodi, Adam Vaccaro ci insegna a restituire  fascino all’espressione, ci convince a tradurre l’intraducibilità delle pulsioni e delle percezioni, degli stimoli e dei fatti che affogano la quotidianità. Sembra che l’autore non sappia mai abbastanza, per questo vive a ridosso di tutto, cerca di orientarsi, di capire dov’è l’ubi consistam e dove affrontarlo per evitare l’autopiallatura del nulla.

La poesia di Adam Vaccaro proviene dal facinativo, dall’eccitante (la parola erotizzata), più che dal pacato e dal placato (la parola sublimata), lo dimostra il continuo processo di agglutinazione utilizzato (lucefuoco, odiosamori, mutourlante, panebello, occhimani), per avversare lo stato di degenerazione penosa, di disumanizzazione irredimibile, che è sotto lo sguardo di tutti, anche di chi non vuole vedere (Tu testardo amore con un peso sopra al cuore/mentre tutto è ridotto a un ammasso informe/che distrutto dorme con mille spilli sotto i piedi, in Testardo amore 2002). 

5. Con La piuma e l’artiglio Adam Vaccaro rompe la crosta della contemporaneità, scopre quanto abusivi siano divenuti i luoghi morali, quanti inganni sussistano nell’esercizio della Scrittura (la piuma) e del Potere (l’artiglio), eppure in queste pagine per niente consolatorie  non rinuncia alla spudoratezza della speranza e dell’illusione.

Mi piace pensare al carattere abitativo di questi testi: stanze scomode, spoglie, dipinte con colori primari, ma adatte a incontrare e a svelare le censure, i paradigmi, gli assiomi di questa nostra epoca così falsamente falsa.