Gio Ferri


Letterale

Lesa sul Lago Maggiore, 10 giugno 2009

Gentilissimi Presidente e Direttore,


il nostro periodico, che compie 25 anni di attività, ancorché porti il titolo di TESTUALE, critica della poesia contemporanea, si è sempre interessato anche d’arte, e di musica e d’architettura.

E la nostra direzione, nell’ambito della rubrica “Letterale” ha sempre colloquiato (ricevendo sovente dialettici riscontri) con i responsabili della Biennale d’Arte. Lettere come questa vengono appunto pubblicate sul più prossimo numero della rivista (in questo caso il n. 46 che uscirà dopo le ferie estive).

Inviamo loro, adesso, il numero triplo più recente (2008) che, pur non riferendosi specificamente all’arte, porta un sottotitolo che abbiamo avuto il piacere di ritrovare in parte nel progetto della 53.Biennale, Fare Mondi: abbiamo detto, come potranno constatare, Nel fare scrittura. Fare, quindi, come poie¯in. E quel fare ci sembra appropriato alla creazione di mondi che nascano dal cáos, inteso nell’antica accezione di con-fusione.

Anche quest’anno la con-fusione caratterizza la Mostra da loro diretta e gestita. Ma da diversi anni ce ne siamo fatta una ragione (e ciò vale anche per ogni altra contemporanea creatività) che ci ha convinti, anche ad uso dei nostri lettori (sovente confusi, senza trattino!), che esposizioni della vastità, quantitativa e qualitativa, di questa di Venezia vanno lette in due modi distinti. Innanzitutto l’insieme, a nostro parere, va recepito come un’unica immisurabile opera, compresa la valenza della cornice: i Giardini, l’Arsenale che, anche al di là dei contenuti temporanei, di per sé ci appaiono come luoghi unici, straordinari, e ormai inutili e ambigui come devono essere l’arte, la poesia, la musica: quella immensa gru alle Vergini, per esempio, è un capolavoro unico di forme e di storie!

L’altra opportunità offerta da questa creativa con-fusione è la possibilità, per chi sia curioso e abbia voglia di farsi coinvolgere negli interiori spazi dei mondi fatti, ricreati, di cercare ossessivamente nella foresta vergine e intricatissima delle cose, delle nature ricreate, appunto, degli spazi primigeni e subconsci, e a colpi di machete farsi strada verso il chiarore lontano di una utopia sempre incombente e sempre irraggiungibile.

La Mostra di quest’anno, caro professor Birnbaum, per suo merito ha forse un pregio: ci sembra di rilevare una chiarezza di impaginazione che, se nulla toglie all’esercizio creativo della personale scoperta, un poco ci fa utilmente da guida.

Infine i punti fermi – che gran valore offrono per altro alla Mostra – si rifanno a nomi e a tecniche e a poetiche ben note: di Öyvind Fahlström, maestro svedese adottato, ritroviamo con piacere gli elaborati e accumulati fumetti, con i teatrini pop che abbiamo visto molti anni fa ai padiglioni nordici e che fanno parte ormai della storia dell’ultima parte del ‘900. Michele Pistoletto ci provoca e ci… moltiplica con i suoi specchi frantumati seppure baroccamente incorniciati (Pistoletto merita un discorso a parte, ma c’è chi lo ha fatto e ancora intelligentemente lo fa). Il reticolo, ragnatela immensa all’entrata di Tomas Sarachino va benissimo quale simbolo del garbuglio nel quale dobbiamo vivere (e, se con fantasia, anche godere): di quella… sapientemente gestita con-fusione che caratterizza l’intera Mostra. Pietro Cascella opportunamente e felicemente ricordato ai giardini delleVergini non ha bisogno di commenti (se non quelli maliziosi che sottolineano come qui appaia in fotografia nientemeno che il mausoleo di Berlusconi!). Paul Chan (cinese), Krzysztof Wodiczko (polacco) giocano poeticamente con le ombre, e straordinariamente spettacolare è la svedese Nathalie Djurberg con le sue serre e con le sue storie in plastiline animate, del tutto mostruose e carnivore.

Cygia Pepe (brasiliana) e Pal White (statunitense) costruiscono cattedrali con fasci artificiali e autentici di luce. La pop-art di Guyton & Walzer (statunitensi), con la con-fusa (ancora!) invasione ossessiva di oggetti d’uso è datata ma sempre attuale e piacevole (e sempre da giudicare con globalizzante e anticonsumistico giudizio).

Molti altri artisti di buon livello si potrebbero citare, ma particolarmente impressionati siamo stati dalla installazione alle Vergini dell’italiana Lara Favaretto: quell’oltremondano acquitrino entro una foresta – dovrebbe navigarci Caronte! – marciscente, caotica icastica riproduzione del fango dal quale sono nati e al quale vanno l’uomo e gli altri poveri, malformati, viventi è di una drammaticità a nostro avviso unica in tutta la Mostra.

Ma se vogliamo rallegrarci un poco possiamo frequentare (ottima soluzione a fronte degli scarsi e scadenti spazi d’uso delle vecchie Biennali) quel dinamico per forme, geometrie frattali e colori gran Café-Ristorante realizzato dal tedesco Tobias Rehberger.

Tuttavia, caro professor Birnbaum, per una gran parte della mostra, la sua buona volontà e la Sua esperienza soffrono di gravi cadute di stile esaltando, anche in aree spaziose (che meriterebbero miglior uso), banalità e vecchiumi – scusi – che non vorremmo nemmeno citare. Grandi pannelli cartacei o plastificati monocolori (dopo l’’antico’ Malevic siamo ancora a questo punto?): oggetti (oggetti?) privi della benché minima maestria e fantasia e, malgrado certe pretese concettuali, vuoti di sapiente e innovativa razionalità: Tony Conrad (statunitense), e ancora i rettangoli, quadrati, e altri rettangoli del tutto amorfi di Wolfang Tillmaus (tedesco); e di Sherrie Levine (USA) che vuol darci ad intendere, con i suoi piatti quadretti, di aver addirittura indagato, separato ed esaltato i colori di Monet con tecniche nemmeno da lei stessa approntate,  bensì  da uno specialista informatico! Lo stesso insipiente minimalismo ispira senza… ispirarci alcunchè il tubo giallo (uno scarico di liquami?) del brasiliano Cildo Meirelles. E in quanto ad accumuli di libri, giornali, animali imbalsamati, bambole rotte, pettini e sbiadite fotografie, vecchi oggetti, sacchi di carta monumentalizzati (ma ci sono già da un secolo la più intelligente e provocatoria “Fontana” di Duchamp, e mezzo secolo di collezioni della Narrative Art di Boltansky!), barattoli, scorie, ecc. Non c’è requie per il visitatore: tutto ciarpame da Arte povera fritta e rifritta. Non vale la pena citare i nomi dei cosiddetti artisti. Ci viene il dubbio che questi giovani e meno giovani abbiano poca voglia di lavorare! Non mancano, un po’ dappertutto, le scritture al neon: altra ‘novità’ con mezzo secolo di storia! Ma c’è anche qualche ‘pittore-pittore’ come l’italiano Pietro Boccasalva che fa malamente il verso a Bacon.

Una fatica intelligente e chiarificatrice (per molti aspetti) come questa da lei diretta, professor Birnbaum, non merita certe banalità, certi scempi, certi insipienti manierismi.

C’è da dire del nuovo (finalmente) Padiglione Italia alle Tese, di ampio respiro, ma anch’esso degno di miglior sorte. Ma lei, professor Birnbaum, pare non debba entrarci.  Doveva essere, ci avevano assicurato, una esposizione felice, colorata, innovativa, ecc. A questa sciocca pretesa (che nulla a che vedere con una seria visione dell’arte e della cultura in generale) si accompagna invece una abissale tristezza – per i temi e per la modestia delle opere il cui unico merito (merito?) è il grande formato. C’è Sandro Chia con il suo risaputo, manieristico, squallido citazionismo, fatto di scadentissima pittura. Di qualche interesse (ma scarsa emozione) i loculi ex-voto seriali di Bertozzi & Casoni… Per il resto vecchiume e, come s’è detto, senza ‘allegria’. Il piacere di vedere finalmente ben impostato lo spazio per il nuovo Padiglione Italia, è frustrato dall’ignoranza dei curatori. Si intitola la Mostra a Marinetti, ma di marinettiano non c’è alcunché: non diciamo di documenti storici (ormai straconosciuti), ma dell’assenza totale di una ricerca ‘futuristica’.

In Italia si sta discutendo se il paese sia caduto nello squallore di un ‘regime’ umano, civile e culturale. Lasciamo la risposta a lei Presidente, professor Paolo Baratta, che nella sua introduzione al catalogo, in merito al Padiglione Italia ci spiega che “la Mostra è organizzata direttamente (il corsivo è nostro) dal Ministero dei Beni Culturali con la scelta di curatori e artisti disponibili ai desideri espressi dallo stesso Ministero…”. Compreso l’interesse per il citato mausoleo la cui destinazione e pletorica esposizione adombra un poco il valore intrinseco (e di per sé autonomo) dell’opera dell’artista. Regime o cosa?

Comunque si voglia e si giudichi anche questa Biennale è da vedere, almeno nelle maniere che abbiamo proposto in apertura a questa letterina. E piacevole è sfogliare i due volumi di un originale catalogo, particolarmente godibile nella parte antologica fuori testo

Tuttavia quest’anno c’è una novità che forse surclassa la stessa classica Biennale: è lo straordinario spazio espositivo della Punta della Dogana, voluto da François Pinault, edificato da Tadao Ando, con una esposizione eccezionale d’opere notevoli organizzata da Alison Gingeras e Francesco Bonami. Ma si avrà tempo e modo di riparlarne a fondo altrove.

Scritta in occasione della 53a Biennale d’Arte di Venezia al Presidente Paolo Baratta e al Direttore Daniel Birnbaum

 

Lesa sul Lago Maggiore, 12 giugno 2009

Cara Dell’Arte

rileggendo la tua ultima raccolta Il tema del padre non posso fare a meno di sottolineare le misurate (o smisurate…) parole dell’amico Vincenzo Guarracino che, in prefazione, da alcuni tuoi versi trae una citazione e un commento lapidari e in qualche modo definitivi «E potrebbe la nostra storia / di padre e figlia / – così grande amore – / non interessare… A cominciare da qui, sembrerebbe che nient’altro resterebbe da dire, salvo che racchiudere e custodire gelosamente nello spazio del privato la festa di un sentimento..».

Ma il sentimento, e l’amore padre-figlia, Guarracino poi lo rivela non significa di per sé poesia. Va detto oggi soprattutto dopo che tante esperienze di ricerca novecentesche c’è una diffusa rinuncia a cogliere non la superficie della vita la ma la sua parte nascosta – altra si diceva una volta. Cosicché molta, troppa, di quella diffusa (commerciale) scrittura degli arbitrari ‘a capo’, detti ‘versi’, scambia il sentimento del profondo con il sentimentalismo dei… buoni e facili e ovvi… sentimenti d’accatto, per l’appunto.

Ecco, perciò mi piace discorrere della tua poesia, della tua antica e sempre nuova esperienza poetica in quanto autenticamente poetica, là dove la forma dei sentimenti, delle pulsioni, dei sogni supera la contingenza (ancorché sinceramente passionale) per farsi segno eternale – interiore e cosmico (quando ogni interiorità è nel cosmo… anzi è il cosmo medesimo).

Molti testi di questa tua raccolta, meglio poemetto, potrei leggere e rileggere qui se avessimo più tempo e spazio. Ma alcuni mi paiono assolutamente esemplari, ai fini di una poesia che vada oltre grazie alla sua specificità scritturale. Per esempio:

f

orse sei nella mia foresta / tigre o lupo in rivalsa / da agnello sacrificato / che ne sa dio delle nostre / miserie eccelse / forse come me pesce dell’abisso / a sua insaputa

Sono fortemente coinvolgenti quei passaggi immaginifici che in soli sette versi scanditi e definiti in affermazioni lapidarie (miserie eccelse) raccontano, meglio stagliano nella parola le vicende di una vita, o addirittura della vita, la vita di tutti, tutti i figli e tutti i padri. L’aggressività, la rivalsa, il reciproco sacrificio… miserie che consumano la loro negativa potenza nella vastità abissale degli oceani (endecasillabo pur vivo ma soffocato dalle acque), della mente, della carne, dell’inconscio oscuramente pacificato oltre le tempeste. In quanto tutto avviene infine ad insaputa, del dio e di noi stessi. È per questo che altrove si afferma che

Amore mio è una frase / che non posso più usare / ha combattuto contro / i tuoi mulini a vento / adesso il vento la sgranella

Le acque e il vento, che tutto coprono e tutto disperdono, tutto sgranellano per nullificarci nella insaputa spazialità atemporale dell’universo.
Tuttavia là, oltre il muro, c’è il fantasma della verità – la verità di un amore senza aggettivi, senza compromessi, senza disperazioni quando s’avvicina il tramonto con l’ultimo suo filo dorato di luce, prima del liquido abisso. E tu dici, noi diciamo:

non sostare sulla soglia / entra prima del tramonto / nell’ultimo mio filo d’oro…

E c’era una cosciente attesa in quell’attesa, fra il qui e l’oltre, paralleli mondi macerati dal tempo perciò ormai senza tempo, se non quello immisurabile delle favole antiche, vite senza principio né fine e per questo vite immortali. È ancora un sapiente, forse inconscio, endecasillabo a tracciare il chiuso confine tra la favola della vita (quella vita che è sogno) e la verità dell’oltre (quell’oltre che è vita al di là di ogni contingenza):

andremo avanti parallele / malgrado i nostri sogni / macerati dal tempo / il confine non si apre più di tanto / da qui e di là del muro / tu senza pioggia io l’attendo / vestita con le tue favole antiche

Leggendoti potrei andare avanti ancora per questa strada senza orizzonte, in quanto è percorribile senza confini o stanchezze entro lo stesso orizzonte, uno spiraglio che, stretto, non si apre più di tanto, ma quanto basta. Mi perdonerai se per me è essenziale questo percorso leggero e ventoso che vuol superare (l’ho già detto, e mi scuso) ciò che ti è sacro, per esaltare entro la tua passione l’unica sacralità che vince la morte: la sacralità della poesia. Quella poesia che è tanto vera in quanto sia inutile agli stessi comuni, talvolta ovvi, sentimenti.

Scritta ad Antonietta Dell’Arte in occasione dell’uscita della sua raccolta di poesie “Il tema del padre”, ed. Passigli,  2009

 

Lesa sul Lago Maggiore, 20 giugno 2009

Caro Cannillo,

dopo la silente, seppur tesa, visionarietà, in un paesaggio intimo, sotto un Cielo privato (il titolo della tua precedente celeste raccolta), sento che da fuoco agli spazi, che ti sovrastano e insieme ti accolgono, con questa plaquette dal titolo Cieli di Roma, che, appropriatamente, nella grafica raffinata delle Edizioni LietoColle, è illustrata da due opere famose di Scipione (Piazza Navona e Ponte degli Angeli).

Il Cielo privato s’incantava  nel silenzio, e nella incredulità dopo le tante turbolenze dei tanti eventi (una vita ripercorsa a ritroso, come notava Gabriela Fantato nella prefazione), cosicché la prima poesia di quel volume recitava:

Come mai questo silenzio / dopo i ruggiti e i traffici notturni / il tempo così carico fermato / alla periferia del giorno…

Mentre l’intera raccolta, ricordo, si concludeva con i versi che rivelavano quanto in realtà illusoria fosse la quiete di una atmosfera ancora, comunque, percorsa da fremiti sotterranei, malgrado la poetica volontà di arginare le passioni, personali e collettive:

Anche senza cornice intanto / s’aggiusta a sistema la tela / la maglia si sgrana a guadagnare / spazio così parete alata / Voi che sfilate ammiratori / allude a voi che immaginate / colore come senso universale / anche fango splendere rosato / ocra nuvolosa oro necessario / ecco concretamente oggetti / E se squarcia fa male davvero / se pelle deperisce è la vostra / i panorami i cari volti voi

Il fango rosato, l’ocra nuvolosa, l’oro necessario preannunciavano le irruenze barocche dei Cieli di Roma, delle metafisiche sommosse dei colori e dei fantasmi di Scipione.
Rileggo ancora  un incipit per questa più recente raccolta:

E vola volano piumaggi / folate di colombi corvi / da bocche di guanciali aperti / nuvole e dietro spinge il sole / subito un nuovo soffitto, piogge / e sereno, alterni e antagonisti / I cieli si contemplano senza spiegazioni…

Riprendono corpo, quindi, oltre la propria memoria, come vedo rattenuta da un tuo certo personalissimo sovente pacato e placato lirismo, le dismisure dell’anima e delle materie accese, vissute ora in una città, la Città per eccellenza, che con le sue eternali contraddizioni ferisce, ravvivando nostalgie, e sprona tuttavia ad affrontare le violenze del cuore e dei cuori.  Io e gli Altri:

… pulsa / indiviso motore d’esistenza…
…Fatti accecare dalla contraddizione: / … / Percorri la ferita dei conflitti / Osa e non abbassare più lo sguardo…

Roma, i suoi splendori barocchi, i suoi resti mitici dalle memorie collettive, i suoi cieli violenti di tramonti, il suo distacco archeologico dalla contingenza e dalle ipocrisie, sollecitano atti individuali di eroismo.
La visionarietà del Cielo privato si fa spazialità, energia cosmologica:

Risalgono dal mare / … / i gabbiani reclamano ai quartieri / pasto promettono visione / Angeli fuggiti dagli affreschi / sul fiume formano / sublimi ingordi / una corrente opposta…

Noto le sottese violenze analogiche: ingordi per ingorghi, e più avanti nel sublime di una esasperazione di battiti e gridi. Celeste conflitto, arrossata crudeltà. E il passaggio, anche rammentando quanto si è accennato per la precedente raccolta, dalla illusoria pacificazione in una misurata interiore bellezza, alla  violenza di una bellezza invece sovrabbondante, eccessiva, della natura, delle cose, delle storie, delle emozioni affrescate e debordanti:

… pulsa intermittente lo splendore…

Queste sfide richiedono l’uso di ritmiche paratassi – già se ne possono cogliere diverse nei versi citati:

Dobbiamo congedarci allora / ognuno imperatore un’epoca / scandiscono gli addii ogni principio / e un lutto che ritorna alla radice…

in cui l’ambiguità dei soggetti si condensa nelle fessure degli enjambements.

L’orizzonte prepara / nuovi risvegli…

Con questa avventura romana – vale a dire nella visione di una città universale entro le geografie dei sensi, dei corpi, delle orme, a contatto con i marmi d’antico incantati e cantanti (Al canto / della fontana e del suo marmo…), doni a te e a noi la promessa di una poetica della presenza, anche rischiosa da vivere, ben oltre la cornice, i limiti, i confini dei rimpianti. Forse sull’abîme

Scritta a Luigi Cannillo,  leggendo Cielo privato, Joker Ed., Novi Ligure 2005 e Cieli di Roma, Lieto Colle, Faloppio (Como) 2006

 

Lesa sul Lago Maggiore, 20 luglio 2009

Caro Carandente,

ho letto e sto rileggendo Risveglianze che percorrono con grande coerenza quasi quindici anni della tua attenzione alla metamorfosi della parola poetica. Che biologicamente si fa senza sosta, attraverso l’analogia, come giustamente osservi. E che, come ancora noti, si affida al mordente della ironia come “coscienza del cammino della storia e quindi della morte”.

Posso dire che in tutto ciò, in queste poesie particolarmente, c’è la forza vitale, anche nel beffare la morte, di una sorprendente, energetica, teatrale, gestuale napoletanità? Straordinari sono certi fuochi d’artificio:

lanza lanza ultra poco ronza / sceglie la rima con Magonza / va in giro a caccia di uccellanza / fresca selvaggina oppure lonza / lacca lacca ultra poco ronza / batte la Flacca si ferma a Ponza…

Ma lo scherzo si fa drammaticamente defecante, macabro, – eppur senza mai abbandonare una spettacolare buffonesca leggerezza, tanto partenopea quanto erede della commedia dell’arte e dei canti carnascialeschi:

sorella in escremento / certo più subdola più perfida / più implicata col putrescente / scontorce invisibile non vista / fuoriesce dal fondo cieco / in flatescenza / esala in silenzio / invade l’olfatto a zaffate miasmatiche / irresistibile, il suo puzzo…

Gli escrementi – la cronaca direbbe oggi di immondizie extravaganti da Nord a Sud, dalla nefanda “nobiltà” dei potenti alla miseria degli impotenti, e viceversa – sono infine i resti marcescenti di una vita senza ragioni, senza giustificazioni di fronte alla signora morte, altra ultima prova di inumana violenza:

ho visto un fiume di kosovari / scorrere in senso contrario alla poesia / imboccare la porta cieca della storia / immobili e muti affondare in se stessi / perdere il senso / e risalire la sorgente del niente.

Allora dallo scherzo, in senso sinfonico, dall’allegro con brio passi al tempo musicale di una marcia funebre – adagio assai (ho visto un fiume…scorrere). Sono, come è noto, i primi due tempi della cosiddetta “Eroica” dalla quale giungono gli echi di illusioni trionfali e di tragedie immani.

L’immondezzaio della storia appunto. Dalle menzogne della storia. Della vita storicizzabile come niente.

E questa immagine funerea dei Kosovari è accompagnata da quella della poesia. Ecco che l’inutilità della poesia, la valenza della sua forma disforme da quella della prassi, della quotidiana violenza, dà qui, per contrapposizione, rovesciamento, la ragione irragionevole di una visione altra dell’esistenza. La porta che si apre sulla poesia, aperta dalla poesia non è quindi cieca.

Altra illusione?

Preceduta da passi una voce ferma forma l’opera / chi s’illude di cambiare un’aurora / chi vive già un’aurora cambiata...

Leggo che dedichi all’amico e maestro Franco Cavallo la memoria del suo umanistico scetticismo, anche dinnanzi alle speranze, o  disperanze, della poesia:

accade che si cade / e senza impronte / senza incanto / intanto.

Ma la poesia, quella che resta, quella che riempie il nulla, il vuoto lasciato dalla storia, individuale e collettiva, forse ha il suo luogo, spaziale ed eternale, nel susseguirsi metaforico delle forme biologiche, proprio là oltre la soglia:
 

ora che sono trapassati i tuoi occhi chiari/ e non sei più vincolata al giogo dell’umano/ hai varcato la soglia d’eternità…/ …/ sei passata come un sogno che non si lascia trattenere…/…/
 hai mandato in pezzi la compattezza/ e pronta a capovolgere l’errore in vastità/ sterminata, spazio immensurabile/ ripartita puntuale dal detrito umiliato.

Una persona, la persona, costei, una persona che, forse, è la poesia stessa. Che manda in pezzi la compattezza della materia d’uso, ma riparte puntualmente dal detrito umiliato. Anche l’immondizia della terra, della storia, della vana quotidianità è prolifica di sterminati spazi, quando tutto sia visto con occhi chiari.
Occhi chiari, acque chiare:

presso una colonna d’acqua/ in una voce in cammino/ trovai la mia luce…

poiché, come dice, la folgorazione scaturisce pura nell’enigma della parola.
Ma la quotidianità bugiarda ti spinge al crudele sarcasmo:

Ancora devo fingermi idiota/ per prendermi il vero modo/ d’essere il prima e il dopo/ d’essere il dentro e il fuori…

Cosicché il tempo sinfonico ricambia saggiamente ingenuo, autentico, e napoletanamente: l’amaro e insieme felice scherzo si abbandona ancora una volta ai suoi ritmi sanguigni e beffardi:

nel parco il porco/ attende un poeta parco/ ma lui non si sporca /da sempre attende l’orco.

Scritta ad Alessandro Carandente, rileggendo Risveglianze, Marcus Edizioni, Napoli 2007.

Lesa sul Lago Maggiore, 24 agosto 2009

Caro Spagnuolo,

mi accingo a leggere con grande curiosità il tuo Fratture da comporre da poco uscito nelle eleganti edizioni “Kairós” di Napoli. E, subito, riferendomi al titolo – certo, lo si intuisce, non generico e casuale, come troppe volte riportano i libri di poesia, o ‘cosiddetta’ – mi pongo una domanda, direi non da poco: le fratture nostre e del nostro tempo, e quelle della letteratura in particolare, hanno propriamente bisogno di essere composte? O la loro scompostezza è il sale della vita? Della sua follia e di quella della poesia?

È con questo interrogativo che affronto, per essere confermato o smentito, i tuoi testi a prima vista assai intriganti, anche in relazione alle tue passate esperienze creative, e critiche.

Le figure del feticismo, mi paiono, qui più che altrove, dominanti:

pampini capricciosi nel tuo ventre / intrecciano frammenti… incomprensibile / come la schiena nuda alle pareti / il barrito della succlavia al collo… fammi accostare…/… / al tuo calore, al ventre, al tuo cespuglio / che nasconde il torpore, il sogno, il gusto / di un incanto… i tuoi piedi hanno reso friabili / gli scogli della mente… gli strappi delle tue cosce insolenti… è il sangue torturato, / confuso nel delirio che intreccia desideri… schiocca il tuo corpo ancora una tensione / sul dorso…

Ma c’è il compianto della vecchiezza – fra l’assente memoria nostalgica e l’eterna presenza della parola poetica che si esercita insistentemente nell’invenzione utopica di scritture corporali, di segni confusi e usurati, di tracce irriconoscibili – mentre le inquiete mie dita consumano i capelli / per l’ennesima volta, / biascicando smanie indigeste, / per il ventre ormai sconnesso

«Quella “congiunzione essenziale” di assenza e presenza fa sorgere la similitudine di un corpo preso tra due tenaglie che lo schiacciano… Definire tale  esperienza è definire l’esperienza insoddisfatta fondamentalmente, o per principio…» [G.B.Contri, “I tre imperativi…”, in “Figure del feticismo”, Einaudi 2002].

Essenziale per questa tua esperienza poetica – e qui sta la sua originalità – è la constatazione scritturale (eternale discorso) di una condizione feticistica che coinvolge la sessuale utopia umana al di là delle vicende biologiche di ciascun individuo. Il corpo e le sue attrazioni non hanno età, ed è in questa drammatica circostanza che l’individuo medesimo viene schiacciato. C’è il piacere – la tua poesia sovente lo invoca – ma, e forse già ne eravamo consci,  subito il piacere si fa solamente distruttiva nostalgia. E quel subito è un tempo senza misura, perciò tempo senza tempo: un subito che condiziona il non-divenire di una irrefrenabile e tuttavia statica pubertà. È questa pubertà che insidia crudelmente e senza scampo la stessa vecchiezza. È una favola ingenuamente moralistica, se non dall’intento oppressivo, quella che vuole affermare per la vecchiezza ‘la pace dei sensi’. I feticci e le loro simbologie sono nel mito, e non nella storia, individuale o collettiva che sia.

È ovvio che a questo punto dobbiamo negare la storia, quella cellulare dell’individuo (che va comunque dalla nascita alla consunzione) e quella dell’umanità che con le sue contraddizioni (affermazioni e smentite, illusioni e perdite, tutte protese allo zero) si definisce nel nulla ben prima di una qualsiasi palingenetica fine e resurrezione. E persino ovvio affermare che la storia anagrafica dell’uomo (e dell’umanità) non è che un Nulla (qui ci vuole la maiuscola!) nella infinita nullità, per altro fluente senza scopo, biologica e cosmologica.

Una lettura di questa tua raccolta (meglio poemetto, considerata l’unità e la coerenza dell’assunto e delle emozioni) – ma altre letture possono darsi per chi voglia alleggerire il contesto – difficilmente può risolvere nel senso comune la catastrofe dell’essere temporale. Quando la illusoria volontà del piacere, affermandosi ossessivamente senza storia, senza fine, è presente sempre malgrado l’impotenza: una impotenza in cui l’essere medesimo si autodistrugge fin dal primo manifestarsi dei suoi desideri.

Tuttavia, se insistiamo nello sforzo eckartiano (il Dio come Nulla, l’Essere come Nulla) di superare la disperazione della storia e delle sue illusioni, per andare oltre il confine della sua impotenza, allora possiamo entrare nel territorio di quei segni che, appunto, non hanno storia: quel territorio è quello inconsistente (di fronte al banale utilitarismo storico) della poesia. Che non ha alcunché da dimostrare, alcunché da comunicare: per affermare invece la sua irreversibile presenza nel superamento della impossibile nostalgia. Di che?

Poesia significa – e in questo tuo più recente canto (un epicedio per la storia?) trova conferma – abbandonarsi alla forma fluens, biologica, cosmologica. Segnica… inutilmente (al mondo) segnica. Cosicché il discorso silente (per la sua eternale nullità) nel flusso prosastico impone la presa di possesso della parola semplicemente (?) come materia.

Per questa via il titolo, Fratture da comporre, mi fornisce la risposta, leggendo il testo di commiato:

Come faremo a supporre ancora / un verso, un segno, una parola, / dopo il tremore e l’inganno, / … //… chiude un tempo ben fisso nella sera / … / breve amarezza di un retaggio / … Fratture da comporre… / … / da conservare negli spazi di un’unghia

Nessuna artificiosa composizione, quindi, nessuna guarigione dalla follia feticistica, bensì l’accettazione sublimabile della parola che tutto coinvolge nel cháos, inteso nel rispetto etimologico, come insieme. Comunione senza finalità, se non quella della materia che si fa. Nel presente. Necessariamente.

Scritta a Antonio Spagnuolo in occasione dell’uscita della raccolta Fratture da comporre, Kairós ed., Napoli 2009.


da Gio Ferri a Tiziano Salari

Caro Tiziano,

questa mia breve e ‘leggerissima’ lettera aperta (una chicchierata amichevole, piuttosto che un saggio, seppure minimo) vuole rifarsi alla lettura dei due fascinosi interventi che hai generosamente inviato, anche da noi sollecitato, alla nostra rivista: quello su Flavio Ermini (pag. 38) e quello dedicato ai saggi (quasi, ma non tutti, inediti) di Giuliano Gramigna (pag. 45) pubblicati nel numero triplo 43/45 di “Testuale”. Ti ringrazio di queste tue indagini che saranno di grande stimolo per i nostri lettori. E che insistono nel tenere aperto, con dovizia di citazioni e probazioni, questioni vecchie (ma sempre nuove, perché mai chiuse) delle quali – in particolare tu ed io – abbiamo discusso a suo tempo più volte su questo stesso periodico, e altrove. E, appunto, non è male insistere proprio tenendo conto dell’attuale indigenza della poesia (cosiddetta!) e della stanchezza accademica o, tanto peggio, giornalistico-culturale (‘culturale’? ancora si fa per dire!).

Forse fra tante differenze, tanti punti di vista, e tanti diversi modi di ‘scrittura’, una comune convinzione (vogliamo dire banalmente ‘viscerale’, comunque irrinunciabile) avvicina te, Ermini, il sottoscritto, e pochi altri (oggi). E un maestro (l’attributo non si può comunque disconoscere) come Giuliano Gramigna. La cui scrittura – con tutto il rispetto per il nostro lavoro, il tuo, quello di Flavio e, immodestamente, il mio – è di superiore (sinfonica) qualità, anche rispetto ad altri importanti studiosi del ‘900: un apprezzamento, questo, che viene quasi tutti i giorni dai più qualificati lettori di quel particolare numero di “Testuale”.

Dico di una ‘lettera leggerissima’ poiché, dopo le tue approfondite analisi, non oso qui, anche per ragioni di tempo e di spazio, disquisire con troppa acribia critica in relazione a certe tue (e mie) affermazioni che, almeno nell’ambito dei nostri trascorsi colloqui, possono apparire di fin troppo ovvia considerazione.

Tu ed Ermini, più di una volta, avete sintetizzato le vostre convinzioni (documentatissime) affidandovi a una formula (guardarsi dalle formule, ma a volte possono servire per una temporanea e limitata comprensione di massima):  avete aspirato a una “poesia pensante” e a un “pensiero poetante”. Mentre io osservavo che non può darsi mai una “poesia non pensante”, mentre sovente si dà un “pensiero, profondo, ma non poetante”.

Ciò, infine, definisce bene, io credo, in breve, la differenza che divide le nostre considerazioni sulla poesia, dal punto di vista della volontà di conoscenza e verità, che nella sostanza ci vedono appunto compagni di strada.

Il punto è la tua scarsa – credo di capire – riconoscenza (!), ai fini della verità, nei confronti del ‘testo’, e dico ‘testo come materia del fare’ (poiéin). Come materia fluente dell’‘essere’. Perché negarmi, dico negare a me (!), e ad altri “le plaisir du texte”? Il piacere del suono (musica), il piacere del segno e della traccia (arte)?

Certamente c’è un ‘testo’ proprio della filosofia: ma se per filosofia intendiamo, come dobbiamo intendere (senza qui addentrarci nei capitoli della logica, dell’estetica, dell’etica, ecc.), ‘philêin-sophía’, amore della sapienza come attività intellettuale, allora quel testo non può non essere strumentale, finalizzato (anche se non c’è principio né fine) ad una convinzione, ad un progetto, ad una sistematica, ad una scoperta ancorché temporanea, alla volontà di ‘convincere l’altro’.

Il ‘testo poetico’, quando poetico è, non ha di queste (modeste, contraddittorie e spesso illiberali) pretese. Il testo poetico va decisamente oltre nella sua fluente vitalità. Perché il testo poetico non è la ‘spiegazione’ più o meno comprovata delle ragioni della vita, bensì la vita stessa.

È ora di finirla, scusa se mi accaloro, con quel banale fraintendimento, o luogo comune (di fronte alla ricerca poetica), di un testo poetico ‘autoreferente’. Non esiste parola poetica, se poetica è, autoreferente. Sarebbe come dire che la vita, l’universo, i micro e macro organismi sono autoreferenti. Sono perché sono. Né più, né meno. Ma come sono? Sono nella fluenza di una metamorfosi perpetua mai conclusa e mai finalizzata. Certo che sono per sé. Ma il ‘sé’ è la ragione dell’irragione. Una montagna è autoreferente? Allo sguardo ingenuo e superficiale può sembrare. Ma non lo è nella sua viva sostanza materica: una montagna respira in spazi atemporali le ere geologiche, la luce e il buio, il nulla, degli anfratti, il lavorìo dei venti e delle acque, gli echi, le memorie vicine e millenarie… Eppure risponde alle sue leggi naturali. Così un testo poetico (vogliamo nominare ancora “L’infinito”?)  – per chi vuole e sa leggere ‘fra’, ‘entro’, ‘oltre –  è una cosmologia infinita (appunto) o, se vogliamo, un infinito pozzo entro e oltre il quale c’è quello che c’è in una montagna, secondo le leggi non esteriori della parola, che non serva solo alla comunicazione (la parola della filosofia, per esempio): metabolismi segnici, sommovimenti perpetui non visibili a ‘occhio nudo’, metamorfosi, ritmi e suoni, colleganze, comunioni, rumori e silenzi, rivelazioni atemporali, storie immisurabili… Infine circolazione sanguigna, “contese” (per dirla con Ermini) di sensi e di energie carnali e cerebrali. E molto altro ancora. Dici bene: “il luogo in cui l’anima [io dico della materia] si annida”. Altro che autoreferenzialità!

Proprio il ‘racconto’ di Ermini è una prova di questa vicinanza, comunque prolificamente contraddittoria, tra filosofia e poesia, ancorchè protese a una verità (inindividuabile), per la filosofia fuori di sé, per la poesia dentro di sé. Tu citi indirettamente Ermini: «... il mondo… non ha un prima né un dopo, ma è un perenne sgorgare di cose che non escono dal nulla [tuttavia sul ‘nulla’ ci sono altre osservazioni da fare che ora ti risparmio], ma appunto dalla essenziale permanenza dell’essere». Ecco, quando tu ed Ermini ci dite questo, con l’intenzione di convincerci fra l’altro, non fate certo della poesia, bensì della pregevolissima filosofia. In questo libro-saggio-poema Ermini per altro vive costantemente al confine (o bordo di un abisso) di una ricerca in qualche modo ragionevole, programmata e coordinata, e si protende (sovente con successo) verso una sorta di coinvolgente favola mitica (metafisica e fors’anche mistica?) che trova, oltre l’idea, appunto la materia dell’essere senza definizioni. Quell’inizio che non è storico, bensì un’ epifania sempre presente in ogni momento in cui la ‘scrittura’ (il segno) raggiunge la sua manifestazione formale rivelandosi in un testo.

Il mio discorsetto andrebbe svolto seguendo passo passo le proposte tue e di Ermini: ma non è questo, ripeto, il luogo né il tempo. Già ne ho detto altrove e ancora ne dirò, possibilmente tenendo sempre sott’occhio i testi. Perché solo dicendo ‘sui’ testi, e non genericamente ‘dei’ testi si può cogliere l’energia del poema.

Finisco per ora con una osservazione che mi sembra persin superflua. Mi sorprendi quando ti chiedi “che cosa resti oggi” di tante datate e storicizzate misure (o dismisure) e suggestioni critiche e, certamente, filosofiche rivelatesi nel Novecento. Che cosa resti in sostanza di Freud, di Lacan, di Barthes… di Gramigna. Potrei chiederti che cosa resta di tanti filosofi, dai presocratici ad oggi, da te abbondantemente citati e discussi. Restano effettivamente i loro fantasmi, ma è di epifanie fantasmatiche che vive la poesia oltre la ragione. Restano le guide che, prestandosi ovviamente per loro natura a discussione e rinnovamento, ci sono state offerte (anche in compagnia delle scienze) per percorrere e godere (desiderando intensamente, perché no?) i territori dell’ inconscio (perché no?), della sensualità (“la poesia ha commercio con i sensi”, diceva Leopardi), della sessualità (perché no?), delle vicende genetiche e cerebrali (limbo, rettiliano… perché no?). Della morte come vita, perciò, solo in quanto poetico, del tragico. Non mi sembra proprio che percorrendo queste finite (ma non indefinite) strade si perda – anzi – la risposta alla “domanda fondamentale di verità, senza la presunzione di possederla”. Non capisco perché si debba riunificare quella domanda “in un solo luogo dell’anima”. Quale anima? Credo che quella indefinita e indefinibile ‘anima’ non esista proprio, perché, per l’appunto, quella che, senza sapere in effetti di che cosa parliamo, chiamiamo anima, non è in un solo luogo, ma in infiniti luoghi. Ma se vogliamo insistere nel nominare l’anima possiamo farlo affidandoci alla infinita risorsa della “in-leggibilità”.

Per quale motivo la proposta di Gramigna lasci “intoccata l’essenza ontologica” del testo, sinceramente mi sfugge. E mi sfugge perché la ‘con-fusione’ nella rottura dei canoni delle scritture, in poesia, in arte, in musica, non sia, propriamente, la ricezione di un “mondo entrato in uno dei secoli più tragici della storia”. Ma anche se su questa pessimistica definizione ho i miei dubbi: perché in fatto di tragedie nulla vedo di confortante nei secoli trascorsi. Mentre quello da poco scaduto mi offre, proprio nel valore del tragico, la ricchezza di una ricerca (come la vostra fra l’altro) assai spesso appassionante.

Non diciamo poi di una grande vittoria (grazie alla quale ora stiamo discutendo pubblicamente senza timore di roghi!): la conquista della libertà.

Botta e risposta

da Tiziano Salari a Gio Ferri 

Caro Ferri,

ho ricevuto la tua lettera che sarà pubblicata sul numero 46 di “Testuale”, fascicolo che contiene anche due miei interventi, dedicati rispettivamente a Flavio Ermini e Giuliano Gramigna. Certo si ripropone un vecchio dissidio sul modo di concepire la poesia, ma permettimi di segnalarti, in primo luogo, alcune incomprensioni di carattere terminologico. Mi scuso anche per la semplificazione a cui sottoporrò il tuo discorso. In primo luogo non era affatto mia intenzione ridurre l’importanza critica di Giuliano Gramigna, anche se eviterei il rischio di inutili feticismi (“superiore ‘sinfonica’ qualità, anche rispetto ad altri importanti studiosi del ‘900”), soprattutto collocando la sua figura a livello europeo, e analizzandola nel suo tempo e in questo ambito. Oggi fortunatamente è possibile. E certo rispetto a una critica letteraria tradizionale, impressionistica o ideologica, e avvalendosi di strumenti appresi dallo strutturalismo e dalla psicanalisi, Giuliano Gramigna (con Stefano Agosti, Avalle, gli stessi Arbasino e Sanguineti, e pochi altri), ha insegnato a leggere i testi in modo meno impressionistico, meno ideologico, legati alle loro interne corrispondenze nel senso lacaniano  dell’inconscio «strutturato come un linguaggio». Ma, appunto, rimanendo all’interno dei testi, esaltandone le qualità puramente letterarie. (E qui tralascio di aprire il discorso sulla saggistica italiana nel suo complesso, che avevo affrontato nelle mie Asine di Saul, rispetto a una saggistica europea – Thomas Mann, Gottfried Benn, Hugo von Hofmannsthal, Rainer Maria Rilke o, nell’ambito puramente critico, o filosofico, Maurice Blanchot o Gilles Deleuze, ecc. ecc. – questa sì, dotata di una “superiore qualità sinfonica”, che rivela la bellezza del testo, la potenza del testo, ma allo stesso tempo ci porta fuori dal testo, a farci porre le domande fondamentali sulla verità dell’essere). Quello che ti contesto apertamente è il paragrafo in cui dici: «Il punto è la tua scarsa – credo di capire – riconoscenza (!), ai fini della verità, nei confronti del ‘testo’, e dico ‘testo’ come materia del fare (poiéin). Come materia fluente dell’essere. Perché negarmi, dico negare a me (!) e ad altri ‘le plaisir du textè’? Il piacere del suono (musica) il piacere del segno e della traccia  (arte)?».

Ma, caro Gio, io contestarti il piacere del testo? E dove mai? Caso mai voglio aggiungere un intingolo in più a questo piacere, farmi avvolgere da questa musica fino a farla diventare carne e sangue della mia conoscenza del mondo. E più un testo è bello e grande, più intenso è questo piacere (sto rileggendo Proust, quest’estate ho riletto L’Idiota di Dostoevskij e l’Ulisse di Joyce, sto scrivendo su I quattro quartetti di Eliot e le Elegie duinesi:il piacere del testo mi fa piangere di dolcezza ad ogni pagina)

E certo che c’è anche un testo della filosofia… Ma ho l’impressione che tu per filosofia intenda sempre e soltanto la metafisica (quello che, secondo Adorno e Heidegger, è il pensiero dell’ente, fondato sull’esattezza, la corrispondenza tra soggetto e oggetto, il principio di non contraddizione ecc. ecc.).

Chi ha mai detto che un testo poetico deve rimanere chiuso nella sua autoreferenzialità? Dici: «Sono nella fluenza di una metamorfosi perpetua mai conclusa e mai finalizzata». E sia… Anch’io, sono nella ricerca di una verità che non è mai raggiungibile. Confesso che la chiusura del mio scritto, quando dico «spettri di Marx, spettri di Lacan” è da correggere e al limite sbagliata, I maestri del sospetto – Marx, Nietzsche, Freud –  devono essere costantemente ripresi, a partire da quello che è rimasto inconcluso nei loro discorsi… Franco Rella ha pubblicato recentemente un libro, La responsabilità del pensiero, in cui dice che bisogna risalire a prima di Blanchot, Foucault, Deleuze, recuperando George Bataille (l’esperienza interiore, la vulva di Madame Edwarda) e Nietzsche, il senso del tragico al fondo dell’opera d’arte. Altri, come Cacciari, in Hamletica, dicono che con Beckett è il comico ad essersi sostituito al tragico e a parlarci della nostra impotenza conoscitiva. Altri ancora, come Vattimo, intitola il suo ultimo libro Addio, alla verità, e dice che oggi ci potrebbe salvare soltanto un Dio relativista…

Nel nostro libro collettivo e polifonico, La poesia e la carne, abbiamo cercato qualche forma di risposta nella poesia, in un sapere inutile e che forse non vale niente…

Scrivi: «Per quale motivo la proposta di Gramigna lasci ‘intoccata l’essenza ontologica” del testo mi sfugge». Ecco, forse perché, dei problemi di cui sopra, pur leggendo e rileggendo, Gramigna non ci ha detto niente, anche se a volte ci ha fatto capire da dove nasceva il nostro piacere di un testo, e per questo, certo, continuo a onorarlo e ringraziarlo.

 

da Gio Ferri a Tiziano Salari

Caro Tiziano,

sì, mi convinco che per certi aspetti possiamo essere meno lontani di quanto può sembrare. Tuttavia forse, anche in una fertile polemica, si può, senza volerlo, andare fuori misura e cadere in fraintendimenti.

Per esempio proprio tu hai detto, nel tuo saggio: «Mi chiedo soltanto che cosa resti oggi ditanto plaisir du texte», oppure «Quello che ancora manca è una lettura delle scritture più estreme che ci faccia intuire la tensione tra scrittura, vita e ontologia, e come tale frattura si prolunghi fino a noi, aprendo uno squarcio di conoscenza che trascenda i testi e l’autoreferenzialità della poesia».

Ma non insistiamo troppo su certe discutibili (il bello è che siano discutibili!), reciproche affermazioni. I lettori di Testuale sanno benissimo leggere, capire e distinguere! Sarà compito loro, se vorranno, sottolineare le nostre coerenze e le nostre contraddizioni!

 

TESTUALE fuori testo
Scandaloso merinismo

Alla nostra redazione giungono ogni anno centinaia, migliaia di versi editi, inediti. Ed osserviamo sempre, anche con una certa umana comprensione: quanti scrivono ‘poesie’ (cosiddette) e quanti, troppi, non leggono poesia! Nemmeno quelli che ne vogliono scrivere, con dispendio di illusioni e di denari. Il 90% dei testi vengono pubblicati a spese dell’autore. Ma non sarebbe nemmeno questo il dramma se si volessero ricordare consimili vicende vissute da i più grandi scrittori dei due ultimi secoli.

Si aggiunga l’ovvietà che è assolutamente lecito – talvolta di fronte a talune tragiche solitudini – scrivere anche facili sentimentali pensierini, diari, sfoghi. E non costa nulla, se non si pretende di pubblicarli, chiamarli, se può far piacere a chi scrive appunto, ‘poesie’.

Infine ben venga una generica e generalizzata voglia di poesia anche se, colpevole certamente la scuola (la scuola è colpevole oggi di molti guai!), di poesia propriamente non si tratta. Perché di poesia, ovunque e comunque, si blatera senza domandarsi quasi mai di che cosa nello specifico si stia parlando. Purtroppo tanta nostra disponibile considerazione si scontra con quelle prese di posizione elogiative, anche di critici più o meno qualificati, che si sprecano su poveri pensierini infarciti di sentimentali ovvietà. Se la scuola è da deprecare, forse ancor di più lo sono certe pubbliche pseudoculturali attenzioni – critiche e editoriali. La poesia è colpevolmente trascurata, ma non mancano di tanto in tanto miserevoli mercanti di compiacenti banalità.

Va aggiunto che non è proprio necessario andare ‘a capo’ per affermare d’aver scritto una poesia. Certi pensierini possono essere, come pensierini, apprezzati anche, anzi, se trascritti tutti di seguito. Leggiamo questo testo assolutamente dignitoso, anche se di manieristico e povero significato. Comunque né peggiore né migliore di tanti piagnistei che ci arrivano da casalinghe frustrate o da altrettanto frustrati insegnanti in pensione:

I versi sono polvere chiusa / di un mio tormento d’amore, / ma fuori l’aria è corretta, / mutevole e dolce e il sole / ti parla di care promesse, / così quando scrivo /  chino il capo nella polvere / e anelo il vento, il sole, / e la mia pelle di donna / contro la pelle di un uomo.

E rileggiamolo ora tutto di seguito:
 

I versi sono polvere chiusa di un mio tormento d’amore, ma fuori l’aria è corretta, mutevole e dolce, e il sole ti parla di care promesse, così quando scrivo chino il capo nella polvere e anelo il vento, il sole, e la mia pelle di donna contro la pelle di un uomo.

Cosa cambia? Forse è molto meglio. Ma di quale poesia comunque si tratta, quando si vive un sentimento qualsiasi, probabilmente in questo caso diffuso in donne sole, e comunque poveramente soggettivo? Mentre non si vive, non si elabora, non si rinnova, non si rivela, non si metamorfizza, non si metabolizza nella carne della parola, che è la carne della carne, lo sterile, indigente banale ‘linguaggio del comune sentimentalistico eloquio quotidiano’? Manieristico, automistificante, perciò troppo sovente menzognero.

Bene: questa ‘poetessa’ è diventata famosa a Milano, grazie alla povertà culturale non tanto della massa quanto degli addetti (TV compresa, ovviamente), e l’avrete riconosciuta. Si tratta di Alda Merini.

L’abbiamo incontrata molte volte in trent’anni e più, anche personalmente: lungi da noi l’irriverenza nei confronti delle sue malattie (da lei per altro abilmente ‘vendute’), e ora della sua scomparsa. La pietà non può mai venir meno, e non è lecito giudicare gli abissi dell’animo umano.

Sono insopportabili invece gli atteggiamenti decisamente incolti e strumentali (alla facile editoria di consumo, comunque, per la poesia, di scarso consumo) di tanta esaltazione per una modestissima scrittrice che, negli ultimi anni, si è voluto riconoscere, da parte di un certo establishement più… ‘politico-amministrativo-comunale’ che letterario, come una delle più significative (se non addirittura ‘grandi’) poetesse contemporanee.

Di qui, addirittura, la promozione di un comitato per il Premio Nobel! La pensione Bacchelli! E, nientemeno, i funerali di Stato!

Le pagine cosiddette culturali dei più diffusi quotidiani e periodici e i programmi televisivi se ne sono ben guardati dallo spendere tanta dovizia di riconoscimenti per importanti poeti scomparsi negli ultimi decenni quali Luzi, Porta, Gramigna, Raboni, Sanesi, Cappi, Cacciatore, Spatola… (solo per far qualche nome). Né i media diffondono altrettanti spazi così ampiamente ‘pubblici’ per poeti ancora energicamente attivi nel segnare incisivamente la dismisura poetica del nostro tempo quali, per esempio, Erba, Viviani, Zanzotto, Sanguineti… Abbiamo scoperto (in realtà già lo sapevamo) che in più di un liceo si parla sovente in questi mesi della Merini, ma non si conoscono nemmeno semplicemente i nomi di  scrittori che hanno fatto la storia letteraria e culturale del ‘900.

(Dicembre 2009
G.F.)