Tiziano Salari


Poesia e critica

A.  La poesia e il principio dell’essere
     Note su “L’originaria contesa tra l’arco e la vita” di Flavio Ermini
 

1. Ermini c’introduce in quella che viene definita “in limine” un’opera narrativa (L’originaria contesa tra l’arco e la vita) partendo dall’inizio del pensiero occidentale, da un frammento di Eraclito: “Nome dell’arco è vita, opera ne è la morte”. E fondandosi sul fatto che l’arco e la vita siano chiamati dagli antichi con lo stesso nome, bios, sottolinea la compresenza, in un solo termine, di vita e di morte, pur mantenendo tuttavia “i contrari differenti”, ma allo stesso tempo “affermandone l’aurorale appartenenza” contraddittoria. Ermini aggiunge così un altro capitolo alla sua ricerca orientata verso l’inizio, non nel senso nostalgico di recuperare una perduta trascendenza, ma di un’apertura degli orizzonti di conoscenza. Apertura che Ermini definisce con un altro termine dell’antica sapienza greca, e cioè con l’ápeiron che fa da sfondo al celebre detto di Anassimandro. «Anassimandro ha detto che principio degli esseri è l’infinito (ápeiron) dove infatti gli esseri hanno origine, lì anche hanno la dissoluzione secondo necessità: essi pagano infatti a vicenda la pena e il riscatto dell’ingiustizia secondo l’ordine del tempo» (I Presocratici, nella raccolta di Hermann Diels e Walther Kranz).

2. Siamo all’aurora del pensiero, per cui “essere”, significa” l’esser presente, nel senso del raccoglimento illuminante-custodente che costituisce il logos”(Heidegger) nella cui essenza contrastante, scrive Ermini, «tutte le determinazioni vengono all’esistenza e nel quale poi ritornano», costituendo quella essenza pensata dell’universo designata col nome di physis. Ora Ermini, con la sua narrazione, vuole dislocarsi in questo luogo iniziale, abolendo la successione temporale, come se le cose sgorgassero incessantemente nuove dall’ápeiron, «ogni volta nominato e pensato con parole iniziali; ogni volta in modo singolare».(Contesa p. 14) E poiché, con Eraclito ed Anassimandro, siamo all’inizio del pensiero occidentale, là dove l’essere viene pensato nel suo giungere alla parola, Ermini tende a ritrovare questo inizio al di là della caduta del pensiero nella metafisica o nella scienza che, secondo Heidegger, hanno costituito la millenaria storia dell’oblio dell’essere.

3. Siano quindi di fronte al tentativo paradossale di narrare l’essere (sempre allo zenit, sempre nuovo e sempre diverso nelle sue determinazioni) come evento che si manifesta attraverso la permanente Originaria contesa tra l’arco e la vita, in una riflessione carica della tensione di dovere ripensare la verità dell’essere al punto estremo del suo totale oblio. Prima ancora d’immergerci nel flusso narrativo, devo chiarire perché definisco paradossale questa strenua risalita alle origini del pensiero occidentale, facendo scaturire dal fascino ipnotico di alcuni frammenti dei pensatori presocratici un racconto che non è tanto un divertissement, ma una ricerca d’identità e di verità. Paradossale perché Ermini si oppone, in questa come nelle sue opere precedenti, allo spirito poetico del tempo, nelle due varianti in cui esso si manifesta: o come abbandono ad un quotidiano insignificante o come ricerca di un senso che è tale solo se sanzionato dal riconoscimento e illuminato dai mass media. Ma essere contro lo spirito del tempo, non significa essere estranei al destino della verità, che qui viene affrontato cercando nell’«esperienza dell’essere come esperienza del linguaggio poetico» (ivi), secondo l’espressione di Heidegger citata In limine, una via del pensiero che venga a capo di quell’altra millenaria contesa, quella tra poesia e filosofia, inaugurata dalla condanna di Platone, che voleva espellere la poesia dalla sua Repubblica. Ermini, dunque (agli antipodi delle tendenze poetiche attuali, o del parallelismo proprio di alcune ricerche filosofiche che circondano e si alimentano della parola poetica, ma non vi si confondono, mantenendo una distinzione come da parte di chi riflette su una cosa ma non è la stessa cosa riflessa), unifica in un solo pensiero le due forme di conoscenza che si sono disputate nei millenni «il luogo in cui l’anima si annida». (Maria Zambrano). Si tratta dunque di fondare uno spazio in cui la ricerca di verità esuli dalla tradizionale concezione della verità come correttezza o corrispondenza e si arrischi in un altrove, lasciandosi alle spalle tutto ciò che è presente, e nulla aspettandosi dall’ente in quanto tale, si congiunga alla permanenza dell’essere nelle sue iniziali determinazioni.

4. «La volta celeste è lo spazio entro il quale si svolge la nostra esistenza. Dalla sua distesa informe discendono tutte le storie” (ivi). Non è il punto partenza di chi è angosciato dal mistero della vita, ma di chi guarda in faccia al mondo sapendo che non ha un prima né un dopo, ma sia un perenne sgorgare di cose che non escono dal nulla, ma appunto dalla essenziale permanenza dell’essere». Questo processo viene definito nel Capitolo 1, «Il naufragio protratto», quindi quel continuo flusso di eventi viene equiparato ad un termine che generalmente ha un’accezione negativa. Il naufragio implica il passaggio da una situazione di sicurezza ad una di estremo pericolo.Ma sembra che la visione di Ermini assomigli alla “Storia del genere umano” delle Operette morali di Leopardi, in cui la storia consiste nel precipitare da condizioni in cui la verità rimane velata ad una in cui essa si rivela in piena luce. «Il cielo niente esclude. Significa che possibilità e realtà sono congiunte in un loro luogo originario, nel principio. Noi dobbiamo passare attraverso una cruna, secondo le leggi del tempo». Il mondo inizia intero ogni volta, con ogni singolo individuo che venga gettato nel tempo. E ciascuno è una monade separata, «in uno stato di reciproca estraneità» con tutte le altre. Eppure ogni uomo non fa che ricalcare uno schema di vicende eguali per tutti o «fra loro molto somiglianti». Ermini vuole raccontare il destino della verità di ogni uomo come l’apparire della necessità,secondo la logica della Contesa, e mostrare come nell’intreccio di vita e morte si dispieghi l’essenza stessa dell’uomo. «A occhi chiusi, la sorella del sonno si fa vicina all’uomo che nasce e gli ingiunge di seguirlo in una terra nera». Nel labirintico susseguirsi di figure che dall’eterno si mostrano uguali, e di cui mette a nudo l’astrazione quasi in un geometrico schematismo di eventi, in cui il divenir altro è la morte («la sorella del sonno»), Ermini ci racconta una storia che tende a ridurre la totalità del molteplice ad una sorta di identità trascendentale di tutte le storie.

5. L’accadere è l’incominciare ad apparire del principio, il suo disvelamento E quindi proprio perché l’accadere è eterno come accadere – e quindi eterno nell’attualità di «tutte le sue determinazioni» che «vengono all’esistenza», gli accadimenti che appaiono sono continuamente diversi e gli stessi. Sarebbe inutile individuare, nel tessuto narrativo, dei puntuali riferimenti a epoche o miti primordiali dell’origine. Proposito di Ermini non è rifare la storia dell’inizio, ma ripensarlo. E ciò che per primo gli si presenta è la physis stessa, come per i primi pensatori greci. E il trapassare da una forma all’altra non viene scandito da epoche distinte, che nella permanenza dell’Essere sono soltanto attimi, ma da eventi che nascondono la verità e da eventi che la rivelano. Ora, poiché l’essenza dell’Essere è il dolore (ed è questa la verità a cui gli uomini, come nella leopardiana “Storia del genere umano”, vogliono contrapporre dei diversivi, o la cecità), “il ciclo vitale” non ha mai termine. «Nella pretesa di dare scacco alla morte, non conosce sosta la sua attività ristrutturante nei confronti delle forme cui ha dato vita» (ivi p. 55). E il principio non è altro che una serie di cadute e di rialzamenti dell’uomo in una storia che non ha mai compimento. «Ogni giorno l’uomo dà prova di sé camminando su un filo». Quando cade, un altro ne prende subito il posto. «Il filo non resta mai nudo. Il corpo che precipita fa germogliare dalla corda abbandonata le peripezie di una forma sostitutiva, e poi di un’altra ancora in una catena lunghissima di anelli», in un susseguirsi di generazioni da cui «nasce il pianto che non avrà mai fine» (ivi).

6. In un enigmatico “Excursus” intitolato “La vita” (ivi, p. 65), assistiamo a un dialogo tra un io e un tu, in cui possiamo identificare sia una coppia mitica, sia lo sdoppiamento dell’Uno narrante, sia un uomo e una donna che si pongono interrogativi sui fondamenti del loro essere intimi, e si riconoscono come parti dissociate di un Uno originario.«Anche la carezza ci parla dell’uno che eravamo. Ce ne parla come esodo incessante e doloroso verso il principio» (ivi p. 67). Il dialogo mette in scena un mistero angosciante, quello della scissione originaria. «In principio l’essere umano era l’uno e l’altro» (Ivi). Ed è la carezza a rammentare la violenza del distacco. «Anche la carezza ci parla dell’uno che eravamo. Ce ne parla come esodo incessante e doloroso verso il principio» (p. 67). Come scrive in un appunto Michelstaedter «Se io sono angosciato dal mistero, se il mistero è stimolo alla ricerca, vuol dire che il mistero è per me – non solo, ma è causa che io ricerchi, io voglia dominare il mistero». Così il mistero del principio e della scissione è causa di «volere con ostinazione» il ricongiungimento «altrimenti non è possibile percorrere tutta quella distanza» (Contesa, p. 69).

7. Ermini parla del suo libro come una delle narrazioni del principio. E intorno alla tematica del principio si muovono alcune opere fondamentali postume di Heidegger (Contributi alla filosofia , Sul principio, per non parlare dei suoi corsi su Parmenide ed Eraclito) e, in altre forme, sull’origine è orientata tutta la riflessione di Severino che, nelle sue ultime fasi, dal Destino della necessità ad Oltrepassare, trova formulazioni sempre più avvincenti per dischiudere all’uomo un cammino di salvezza dal nichilismo millenario delle cose che escono dal nulla e rientrano nel nulla senza lasciar traccia. Anche alcune opere recenti di Cacciari (Dell’inizio, Della cosa ultima) si sono interrogate sull’inizio sciolto dalla necessità metafisica del processo che ne è scaturito. Queste ed altre opere, hanno alimentato un diffuso dibattito nel mondo filosofico, e portato a nuovamente interrogare i grandi testi filosofici del passato, da Platone a Schelling, da Spinoza a Nietzsche, da Vico a Maria Zambrano, sulla questione del principio. E inevitabilmente la poesia, da Eschilo a Hölderlin, da Leopardi a Rilke, che si è confrontata con lo stesso problema. Se la ricerca di Ermini (non solo in questo libro, ma a partire da quell’Antologia dal titolo Verso l’inizio in cui venivano raccolti alcuni percorsi poetici oltre il Novecento, al Moto apparente del sole e all’Antiterra), non viene inquadrata sullo sfondo di queste ricerche, non solo non se ne capisce nulla, ma rischia anche di essere fraintesa e confusa con un tardo epigonismo simbolista o di sorpassato avanguardismo letterario. E all’opposto, rispetto all’attuale miseria della poesia e della critica letteraria accademica o giornalistica, ripiegate stancamente su un quotidiano ontologicamente svuotato di senso (e quindi estranee alla problematica del senso e della verità), è questo un pensiero che si affianca, con una sua specificità, al fondamento storico di una ricerca del principio.

8. E allora il problema è individuare questa specificità e farla risaltare sullo sfondo del più ampio dibattito nel quale s’inserisce, penetrando in quell’intreccio tra parola poetica e parola filosofica che Ermini intende unificare in un pensiero che raggiunga l’essere, ma che non può mai essere detto in termini definitivi o conclusivi. «Che l’essenza dell’Essere non possa mai essere detta in termini definitivi non costituisce una mancanza, al contrario: il sapere non definitivo tiene appunto saldo l’abisso, e dunque l’essenza dell’Essere» (Heidegger, Contributi alla filosofia). Ed ecco già una distinzione del pensiero di Ermini dal pensiero heideggeriano. L’essenza dell’Essere, per Heidegger, è fondata sulla differenza ontologica tra Essere ed ente, e sulla «totale inusualità dell’Essere rispetto a ogni ente». Per Ermini l’essenza stessa dell’Essere è dolore e «l’esercizio del dolore» (Contesa, p. 49) precede ogni evento – appropriazione in cui l’Essere si manifesta. Questo a priori non è mai nominato da Heidegger se non in termini ineffabili o di richiamo al dio o agli dei, di una necessità e di una verità che rimane inesplicabile.

9. E in questo solco, la narrazione di Ermini si conforma a quella che è la visione leopardiana, così sintetizzata da Emanuele Severino «Leopardi per primo, pensa che la verità è appunto l’annientamento della vita e delle cose e che quindi non può essere il rimedio del dolore. La verità è il dolore» (Severino, Il nulla e la poesia). Ma in tale visione, differentemente da Severino, che ne cerca un oltrepassamento nella salvezza e nell’eternità di ogni essente, Ermini permane con la consapevolezza che il processo di annientamento reciproco, secondo il detto di Anassimandro, non possa essere revocato «La vita che nasce dalla notte è vita dei giorni, ma il giorno che ogni volta spunta è morte per gli amanti. Le loro figure sono divorate in alto da presenze che nessun’altra vita consentono se non la pura ripetizione di quella che hanno vissuto» (Contesa, pag. 73).

10. Molte suggestioni sul ripensamento dell’Inizio sono state introdotte da Massimo Cacciari e dalla sua rilettura della Filosofia della rivelazione di Schelling nell’indagare «ciò che è prima o sopra dell’essere», e dell’indifferenza ad essere e a non essere che sta alla base di ogni cominciamento. Quello che intendo dire non è che Ermini si confronti con Heidegger, Severino o Cacciari (e quindi con il retroterra millenario della storia del pensiero) per le sue Narrazioni del principio, quanto che, sullo sfondo di quelle riflessioni, scava una sua via verso la comprensione del Principio, in cui poesia e filosofia s’intrecciano come in un «libro di sogni poetici, d’invenzioni e di capricci malinconici», come dice il Tristano di Leopardi all’amico progressista sul significato delle sue Operette morali. Non fa un trattato, in altre parole. Ma nell’espressione ironica è da cogliere la terribile serietà di una ricerca che mette a nudo la perfida sorba di cui parla Michelstaedter nella celebre Prefazione, e cioè quella verità che gli uomini tendono a risputare: la vita è dolore e male. «Lo dissero ai Greci Parmenide, Eraclito, Empedocle […] Lo disse l’Ecclesiaste […] lo disse Cristo […] lo dissero Eschilo e Sofocle e Simonide […] lo proclamò Petrarca trionfalmente […] lo ripeté con dolore Leopardi […]». (Carlo Michelstaedter, La persuasione e la rettorica) Tutto inutile. E torna a sussurrarcelo oggi Flavio Ermini. «Del dolore non resta altro da dire. Nel suo inasprirsi, rivela che in principio ogni vetta è un cratere» (Contesa, p. 117). E cioè l’ápeiron (la fonte inesauribile della vita e delle storie), sia che venga tradotto come infinito, sulla scia di Hermann Diels (tedesco unendlich) o «l’indeterminato, l’informe indefinito e indefinibile», come privilegiano altri traduttori(e lo stesso Ermini). Quella fonte che “Lo spirito del tempo”, a cui viene dedicato un capitolo della Contesa (p. 93) tenta di occultare, costringendo univocamente le nostre vite ad assecondarlo.

11. Ermini cerca poi di venire a capo negli “Excursus” delle aporie in cui s’involge la sua narrazione, e alla contrapposizione tra il monumento «dedicato allo spirito del tempo» e il monumento incompiuto, «all’altra estremità della galleria» che «tratteggia quel mondo di armonia del quale l’uomo avverte, ogni giorno di più, la necessità». Nel mondo del dolore e della univocità viene avvertita la necessità di un’apertura, o forse l’ effettiva possibilità di un altrove, di un’Antiterra, per utilizzare una precedente formulazione dello stesso Ermini di questa altra “estremità”. Proprio fondandosi su Schelling (Filosofia della rivelazione, Lezioni X-XIV), Cacciari parla «dell’Inizio come Indifferenza perfettamente libera dalla necessità di essere-origine» e della sua «perfetta accidentalità» che non soggiace «a nessun antecedente, causa, arché», e lo libera da ogni assolutezza e costrizione. «Perfettamente libero da ogni determinata potenza (negativa o positiva), come da ogni volere, anche dal volere (dunque, esso non è neppure più concepibile come oscuro, chiuso, inospitale Vorsein) , l’Inizio è pura Indifferenza, che comprende in sé ‘senza lotta’ e ‘senza fare’ ogni possibile determinazione e opposizione, ogni mondo possibile» (Dell’Inizio, p. 140). Ora, se il processo è poi stato divorato dal dolore e dal male, questa “compossibilità” permane incessantemente all’origine nella sua duplicità di poter essere diversamente ed è il pensiero poetico, secondo Ermini, a mantenere viva tra gli uomini la traccia di un’alternativa al dolore e al male – alla tragicità dell’esistenza.

12. La tragicità dell’esistenza è insuperabile. Ermini (come Leopardi e Michelstaedter) non si smuove da questa convinzione. Già il sottotitolo del suo penultimo libro Il moto apparente del sole era “Storia dell’infelicità”. Ma la poesia, più che riportarci sulla traccia degli dei fuggiti, come dice Heidegger (che sarebbero comunque le tracce di una storia che è venuta dopo) si spinge verso l’ápeiron (quella “compossibilità” negata dal processo) in una continua interrogazione del principio e delle cose come sono e come avrebbero potuto essere. Ma non come «ultimo rimedio», «l’ultimo quasi rifugio» dopo «il fallimento di tutti gli altri rimedi» (l’espressione è di Severino), piuttosto come immersione in quel fondo abissale a cui deve essere rivolta ogni domanda di verità. Scrive Ermini nell’”Excursus” a p. 104: «Va compiuto per intero il salto vertiginoso verso il senso originario delle cose, quello che Leopardi chiama ‘il senso dell’animo’, per esplorare ‘i misteri più nascosti, gli abissi più cupi della natura, i rapporti più lontani o segreti, le cagioni più inaspettate e remote, le astrazioni più sublimi». E questo leopardiano “senso dell’animo” non è da confondere con uno stato psicologico, ma piuttosto come una disposizione del pensiero a non arretrare di fronte a quella verità così definita da Benn e citata da Ermini nello stessa pagina: «Quando l’anima si sviluppa, essa si forma movendo verso il basso. Demonica questa verità, non c’è spazio per la malinconia, l’Acheronte ha sommerso l’Olimpo, il Gange si mette in movimento verso Wittenberg. L’io, sciolto dalla costrizione, nell’abbattimento delle funzioni, puro io nell’incendio delle origini, acausale, a priori dell’esperienza, si volge all’indietro per sollevare il velo di Maja».

13. E questo compito assegnato da Ermini al pensiero poetico non significa che voglia confrontarsi con il pensiero filosofico sulla base della logica e della coerenza sistematica, quanto riunificare, in un solo luogo dell’anima, la domanda fondamentale di verità e senza la presunzione di possederla. Anzi il pericolo è proprio quello di smarrirsi «tra i segmenti di un labirinto» (Contesa, p. 137), seguire le peripezie di un pensiero che «è fuga e ricerca, bisogno e spavento, un andare e ritornare, un chiamare per fuggire, un’angoscia senza limiti e un amore esteso» (Maria Zambrano), e proprio da questa situazione di precarietà attingere qualche segno dell’essenziale permanenza dell’Essere e della sua scissione, nella quale siamo sempre immersi. Un baluginare di una possibilità alternativa rispetto alla “storia dell’infelicità” e del dolore, uno spiraglio di luce dischiuso nel cupo scenario della storia dell’infelicità.

14. Credo che dobbiamo essere grati ad Ermini per averci additato questa strada aperta verso il Principio. È un viandante che ha affondato lo sguardo nell’ápeiron. E così è avanzato a tentoni, accompagnato dalla «sorella del sonno» nella notte del senso, verso porte alle quali «non possiamo avvicinarci senza urlare di dolore». Non si piega sulla facile consolazione della poesia, né sul solido terreno del sapere costituito. Guarda il cielo come un antico greco, il farsi del giorno e della notte, il disfarsi delle generazioni. Vede uomini e donne che «camminano sulle piccole ossa della propria incancellabile preistoria», interroga «i ritratti dei morti» e i testi della sapienza antica e moderna. Fa riacquistare alla poesia quella volontà di conoscenza che una critica letteraria incapace d’innalzarsi all’ontologia ha sepolto nello stile dimesso e diaristico di una registrazione di pulsioni e di vicende biografiche e quotidiane. Non mediante la ripetizione di luoghi noti o la rivisitazione di testi canonici. Solo grazie a un salto lungo la strada aperta e senza alcuna meta riconosciuta. In mezzo a coloro che resistono all’urto dell’essere e fanno propria l’inquietudine del domandare che non ha mai fine. Senza neppure sapere dove si è diretti, ma con l’anima che rimane fedele a se stessa anche in quel procedere a tentoni. «Nel suo stadio conclusivo l’essere creaturale entra nella luce, rendendosi così riconoscibile» (Contesa, p. 149). Ed è questo il luogo della verità, in cui l’uomo si riconosce nella piena manifestazione del suo destino e del suo tramonto.

B. La scrittura critica di Giuliano Gramigna
 
1. La raccolta di alcuni importanti saggi di Giuliano Gramigna, promossa dalla rivista “Testuale”, inizia con un capitolo (“L’antro del romanzo”) dedicato al romanzo, genere letterario che viene indagato sia nei suoi aspetti tradizionali che eversivi (o conclusivi), sotto molteplici punti di vista, che fanno capo a Finnegans Wake.

2. Partendo dalla metafora dell’antro, della caverna platonica, come proiezione della tradizionale immagine dello «specchio portato a spasso per una strada affollata», secondo una classica definizione del genere romanzesco, e chiamando in causa un testo di Porfirio, L’antro delle ninfe, in cui si fa «una minuziosa analisi simbolica» della grotta delle ninfe ad Itaca descritta nell’Odissea, che per il filosofo diventa simbolo «non solo del cosmo, del generato e del sensibile, ma anche, per la sua oscurità, di tutte le potenze invisibili», Gramigna c’introduce alla duplicità dell’universo romanzesco, in analogia anche con i due ingressi della grotta omerica. Dopo questa suggestiva premessa (in cui si accenna alla compresenza di generato e sensibile e di potenze invisibili), si prospettano quattro radici attraverso cui interpretare, nella sua totalità, il genere romanzesco. «Queste radici sono: il luogo, il nome, il tempo e l’avventura». E indubbiamente, come “ipotesi di lavoro”, a livello descrittivo («Dublino di Joyce o Balbec di Proust, Pont-l’Evèque o l’orografia-idrografia manzoniana o il Wessex di Hardy»), e tutti gli altri infiniti luoghi attraverso cui si è esercitata la fantasia romanzesca, si depositano in quello «spazio dove prima non c’era nulla», che può essere assimilato alla chora platonica del Timeo, ma diversamente da Platone non è un ricettacolo ideale anteriore a tutto, ma «un luogo insieme simbolico e concreto di soluzioni linguistiche e stilistiche, di figurazioni, di strutture dietetiche e di articolazioni emotive».

3. La altre radici, il nome, il tempo e l’avventura sono esemplificati con altrettanti, supremi esempi dell’arte romanzesca, siano Don Chisciotte o Zeno Cosini («marca di un soggetto oscillante, malato, immaginario, sempre in ritardo»), o il tempo, che nella Montagna incantata di Thomas Mann è l’intersezione dei suoi tempi, o l’avventura, che non è altro che la trama, vale a dire le «forme attraverso le quali la fabula prende corpo nel testo, siano le complicate vicende dei Tre moschettieri che quelle più interiori di Gita al faro». Nel suo saggio L’arte del romanzo, Milan Kundera scrive che «La conoscenza è la sola morale del romanzo», facendo precedere e seguire a questa affermazione dei presupposti altrettanto impegnativi. Mentre la filosofia, da Descartes in poi, (unitamente al progresso scientifico e alle discipline specializzate) allontanava dal proprio orizzonte il mondo concreto della vita, die Lebenswelt, secondo Husserl, o affondando nell’“oblio dell’essere” secondo Heidegger, era il cammino del romanzo a delineare una storia parallela dei Tempi Moderni. «Intendo dire: se è vero che la filosofia e le scienze hanno dimenticato l’essere dell’uomo, è tanto più evidente che con Cervantes ha preso forma una grande arte europea che altro non è se non l’esplorazione di questo essere dimenticato».

4. Ora le quattro radici di Gramigna ci fanno intuire la portata di questa “storia parallela” nella sua molteplicità (di luoghi, di nomi, di tempi e di avventure), ma allineandoli su una superficie comune, ci impediscono di distinguere la differenza conoscitiva, la differenza ontologica, tra le diverse storie, e quindi affermando l’indifferenza sostanziale tra Tre moschettieri e Gita al faro, riducono a semplice fiction quella storia del romanzo europeo che, secondo Kundera, «è la successione di scoperte» di porzioni e forme di esistenza mai prima individuate e nominate.

5. In un secondo capitolo, dedicato a “Le istituzioni del romanzo”, Gramigna ci offre finissime osservazioni sul rapporto tra la “domanda di mercato” e l’esserci del romanzo”. Il desiderio del romanzo nascerebbe da un «tratto dell’intelletto umano, inventivo amante delle novità e delle finzioni», nel quale affonderebbero le radici della novità e della finzione, ragione per cui non essendo altro che «desiderio di una finzione specifica che si sta costruendo in quel momento e che naturalmente fugge via verso un’altra finzione tipica di là da venire, non appena quella sia completata nella scrittura come nella lettura, non farebbe che dar luogo a sempre nuove e menzognere finzioni, senza che nessuna di queste possa costituire una scoperta nel senso indicato da Kundera». Il romanzo che non scopre una porzione di esistenza fino ad allora ignota è immorale” (L’arte del romanzo, p. 18). Ora, secondo Gramigna, questo desiderio copre tutta l’infinita gamma del romanzesco, «un gigantesco magazzino» in cui si trova di tutto, alla cui origine, secondo un bel libro, Roman des origines et origine du roman di Marthe Robert, non ci sarebbe che «un pezzo di letteratura silenziosa, un testo non scritto identificato con ciò che Freud ha descritto sotto l’etichetta di ‘romanzo familiare del nevrotico’». E sotto questa etichetta potrebbero allinearsi, con tutte le loro implicazioni di desiderio, immaginazione avventurosa e sessualità, romanzi che vanno dal Guerrin Meschino al Tom Jones in modo aperto, fino a Kafka e magari al Giovane Holden di Salinger, per non parlare del Robinson Crusoe che «rivela in filigrana la struttura del romanzo familiare».

6. Quale differenza intercorre tra un processo di conoscenza e un processo di verità? Perché alcuni romanzi, secondo Kundera, ci fanno conoscere qualcosa di nuovo, mentre altri (la maggioranza di quelli che vengono scritti, o manipolati dagli editor delle grandi case editrici) non fanno altro che assecondare evasioni in peripezie prive di senso e sogni ad occhi aperti?

7. E anche queste ultime sono realizzazioni del desiderio. E anche Finnegans Wake è letto da Gramigna in questa chiave freudiana. Una grande summa linguistica, «una corposcrittura, una fisiologia smisurata che arriva a metaforizzare i propri processi», e che trova, nel rapporto di Joyce con Lucy, la figlia schizofrenica, il suo inveramento. Intuizioni che da Jung a Lacan inseguono l’opera di Joyce, fino a fare di Lucia «il sintomo della polyphonie de la parole di Finnegans Wake», o il frutto di una «allucinazione telepatica» tra padre e figlia, in «una specie di identità o partecipazioni mistiche». E se c’è una ragione, come osserva Gramigna, «perché un qualunque discorso sul romanzo futuro debba cominciare (ri-cominciare) con il Finnegans» è appunto perché «non promette al lettore nessuna garanzia di verità», non esibendo alcun significato declinabile nella logica convenzionale del principio di realtà. E tutto ciò è molto fine, molto bello, molto lacaniano, ma ci lascia, naufraghi, nel bel mezzo di una letteratura che, nel compiacimento di sé, trova nell’in-leggibile la possibilità di una ripresa infinita della lettura e della moltiplicazione inesauribile del senso. Ma che cosa altro è se non ancora una volta l’illusione romantica portata a compimento di una totale trasfigurazione del mondo, e cioè una reazione contro il calcolo e la spiegazione correnti, attraverso un gioco linguistico che si sforza di ergersi al di sopra di esso o di liquefarlo o di travolgerlo lasciandolo intoccato, e forse neppure compreso, nella sua essenza ontologica?

8. Volutamente, non una visione filosofica, ma quella di un romanziere non digiuno di filosofia, Kundera, ho contrapposto alla visione del romanzo di Gramigna come oggetto testuale, da penetrare, lacanianamente, nel senso d’inconscio strutturato nel linguaggio e disseminato in luoghi, nomi, tempi e avventure.Il mostro che si chiama storia, l’inferno che si chiama vita, viene lasciato al margine come ininfluente rispetto al desiderio in cui trova compimento il freudiano romanzo familiare. Ma non voglio rifare qui la storia della «denigrata eredità di Cervantes», da Don Chisciotte all’agrimensore K., da Flaubert a Joyce, da Balzac a Proust e Musil, e la logica di scoperte rispetto ai diversi aspetti dell’esistenza. Mi è sufficiente additare un limite di un’interpretazione puramente letteraria e psicologica.

9. Uno dei punti chiave della critica letteraria militante è la poesia italiana del Novecento. Ed è indubbio che le considerazioni di Gramigna Sul Novecento I e II, distillino i principi più consolidati della critica novecentesca e le figure poetiche che si stagliano ormai sullo sfondo del secolo con una loro dignità canonica. «La vera grande novità della poesia del Novecento – scrive Gramigna in apertura del saggio – mi pare stia nella posizione centrale, e assillante, del problema del soggetto e dell’autoreferenzialità della scrittura». E questo, sia per le innovazioni inaugurate nella poesia francese da Baudelaire, Rimbaud (“Je est un autre”), Mallarmé, ma anche «da qualcuno che la letteratura non inscrive specificamente nei suoi annali, ma che con la sua sovversione di conoscenza ha influenzato anche il modo d’intenderla e di farla – dico Sigmund Freud». E cioè la scoperta dell’inconscio, con tutto quel che ne consegue. Che ci siano stati, alle spalle del Novecento, uno Schopenhauer, un Nietzsche, un Bergson, e che anche un Gozzano (come già D’Annunzio), meditasse su Arturo e Federico, e che il mondo fosse entrato in uno dei secoli più tragici della storia, non sembra che rientrino nell’orizzonte del critico come motivi influenzanti la scrittura poetica. Resta fondante, per Gramigna «la messa in dubbio metodica dell’unità/compattezza dell’io poetico e la persuasione che l’oggetto del linguaggio sia il linguaggio stesso, cui tocca non già il rispecchiamento ma la rappresentanza del mondo». E cioè la scrittura poetica stessa diventa proposta filosofica come nell’area espressionista mitteleuropea? L’amputazione della dimensione ontologica nella quale s’inscrive la scrittura e l’autoreferenzialità nella quale si risolve, mi sembrano negare alla “rappresentanza del mondo”, di cui parla Gramigna, una portata più vasta di quella annessa allo sviluppo di un sentimento poetico.

10. In ogni caso il suo quadro della poesia del Novecento copre tutta la gamma delle figure significative, con qualche sbilanciamento, nei confronti di Mengaldo, nell’affermazione che con Dino Campana «si arriva a quello che è indiscutibilmente il maggior poeta del primo Novecento, uno dei maggiori dell’intero secolo». E giocherà qui la mia simpatia per i folli, ma concordo perfettamente con questa valutazione, e anche se rifiuto per principio l’organizzazione dei poeti e della poesia secondo una scala gerarchica, faccio volentieri un’eccezione per Dino Campana. Ma che, al di là «della leggenda del folle, del ‘maledetto’ che ha oscurato una parte della verità di questo poeta», anche Campana presupponga Nietzsche, un capovolgimento ontologico nella percezione del mondo (come avviene per Clemente Rebora e Camillo Sbarbaro, e di lì a qualche anno avverrà per Eugenio Montale), non ha sfiorato la critica letteraria italiana, in fondo rimasta ancorata a quella distinzione tra poeti visivi (Campana) e veggenti (Rimbaud) di origine, se non sbaglio, continiana, che ne ha limitato drasticamente la comprensione e il giudizio. E bene ha fatto Gramigna a non farsi irretire in questo cancro critico e a proclamare decisamente la grandezza di Campana.

11. Eppure il secolo non ha lesinato altre voci poetiche. Da Govoni (da Le fiale, 1903, govoniane si fa infatti incominciare la poesia del secolo) a Gozzano, da Palazzeschi ad Onofri, da Soffici a Cardarelli, da Saba a Montale, da Jahier a Moretti, e poi, nel prosieguo del secolo, Ungaretti, Luzi, Caproni, Sereni ecc., e le riviste e la critica che ha accompagnato e, a poco a poco, delimitato un canone giunto fino a Mengaldo e oltre: tutto questo ventaglio è riassunto egregiamente da Gramigna, secondo la vulgata, e solo con una grave mancanza: quella di Carlo Michelstaedter che (insieme a Rebora e Campana) è la coscienza più profonda della crisi d’inizio secolo e del capovolgimento ontologico. Quello che ancora manca è una lettura delle scritture più estreme che ci faccia intuire la tensione tra scrittura, vita, ontologia, e come tale frattura si prolunghi fino a noi, aprendo uno squarcio di conoscenza che trascenda i testi e l’autoreferenzialità della poesia.
12. Il capitolo che “Testuale” dedica ai giudizi di Gramigna Sulla critica, non riserva infatti sorprese (dopo aver visto in atto il suo modo di far critica), né i nomi, né le fonti di metodo,o dei metodi (Ferdinand de Saussure, Gianfranco Contini, Roman Jakobson, Roland Barthes...), e, naturalmente, dietro la superficie linguistica, l’inconscio. Mi sembra che qui, Gramigna, proceda a una generale assoluzione della critica italiana, senza fare distinzioni di metodo. E quindi non citerò i nomi, per non far torto a nessuno, ma ci sono proprio tutti i possibili modelli di critica e teorie del testo, in una generale e acritica assoluzione.

13. I capitoli Nel fare scrittura,Scrittura terminabile e interminabile, Sulla semeiotica,Chi scrive e che cosa si scrive, riprendono finemente tutte le questioni relative a quella “scienza dei segni” che ha per capostipite Ferdinand de Saussure e, secondo Roman Jakobson, un’altra divinità in Charles Sanders Peirce, e le diverse linee o sviluppi o intrecci che si dipartono da queste fonti iniziali. Così Gramigna riassume le differenze metodologiche tra i due padri della semeiotica: «Dove Saussure costruisce secondo un principio binario (significante/significato, langue/parole, diacronia/sincronia, arbitrario/naturale etc.), Peirce procede privilegiatamene per triadi, a partire da quella che definisce la semeiosi: ‘Per semeiosi intendo un’azione, un’influenza che sia, o coinvolga una cooperazione tra tre soggetti, come per esempio un segno, il suo oggetto e il suo interpretante’…». Anche qui l’esplorazione di Gramigna si apre a raggiera sui nomi («da Buyssens a Morris, a Barthes, a Prieto, a Benveniste, a Lotman, a Mukarˇovsky, a Greimas, a Eco»), e su un quadro di problemi che hanno dominato il dibattito culturale tra gli anni sessanta e ottanta del secolo scorso con tante pregevoli acquisizioni nell’interpretazione dei testi poetici. È stata l’epoca, grosso modo, dello strutturalismo, che certamente ha avuto il merito di smuovere la critica letteraria dall’impressionismo del gusto e dalla sovrapposizione ideologica, con tanti lavori che sono diventati, in un certo ambito, memorabili come esercizi d’intelligenza critica. Gramigna ricorda, tra gli altri, il lavoro di D’Arco Silvio Avalle, a partire dal famoso esercizio sugli ‘Orecchini’ di Montale”, Il viaggio testuale di Maria Corti, Il testo poetico di Stefano Agosti etc., per non parlare di altre avventure più radicali come la semanalisi di Julia Kristeva e del suo La révolution du langage poétique, il culmine di certe contaminazioni tra semeiotica, marxismo e psicanalisi. Mi chiedo soltanto che cosa resti oggi di tanto plaisir du texte, per rifarci a una formula chiave dell’amatissimo Roland Barthes. Gramigna è stato tra i protagonisti di questa stagione e direi che la sua peculiarità è quella di non aver mai perso di vista Freud, il cui nome echeggia indirettamente nel saggio Scrittura terminabile e interminabile, che riprende appunto il titolo di uno degli ultimi scritti di Freud, Analisi terminabile e interminabile (1937). Le domande sollevate in questo scritto sono tra quelle che si prolungano fino a noi, nella misura in cui davanti, o dietro, o prima o dopo, poniamo alla scrittura poetica la domanda fondamentale: quella sulla verità dell’essere, nel suo porsi e nel suo sottrarsi “interminabile”. «Nello scrivere – dice Gramigna – operano due pulsioni che possono essere trascritte nella coppia filia/neikos, che Freud impresta come principi o pulsioni fondamentali della teoria di Empedocle, per trasformarli nei suoi Eros e Thanatos, proprio nelle ultime pagine dell’opera che mi ha fornito l’avvio del titolo. Se ciò che chiamo ‘necessità della scrittura’ è la sua pulsione erotica o libido, essa trova, ripeto, il suo arresto in una simmetrica pulsione di morte. Forse ogni scrittura tende, come ultimo desiderio, a tornare all’inesistenza, ad annullarsi». Detto magnificamente, solo se solleviamo questo pungolo della somma necessità dal suo fondamento biologico a una comprensione dell’essere al di là di ogni transitoria soggettività, in un orizzonte di conoscenza ontologica.

14. Date le premesse, non stupisce che la sezione dedicata a Letteratura e Psicoanalisi sia quella più aderente allo spirito critico di Gramigna, e i tre capitoli che la compongono (Les Séminaires di Jacques Lacan, Gradiva di Wilhelm Jensen D.A.F. Su de Sade) offrano una rete ammaliante d’intrecci tra letteratura e psicoanalisi. Basti qui citare, per quanto riguarda lo stile di Lacan, la sua derivazione letteraria, e precisamente la sua dipendenza da Stéphane Mallarmé. «Ho già accennato all’impiego eversivo delle preposizioni nel costruire (o ricostruire) la frase. Aggiungerei la gestione a dir poco anomala della punteggiatura, diretta, piuttosto che a effetti musicali, a seguire nella sintassi la logica del significante». E certo la complessità della scrittura lacaniana, attraverso cui si leggono nei Seminari, Shakespeare e Sofocle, ma pure “Booz endormi” di Hugo, “La lettera rubata” di Poe “ e altro ancora, fino a Joyce e Finnegans Wake, rimette in gioco i rapporti reciproci fra letteratura, critica (di un testo letterario) e processo teorico (psicoanalitico), fino a configurare un capovolgimento tra letteratura e psicanalisi. «Non è dunque la psicanalisi che si applica, come uno strumento di decifrazione, di interpretazione, a un’opera letteraria, ma è quest’ultima che si applica alla psicanalisi». Un’interazione in cui è coinvolta anche la filosofia. «È in una pagina della Dissémination che Derrida, servendosi di Platone, introduce il concetto di paternità e dunque di parricidio a proposito della scrittura. ‘L’écritude est parricide’ – come ‘je de l’autre dans l’être’, come irruzione del non essere, come altro nell’unità dell’essere». E così uno dei concetti cardini della psicoanalisi di Lacan, la forclusione del Nome-del-Padre, riguarda anche il padre della scrittura lacaniana, Stéphane Mallarmé, che non viene mai citato, se non marginalmente, negli Ecrits. Anche la lettura della Gradiva di Wilhelm Jensen e il capitolo Su de Sade, sempre all’interno dello sfondo freudiano e lacaniano, sono suggestivi esercizi d’interpretazione in cui continua a rimanere velato ciò che è più intimamente proprio nel loro essere storiche manifestazioni dell’essere e della “verità”.

15. Effetti vecchi e contemporanei. Questo è il contenuto dell’ultima sezione Antichi e nuovi sperimenti della raccolta antologica. Non è che voglia sbrigarmene con poche parole, ma è che, in queste tematiche, siamo ancora immersi, ed è bene occuparsene volta per volta. Gramigna è, in un certo senso, già storicizzato. La sua intelligenza, e i suoi limiti, sono quelli del suo tempo. Il tempo di quelli che poi sarebbero diventati spettri. Spettri di Freud, di Marx, di Lacan. Una certa insistenza sul desiderio e sul piacere della poesia, o come riferisce Gramigna parlando di La Ragione poetica, scritture e nuove scienze di Gio Ferri, del piacere della poesia quale piacere della forma o, meglio ancora «piacere di esserci», come dice Ferri, di partecipare al flusso biologico della vita. Qualcosa di simile a un fantastico turbine di membra umane. Poesia generatrice di un campo di energie (pulsionali e desideranti). Ma qui Gramigna parla di Ferri ed è con Ferri una discussione aperta. Belle sono le pagine che seguono dedicate ai Cantos di Pound, a Robbe Grillet, ad Anronio Porta etc, direi che di una critica così, in grado di cogliere le scritture fondamentali, in un mercato letterario invaso da inezie, abbiamo ancora bisogno. Per usare un’espressione di Contini, essa continua a «salarci il sangue». Le domande poi che Gramigna solleva, nell’ultimo degli scritti qui raccolti, dedicato ad “Anterem”, “Scritture di fine Novecento”, in cui la rivista ipotizzava, nei suoi testi teorici «un luogo della nascita delle parole dove ancora le cose non ci sono e le parole sono ancora un prima, un ante rispetto alla cosa», hanno trovato risposte, nello sviluppo teorico successivo e nella pratica della rivista. E «il luogo del fantasma originario dove si produce la scrittura» è stato sottratto alla vaghezza dell’immaginario e dell’inconscio e individuato nel logos, nel principio di ogni successiva determinazione.