Le Energie del Testo - Cesare Ruffato

 

Fra la ricca (per quantità e qualità) produzione di Cesare Ruffato trova un posto particolare quella monumentale ‘storia’ in volgare padovano che è “Scribendi licentia”. Opera in lingua, il che vuol dire, una volta per tutte, non vernacolare.

La straordinaria avventura della parola, in Ruffato, del segno, della traccia di un passaggio umano nell’universo, micro e macro, condiziona la nostra presenza storica e dalla nostra presenza storica è condizionato. Condizionato dalla nostra nominazione delle cose in generale, dei loro flussi e delle loro metamorfosi. Condizionante la nostra percezione di una sintesi formale che nella poesia e nell’arte e nella musica trovano un momento, solo intuibile, della grandezza del fare (poiéin) nell’essere. L’essere qui vivo, oltre l’avere della perdita quotidiana.

La lunga vicenda poetica di Ruffato, sempre conferma il suo valore resistenziale, che è poi, oggi, il valore della poesia in assoluto. Sintesi resistenziale, appunto, in quanto ineluttabilmente fisiologica e cosmologica. In una crisi che - personale ed epocale - può essere accettata e sfruttata senza vani sentimentalismi grazie alla energia esplosiva (bang) del segno poetico. Ruffato (e non è ovviamente il solo) è la prova non tanto di una crisi della poesia, ma di una poesia come crisi, vale a dire come momento alto della metamorfosi creativa, e perciò necessariamente innovativa, necessariamente critica. Necessariamente dirompente, antistorica nella vanità della storia. Per Ruffato il gran mar dell’essere, vertigine senza pace, altro non è che il divenire fluente della forma che congloba in maniera totalizzante la tragedia umana, che è poi, paradossalmente, anche il piacere umano dell’esserci. Dell’essere qui, appunto. Che, ahinoi, si risolve tuttavia pur sempre in un dominio della storia. Da Tempo senza nome (1960), a Minusgrafie (1978) via via fino alle Etica declive e Saccade, passando costantemente, senza intervalli, per la trasversale creatività sempre nascente del mostrarsi, tramite
la parola, oltre ogni contingenza,
solo e forte (“Colui che è solo” è il titolo di una poesia di Benn) in una drammatica vicenda di rigenerazione costante. “La giusta ricreazione” come intitolerà uno dei capitoli di Etica declive.

In Ruffato comunque c’è sempre, pur nel processo rigenerativo, la coscienza della propria, della nostra caducità (alla quale, almeno utopicamente, solo la parola può mettere rimedio, nella sua fluente trasfomazione). Coscienza che lo porta fino alla crudeltà autoironica: I muscoli in disuso mi screpolano. Comunque è cosciente che solo la materia vivente, impersonale nella voce del dire poetico e anche etico, può gestire la crisi attraverso i segni sensitivi e coscienti che sanno vincere la miseria temporale dell’uomo. L’ibridizzazione dei linguaggi in Ruffato fa certo la sua parte, nel senso rigenerante su descritto. Ibridizzazione come visione materialistico-metabolizzante. Neoavanguardia, (alla quale ha partecipato), linguaggio medicale (è medico), dialetto. Comunque non si tratta mai di mero citazionismo, bensì di condense di precipitati di invenzioni, alchemiche, processi verbo-cosali biologici. Comunioni segniche, avverse alle consuete, menzognere, banalità dei messaggi comunicazionali. Caratteristiche della sua poesia, quindi, sono la coesione, la comunione, la coinvolgente spazialità oltre la rovina del tempo e delle sue eternali illusioni.

Scribendi licentia è il riconoscimento intimo e insieme solenne del metro fondo del dialeto, come dice lo stesso Ruffato. Perciò, lo abbiamo visto, declive sta per discesa al fondo, alla verità inesprimibile, alla radicalizzazione resistenziale. Ruffato dice il dialetto, meglio il volgare padovano, il dialetto-lingua, esaltando la forma straniata e sonante rispetto alla fredda convenzione discorsiva della lingua storicamente istituzionalizzata. E proprio grazie al dialetto-lingua rivela costanti epifanie poetiche (esaltando il neologismo e l’ellissi) e richiama l’aprósdoketon, l’inatteso. Leggendo Scribendi licentia non si può non convincersi, ancora una volta, se ce ne fosse bisogno (ma ce n’è bisogno, perché di fraintendimenti, oggi, vive la valenza della poesia - non c’è crisi della poesia, bensì crisi disordinata nella lettura della poesia), che la parola poetica non è uno strumento di sdilinquite nostalgie e illusioni evasive e consolatorie, bensì un’arma da affilare per un duello inevitabile fra il nulla della storia e la volontà innata di vita: nel nulla prolifico della corporeità biologica e cosmologica. Il fluire genetico oltre ogni contingenza. E la coscienza della vanità anche, forse soprattutto, delle storie personali:

Che ‘na piera col nome cernita / e impisòca extramoenia i me ossi / za scarsi de megòla e porotici / che tra lor se buta ruti e balzelli / mi animulo aereo fora me ciamo / e scaltrissimo a la maniera nova / de osanare sotovose coi oci / sensa paoni cherubini e serafini / londi dal monumentale mementomo / de papiro e vanagloria aletare / grosse e conte de deliri businessi. / ‘Sto look de obito passarèla / fumeti cioche pompe funeree / boche e lagreme de condoliansa / rechie de morte e vita balansa.

Con uno dei più recenti testi in lingua italiana, dal titolo franco-romanzo, Saccade (salto, strappo, tiro delle redini per dominare la cavalcatura) prova di una matrice linguistica comune a un comune senso del dire e della
sua autonoma e metamorfica valenza, così come accade per il volgare, Ruffato ora esalta, rivela, un altro dei punti fermi della sua poetica. Il raffinato approfondimento laboratoriale in cui la ‘violenta passione’ viene distillata per mezzo di sottilissimi e complessi e fragilissimi alambicchi in un processo analitico di rara misura. Saccade, “parler par saccades”, parlare a scatti o scandendo. Scandire parola per parola, goccia distillata dopo goccia distillata (al calore, all’azione del fuoco), per ottenere una lapidarietà poetica di durevole qualità. Che dica, senza remore, senza infingimenti, ciò che va detto. Basta leggere lo straordinario ìncipit della raccolta:

Il genio brizzolato infantisce / voli e in nostalgie di memoria / si scolmala ribellione del giorno.

Forte e lapidario. E la memoria, e la nostalgia non si danno con illusoria decadenza - tipica di tanta indigente poesia giovanile sorretta malamente da troppi cattivi maestri - bensì con l’energia che si trattiene (con le redini tira te, saccades) nel riposo del guerriero. Che riposando non si libera, ma solo acquieta momentaneamente la ribellione del giorno. Poiché ribellarsi al nulla della storia significa non tanto storicizzare la parola nuova, quanto privarla di orpelli e quindi ricondurla al nulla prolifico della creatività senza finalismi.