Le Energie del Testo - Flavio Ermini
La poesia di Flavio Ermini con la sua descrizione icastica del mito,
vale a dire del mito del fare, piuttosto che il mito delle più vaghe origini, è
esemplare di quel mondo parallelo che, in andata e ritorno, si affianca, in
tutta autonomia, al processo materialistico della vita. Cito la stanza L.6 da
Karlsár del 1998 e riporto parte delle considerazioni che ebbi l’occasione
di proporre nell’antologia Verso l’inizio (Anterem edizioni, Verona 2000):
Scaturisce il cielo dalla terra e scendendo si occulta nelle impurità
minerali della foglia sul lato reciso torcendosi e di nuovo salendo d’un
soffio una scala di mirabile altezza. Su schegge divelte altro non coglie la
terra che frutti di preluce e manna dai ceppi, sebbene dall’acqua alla terra
si pieghi nel cavo la foglia. Indurisce il guscio d’unghia del fianco per via
della sua esposizione ai primi elementi dell’aria se il cielo allontanato dal
basso non divide alla radice delle labbra il canto più prossimo alla voce.
Il canto più prossimo alla voce non è la voce che dice la contingenza, bensì il suono del nulla silente. Già mi capitò di percepire la scrittura di Flavio Ermini come un susseguirsi di eventi di confine. Ora, nell’attuale contesto, posso ribadire quel passaggio dalle ragioni del nulla storico alle regioni prolifiche del nulla poetico-biologico e cosmologico. Quel confine è un limite costantemente attraversato per passare dalla narrazione (ossessiva di fatti e soprattutto di nomi in un evolversi e annullarsi circolare) alla pura spazialità poetica (altrettanto coinvolta nei sussurri di misteri ellittici, di sacralità assolute quanto individuabili da un’anagrafe ordinativa del sogno). Queste condizioni, per l’appunto, ci fanno facilmente condurre da Ermini ai territori (qui solo apparentemente indeterminati) del mito. In talune poetiche correnti la mitopoiesi, in generale, può prestarsi ad equivoci che favoriscono la debolezza decadente di più di una esperienza umana, sociale, e, per quello che più ci interessa, segnica. Le quindici stanze da Karlsár rappresentano invece una concezione forte dell’idea di mito. Potremmo parafrasare (ancora in relazione a quello scambio fra storia e poesia che può dare un minimo di plausibilità alla storia) la concezione di Georges Sorel che vedeva nel mito l’idea capace di spingere a una futura azione, piuttosto che l’idea di annullarsi nella ciclicità indigente del passato e dell’inconscio.
Il tono determinato di queste stanze, la struttura apodittica delle constatazioni,
ci riconcilia perciò con l’idea di un mito che sia presente, e,
nell’idea, capace di stimolare l’azione, l’audacia materico-metamorfica
del poiéin. Se l’azione è l’atto cosciente (pur riportato alla superficie dal
profondo, dai territori iniziali e iniziatici del limbo, per usare un termine
neuroscientifico, cioè mentale), del dire ciò che il discorso comune non sa
ricordare (confuso dalla contraddizione ciclica della parola storico-prammatica), né dire, né tanto meno capire, allora si può riaffermare che il mito
non è vana ricerca di un impossibile luogo dell’origine, né favolistica e
vaga e debole disponibilità nostalgica (che nostalgia possiamo mai coltivare
nell’annullamento in sé della storia?): il mito è il motore ideo-logico (e
fisio-logico, e bio-logico) di ciò che si va costantemente, ineluttabilmente
ricreando nella nullità storica del gesto poetico. Mito del presente, se non
mito del perpetuo divenire. L’origine mitica in questi testi si trova nella
loro presenza oggettuale, cosale, materialistica. Spaziale vs/ temporale. La
nascita della poesia è nella regione presente in cui la poesia perpetuamente,
senza tempo né storia, si fa. Una poesia tutta terrigna se scaturisce il cielo
dalla terra. Per riversarsi in acque prolifiche sulla terra medesima. Che dà
e riceve. Che indurisce il guscio d’unghia e si rafforza - come animale possessivo
e predatore - alla secchezza dell’aria. A questa dialettica, eternale
nella creatività, mitica non per inganno sacrale, o superstizione sacrilega,
bensì per oggettività biologica e cosmologica - il cielo (idea sorta dalla terra)
offre quella comunione panica che coinvolge l’uomo alla radice delle
labbra, in quel canto più prossimo alla voce. Terra e cielo, fuor da ogni
evento contingente, danno voce all’uomo. E l’uomo li nomina e li afferma
elevando la voce al canto. Ora, per allora e per sempre.