Le Energie del Testo - Gilberto Finzi

 

Julian Jaynes, psicologo e neurofisiologo a Princeton, nel suo famoso saggio Il crollo della mente bicamerale e l’origine della coscienza (1976, tr.it. Adelphi 1984), su oggettivi rilievi neurologici, sostiene che la poesia e la musica sono «il segno degli Dei», di cui l’uomo, il poeta, si fa interprete, seppur vilissimo (secondo il parere delle Muse), quando sia posseduto dal comando divino. In termini meno mitici e più scientifici la mente articolerebbe la sua azione su due livelli: quello appunto della visione in cui nasce la poesia come divina follia (katokoché platonica), nell’emisfero destro, nell’area di Wernicke, alimentata dalla sconosciuta, inconscia, riserva limbica; e quello della vigile coscienza, gestita nell’emisfero sinistro dalle capacità ragionevoli della corteccia. La coscienza, nell’uomo razionale e storico, esercita la sua violenza e lo allontana dalla ‘possessione delle Muse’. Cosicché le Muse lo abbandonano, e la poesia si fa in effetti solo nostalgia di un rapporto ormai impossibile, di un mondo ‘visionario’ perduto. Crolla la mente bicamerale. Meglio, crolla la camera delle Muse e noi ci trasferiamo armi e bagagli nella camera della coscienza, in cui dominano il tempo, la storia, la necessità e, spesso, la menzogna. E la comunicazione: mentre nella camera delle Muse, puro spazio senza tempo, bastavano, per capirci, i rapporti di comunione visionaria.

Gilberto Finzi mostra d’essere uno di quei pochi poeti del secondo Novecento che hanno opposto qualche resistenza, sovente rifiutandosi di traslocare - dopo magari aver temporaneamente ceduto (lo richiedeva la storia) a tante più o meno allettanti e astute proposte della coscienza prammatica. Egli si è sovente abbarbicato, con cocciuta innocenza, al rizoma articolato e ‘figurativamente’ ritmico, resistendo appunto alle incombenze della prassi discorsiva tramite l’insistenza sulle misure musicali (e oracolari, in senso greco) delle strutture formali (metriche, ovviamente). Già molti anni fa (era il 1985) sottolineai il valore di questa resistenza fra Morire di pace e Tre formule di desiderio in un saggio non a caso intitolato Lo spazio ritrovato. Ritrovato a dispetto dell’urgenza della storia, collettiva e personale, e di una particolare ossessione del tempo che condizionava in Finzi (non senza fascinose proposte, per altro) un desiderio di liberazione. Appagato proprio sul finale delle Tre formule quando la presenza del mito (si badi bene, non l’indigente nostalgia del mito, che oggi, in era New Age, diociliberi, va tanto di moda) trovava il suo spaziale sistema d’assestamento. In cui le cose valevano per ciò che erano in sé: evolutive ma, in sé, archetipiche, oltre ogni storia, o storia delle storie. Allora si osservava: «... sembra, sempre più, che la poesia di Finzi abbia deciso di scambiare i ruoli. Divenendo isola e centro. Il luogo che resiste allo sguardo di sghembo [era un’espressione
di Gramigna] della storia e del tempo». Ecco perché, ritrovando in Soldatino d’aria (Marsilio ed., Venezia 2000) le estreme conseguenze di quella tendenza si è dovuto, per farsi capire, tirare in ballo Jaynes.

Si potrebbero completare alcune definizioni (ah! la manìa delle etichette! l’ottundo delle etichette, stigmatizza Finzi in un verso di Euridice) attribuendo soprattutto a Euridice e altri inferni e a No, due luoghi di questa «decisiva raccolta» (per dirla con il prefatore Giovanni Raboni), la valenza (sorprendente per molti aspetti) di visione oracolare (come ho già detto) e, per l’ultima parte, di negazione apocalittica (non per nulla nella raccolta è trascritta in esergo una citazione dall’Anticristo di Nietzsche).

Molti altri eventi (anche non sempre inediti) accadono fra questi due capitoli, e molte altre suggestioni andrebbero citate: ma se si dovesse indicare una globale chiave di lettura e di partecipazione, non si potrebbe fare a meno di invitare il lettore al pellegrinaggio verso il Sito dell’Oracolo. Oracolare è, senza preamboli l’incipit: uno di noi voi nessuno / apriste apra apriremo una scena o una porta / l’unica che dà sul dopo... Oracolare (a indovinello plurisensico) è l’affermazione il vero e il bello, due probabili interi, / si dividono nel mezzo anzi un poco / prima e un poco dopo, e chi veglia / il proprio esilio lo capisce e lo sente / chi veglia il proprio esilio / è lontano da chi non si sopporta in casa: / profondissima quiete, ma ci sono, nel presente, / molte lame, e di corno e di dente ferite // o illusione, nel presente... E profetico è il presagio: verrà chi verrà - il verso non può più dire / quello che non ti ha detto prima / tanto prima - tempo / avrai per niente la tua lontanìa il non il sì / che contrastano battono l’insensata / cagione di tutta la stolta di tutta la rotta / labilità / nel farsi e disfarsi -...

E visionari ancora Il monologo di Euridice, La chimera, Le ombre come fosfeni: di Pèrsefone, che è velo e mistero, / “perché, o regina dell’Ade, / a che vale, che cosa cale”...; l’alba si fa nera, / io sono entrato da solo nel
mese e nell’anno / della triforme figura... ; ... profondo suo Èrebo, sede / da cui non si fugge, in cui non c’è / vero colore / erano lievi, tenui, impalpabili le ombre, / se le abbracciavi, un loro niente, / un fumo tenevi - // e una di
loro “Quella - disse - / sono io che ti amavo
”. Ambigua è la constatazione: ... così, sempre su sabbia scriveremo / il male che non abbiamo fatto...

Le rime, le false rime, le allitterazioni, le invocazioni, le immagini sognanti e sognate, le verità ossessive e contraddittorie... tutto si gioca sulla possessione talvolta autistica, com’è d’uso, appunto, fra gli aruspici e gli aedi invasati: uno di noi voi nessuno...; sbràncola... e branca; raccapriccia, e... sgriccia...; da scalata e da sciata...; schiavo e chiave...; regina dell’Ade... a che vale, che cosa cale...; pallente... pungente... regnante... cedente; i malpassati, i malenati / e i malemorti...; o illusione...; o vivere di vita... in cui, alla resa sonora, vocale, si può dare il bivalente significato di alterità e insieme di vocativo. E Dante che è pur nominato, e Virgilio, ispirano la silente, purgatoriale, malinconica dolcezza dell’Ade, chiudendo il canto in un sussurro velato (impalpabili ombre... un fumo tenevi): “Quella - disse - / sono io che ti amavo”.

No è una negazione prepotente e distruttiva (fino all’autodistruzione): vado dove le nubi / riposano dall’azzurro troppo duro e vivo, / dove non c’è sereno ma la pioggia tiene / alto il lume delle vendette, dove / la terra è più bieca, dura, inamichevole / per troppo odio: di me, del mio / essere foglia e non tronco, del dentro / stomachevole, marcio // di storia e di poesia.

La memoria giovannea impregna le fantasmagoriche immagini della vergogna e dell’orrore e dell’impotenza: L’angelo gridò con voce potente: ‘È caduta! / La grande Babilonia è caduta! / È divenuta dimora di demoni, / rifugio di tutti gli spiriti immondi, / rifugio di ogni uccello impuro e / ripugnante. / Tutte le nazioni hanno bevuto il vino della sua sfrenata prostituzione, / i re della terra si sono prostituiti con lei, / e i mercanti
si sono arricchiti della sua ricchezza favolosa.
Quello che resta, è detto in “Una sola notte lunga anni”, altro non è che un mondo così, di orrore quotidiano, / di miseria ricca e felice, di pazza / moltitudine, / di cupa ignavia... //... il dopo non esiste, // è un persempre... Il discorso ormai si fa esplicito, la condanna imprescindibile, sebbene l’aura visionaria si ripresenti nella pura poeticità di “Saluto” e di “Finale”: là anche io / con ferme ragioni in luce in ombra / con le briciole delle parole dalla tavola cadute / della mia sola mente / senza lettori, senza eventi, senza / più favole, più niente // Vale!...- ... lurido grano di vita sulla grande sabbia / cava fuori due gocce di senso, spara / un pensiero che non sia male o pena / metti il tuo dono su un tavolo inesistente / e guida il tutto, con gioia maledetta, / fuori del mondo.

Ciò potrebbe far credere infine che tutto è perduto, in una scrittura conclusiva, ridotta a un mucchio di ceneri (si rilegga il Gramigna più sopra e più volte citato, e si riprenda anche il problema dell’entropia in Cacciatore), lì lì per spargersi al vento. Tuttavia il meschino soggetto, l’io minuscolo che certa facile lagnanza venduta per poesia credeva di far risorgere, in realtà si mostra ancora come Soggetto nell’Essere e nel Tutto, e in essi si annulla trionfante. La negazione del Nulla. Le maiuscole sono d’obbligo, anche se non tira certo in questo poema aria di palingenesi. Ma il trionfo della Parola (ancora un’altra maiuscola) è inevitabile, una volta di più, seppure in un poco attraente monosillabo: No. No o , sta di fatto che la poesia si dà comunque e ovunque. E i “Colori” (capitolo intermedio di questo libro) continuano a darne prova e garanzia, non tutti nei loro scambi confusivi, ma qualcuno sì (c’è dell’oro), e forse basta: “Grigio e oro (l’alba)”. ... se amari, severi nonostante / il grigio pelo, l’ansia e l’ego, / nonostante l’ira dei tempi / così poco saggi // la memoria scalcia e si batte, ma / “non è questo il reale” // tra poco l’alba dell’ultima occasione / ai piedi del mondo / illumina il suo doppio e lo abbandona: / il sole, sul suo carro d’oro. Forse, in questo scenario, si può leggere anche una sintesi rinnovata fra un simbolismo non decadente, e un abbagliante ma cosciente spettacolo barocco. Modi non delle mode, bensì moti dell’animo, dai quali, qui, sono cancellate le dismisure stanche e le banalità figurali di una storia anche estetica in sé ormai superata - come sempre si supera la storia.