Le Energie del Testo - Marosia Castaldi

 

Di Marosia Castaldi si può rileggere una prova a suo tempo rivelatrice (più avanti la sua scrittura troverà altre importanti affermazioni): Ritratto di Dora (ed. ‘Loggia de’Lanzi’, Firenze, 1994).

Dora è scampata, dentro, in cuor suo, alla città: ... il groviglio non finisce mai come se non ci fosse mai scampo alla città. E il groviglio e il deserto sono entrambi vuoti lontani silenti nebbiosi. Ma infine la casa di Dora, com’è divenuta scrittura, testo, si è fatta un palazzo al bosco (è il titolo della collana in cui è pubblicato questo romanzo!). Sul limitare, tra memoria di una città ‘aggrovigliata e deserta’ e spazio di un bosco d’incantamenti in cui i miti con-fusi della memoria genetica si fanno rifugio di dolci abbandoni alimentati, paradossalmente, dai tragici, indefinibili turbamenti. Se si danno altre sbirciatine tra le pagine sventagliando velocemente con il pollice (è una scrittura che si presta, nella ossessiva iterazione, alla lettura non storico-temporale), come si faceva per far correre cineticamente le figure di quei vecchi blocchetti che illustravano i minimi scarti di posizione di certi omini o di certi animali, ideogrammi disegnati (grammati) secondo le teorie locomotorie e protofuturiste di Muybridge o di Richer. Ma, a ben pensarci, l’effetto era esattamente opposto a quello cinematografico. Nel cinema i fotogrammi si susseguono in scansioni variabilissime che prendono vita unitaria in un racconto. In quei libretti le poche posizioni diversificate in minimi scarti - un uomo, un cavallo in atteggiamento di corsa - suggerivano, anche statiche, l’idea del movimento, e proprio facendole scorrere sempre, ripetutamente, nella medesima breve sequenza, collocavano invece l’iterazione in una delimitata, circolare spazialità. Il cavallo del cinema è nella storia e corre da un presente a un futuro, venendo da un passato. Il cavallo di Richer corre, fermo entro il proprio spazio. C’è da credere che Dora viva la propria cinesi mentale e oggettuale secondo questa conturbante iter-attività.

Quando [Dora ed io] conversiamo è come se un immenso vuoto si facesse intorno e dentro di noi e le parole ruotassero e volassero privandosi a poco a poco della sostanza concreta di ciò che dovrebbero connotare e alla fine si equivalgono e io potrei assumere il suo ruolo e lei il mio. Tuttavia queste parole ci servono, come il battito del cuore il rumore incessante del corpo e della vita. Così ce le diciamo anche se alle volte ci sembrano insensate. Ma è forse più sensato il battito del cuore o il fluire incessante della vita?

Cesare Segre nella prefazione osserva: «Le tre parti, di cui si compone il libro, assomigliano a un sinottico, a un testo o a un quadro cioè, le cui parti vanno colte contemporaneamente nello spazio, più che scorse in successione di tempo». Al primo piano è la Dora di Dora: È Dora che vuole così, perché sebbene sia indolente, è inquieta e vuole lasciarsi uno spiraglio per la fuga. Io le dico: Dora non sei abbastanza tranquilla con me? lei dice: no, non abbastanza. Al secondo piano è il corpo morente della memoria che attende d’essere inghiottito dalla materica spazialità della terra, del cosmo e della sua metamorfica biologia: ha ormai il colore della terra. È un’escrescenza del suolo sulla quale non è ancora cresciuta l’erba. È lei la donna che fugge in primo piano, mentre Grendel e Beowulf si scontrano sullo sfondo. È il suo luogo, dentro la cornice, quello del sospetto, perché è testimone di una guerra a cui non riesce a partecipare, ma in quanto testimone è complice, e quindi colpevole, e quindi è un assassino, e, costretto a fuggire, è una vittima. Un assassino indiretto di morti indirette in teatri imperfetti e quasi vuoti, dentro quadri che tendono al bianco e io che scrivo la sua storia potrei solo dire: Dora entrò e vide Dora morta e scoprì che Dora era l’assassino, oppure: io entrai, mi vidi morta e scoprii che io ero stata l’assassino. Al terzo piano è la lotta tra Grendel e Beowulf . La lotta di San Giorgio con il Drago (del Tintoretto, che illustra fra l’altro la prima di copertina del libro). Una lotta per una libertà impossibile e non necessaria alla quale, naturalmente e giustamente, Dora in quanto Dora sfugge (non definitivamente, se non ‘assassinandosi’). Perché se non c’è storia, se la storia non è altro che la storia della storia allora ogni testimonianza non è altro che la misura presente di sé in una vita talmente ipotetica da essere astratta irreale lontana... Avrebbe voluto essere come Schliemann e, come lui, trarre dalla contemplazione delle stampe di casa che narravano la storia dell’antica Troia, lo spunto al formarsi del suo destino individuale. Ma in casa sua non c’erano storie e nemmeno libri....

Ma quasi tutti i quadri del Tintoretto (anche il San Giorgio) hanno un quarto piano, che nella copertina di Dora il grafico ha proditoriamente eliminato. Un tradimento oppure una prova inconscia, oppure un tranello che anticipa l’enigma della (non)storia di Dora dopo la storia dei tre stadi? L’enigma del quarto piano, invisibile per chi non sappia vederlo, o non ricordi che il Tintoretto lo aveva previsto? Al quarto piano, Tintoretto, pittore dell’ombrosa contrastata interpretazione della realtà, sovente del quotidiano, inopinatamente (per chi lo osservi la prima volta) colloca, in lontananza (una lontananza non razionalmente prospettica), la spazialità fantasmatica. Paesaggi immaginari, onirici, folle riguardanti: come qui, città indefinibili. Ma grande ne è il respiro - arioso e luminescente che ora sta calando dorandosi, ingiallendosi come la ‘falsa’ riproduzione della copertina di Dora. E - ciò è straordinario - quei mondi lontani e fantastici, che assorbono e insieme estendono nella loro ampiezza luminosa tutti gli altri piani della scena, sono trattati, con gesto pittorico tanto informale, quanto fortemente materico. E tendono al bianco, al gessato: ...dentro quadri che tendono al bianco... È il trionfo della gestualità e della materia primigenia. La materia di quella che chiamiamo l’anima: come sostanza tangibile della vita. Ma alla vista (corta) la sostanza tangibile della vita è sempre non tangibilmente, non ghestalticamente ponderabile e visibile. Mentre della materia è il nocciolo duro, appunto: la forma formantesi in ogni forma.

In Dora, quindi, c’è un quarto piano, che è (può sembrare banale tanto l’espressione è usurata e poco ‘probabile’) una quarta dimensione. Nulla di spiritualisticamente trascendente, tutto ‘materialisticamente’ plausibile, se non probabile. Certo, può essere (come in effetti è, anche) quella ‘contemporaneità delle (non)storie nello spazio’. Ma questa spiegazione è troppo semplice. È necessario sforzarsi di guardare dietro lo spazio. Com’è possibile se lo spazio è la totalità? Dora è nella totalità dello spazio, oltre la storia senza storia, ma il suo doppio è altrove. Pur sempre nella materia della scrittura. Anzi proprio e solo nella materia della scrittura. Adriano Spatola diceva di un iperspazio e certe teorie cosmologiche del nostro secolo sono alla ricerca di iperspazi energetici, ancorché non visibili. Ma plausibili, secondo l’asserzione binaria del parallelismo (materia e anitimateria, il paese di Alice). E si veda il capitolo 1 di questa proposta critica.

L’ idea che soprattutto affascina, anche con riferimento alla trattazione più sopra esposta in relazione alla quarta dimensione, è quella del viaggio di piano in piano, in regresso infinito, che tra l’altro va d’accordo appunto con l’ipotesi di Prigogine secondo la quale la linea del tempo, per convenzione genetica diretta dal presente al futuro, può benissimo considerarsi rivolta dal presente al passato. Ma chi può giurare, sentiti i matematici, che ci sia una sola linea del tempo e perciò un solo spazio? Fuor di matematica, la poesia (e l’arte, e certa narrazione e il cinema), e Dora ci rivelano momenti in cui non ci basta assolutamente il calcolo a ritroso per capire, o meglio per sentire: Un giorno ha telefonato in una casa in cui ha abitato e che sapeva essere vuota in quel momento. Ha lasciato squillare a lungo il telefono ma la casa non rispondeva. Allora ha sentito come una lacerazione e quasi un dolore fisico e si è vista girare per le stanze in cui si sentiva lo squillo del telefono, come se potesse contemporaneamente fare e ricevere la telefonata, Ma la casa è rimasta vuota…

…Dora... Entra esce e va e dice e parla e ascolta e torna ma non sa perché si esce prima di entrare o si entra prima di uscire, perché il tempo è sempre irrimediabilmente corto e questo Dora lo sa da quando è nata e sa che le cose sono contigue e complementari come ogni medaglia con il suo doppio... Io sono proprio io sono qui e non sono altrove e sono io e tu sei tu e sei qui e non sei altrove e sei tu ed egli è egli è proprio egli ed è qui e non è altrove ed è egli ed io sono io sono proprio io e sono qui e non sono altrove e sono io... Ma quel ‘qui’ non è proprio l’altrove? Così, sospesi come acrobati su un filo sottile assai lontano dalla terra, stiamo su di esso come sul nostro presente e il passato e il futuro non ci stanno più dietro e davanti ma a fianco e di lato, come le lande sconfinate di terra a destra e a sinistra del filo, nelle quali siamo inabili a compiere un solo passo, perché ogni passo che facciamo ci porta in giro su un’eterna zona di confine...

Può quindi finire qui la lettura di Dora? C’è qualcosa di essenziale da chiarire, ancora, che in parte si intuisce e in parte sfugge.