Le Energie del Testo - Roberto Sanesi

 

Il discorso può valere anche per una certa critica. Si cita La trasparenza dell’ombra (Stamperia dell’Arancio, coll.’Biblioteca dell’invenzione’, Grottammare 1995) di Roberto Sanesi.

L’esergo “Language is a perpetual Orphic song”, secondo il detto di Shelley, riporta a un saggio di Charles Segal, Orfeo. Il mito del poeta. Vi si discute della duplice natura di Orfeo, del suo mito da Virgilio a Rilke, tra poetica della trascendenza (e della sublimazione) e poetica del totale coinvolgimento della parola nel flusso vitale (biologico). Forse fa al nostro caso la seconda figura di Orfeo: per una poesia oggettuale che risponda strettamente, in comunione e non per analogia, metafora e simbologia, alla proposizione eternale, non utilitaristica, genetica e biologica della esistenza e della sua autonomia fluente. Una poesia, un segno poetico come la vita - in quanto vita - autosufficiente, finalizzato esclusivamente alla propria sopravvivenza, alla propria astanza. Tuttavia, ne La trasparenza dell’ombra, pare che il dualismo descritto da Segal (sebbene lui stesso non sia così radicale nel confronto) possa considerarsi, probabilmente, solo fittizio, in quanto legato a contingenze storico-idealistiche. Mentre oggi, forse, dopo l’approfondimento e le ‘rischiose’ esperienze poetiche e critiche (e, se vogliamo, anche filosofico-scientifiche) dell’ultimo secolo, ci si può affacciare - alla fine di tanti proficui disordini - a una ipotesi, oltre la stessa poesia, in un certo modo unitaria. Olistica, se vogliamo, con tutte le prudenze che un tale posizione deve richiedere.

Può sembrare paradossale una simile aspirazione, in tanta quotidiana confusione di fine e inizio millennio. Ma dal punto di vista teoretico si possono cogliere alcuni segnali stimolanti. Quale per esempio il dialogo neo-umanistico (per la verità ancora assai titubante) tra nuove scienze, arte, musica, scrittura. E La trasparenza dell’ombra, così ossimorica fin dal titolo di questi segnali fa parte.

Tra i primi versetti della Genesi intriga (anche con riferimento alle ‘recenti’, ma ormai divulgatissime fino alla stucchevolezza, ipotesi scientifiche fisico-cosmologiche del genere buchi neri e bianchi, linea del tempo, esplosione, implosione, ecc.) il passo: «Dio disse: / “Vi sia la luce!” / E apparve la luce. / Dio vide che la luce era bella / e separò la luce dalle tenebre». Anche a parere di taluni esperti, sembra che ogni possibile traduzione debba proprio avere questo preciso senso. Quindi le tenebre e la luce, fino a un certo tempo, convivevano in un’unica realtà. Sembrerà impossibile a quei prammatici (stragrande maggioranza) che, fra l’altro, non abbiano nemmeno letto seriamente, per esempio, i saggi di Sanesi (che di questo libro fan parte) La trasparenza dell’ombra e, soprattutto, Interno a Petworth.

Un altro problema antico, di cui appunto parlano a lungo, sapientemente e innovativamente, Sanesi e Segal, è quello relativo alla trascendenza e alla sublimazione. Ma anche Shelley e Turner non erano poi così naïves, in merito, come alcune illuminanti (e ‘ombrose’!) rivelazioni confermano. Comunque sta di fatto che oggi (sottolineamo oggi) noi siamo posteri di Husserl, per esempio, e Husserl quando ci invita ad affidarci alla trascendenza lo fa dal punto di vista fenomenologico. Perciò, per trascendenza, si dovrebbe intendere quello che etimologicamente significa - ciò che oltrepassa la particolarità (dopo averla ricercata e sensitivamente colta) per porsi (salire) a una visione integrata e complessiva dei fenomeni. Niente di più, e niente di meno. In quanto a salire, seppure obliquamente, aiuta anche la sublimazione. Ma se si rimane sempre in ambito fenomenologico (Sanesi, con e per Hopkins, dice di patterns, di strutture di correlazione in atto e di eventi) si può anche osare l’analogia ‘farmaceutica’: sublimazione, trasformazione diretta di una sostanza dallo stato solido a quello di vapore e viceversa, senza passare attraverso lo stato liquido (vengono in mente i ‘gassosi’ taccuini di Duchamp!). Va evidenziato viceversa per l’ovvio motivo che Sartre, tra gli altri, in Questioni di metodo appoggiava il metodo, appunto, che dal particolare conduce all’assoluto, purché l’assoluto venga immantinente verificato sulla realtà fenomenica del particolare, cioè dell’evento.

Questo libro ha questo fascino: di ripercorrere (con profonda sapienza e finezza scritturale) l’avventura idealistica, romantica e post-romantica, fino ai nostri giorni (quelli degli amici di Sanesi, Eliot e Sutherland), rivelando tra le pieghe degli ‘antichi’ segni i prodromi di una rinnovata visione delle cose, e della poesia come cosa. E della cosa non positivisticamente ponderabile e tangibile, ma, in armonia con la nuova fisica, come fonte di energia. Quella rinnovata visione che fa poi la poesia e la ‘poesia visiva’ di Roberto Sanesi.

Tre annotazioni su Shelley, il primo capitolo del saggio, sembra rivolgersi ad alcuni aspetti marginali della produzione del poeta, e tocca poi, invece, straordinariamente alcuni motivi chiave della sua poesia, della poesia del suo tempo e, quel che più conta, della poesia tout-court. Così, quando si accenna «a un desiderio generico di unione mistica, di sprofondamento nelle cose piuttosto che di analisi», oggi si potrebbe anche pensare a quella comunione energetica, panica e ‘materialistica’, (con tutta prudenza nel virgolettare il termine), secondo la quale si dovrebbe intendere mistico secondo la sua etimologia più stretta e niente affatto spiritualistica: cioè come luogo dello sconosciuto, delle energie sotterranee, nascoste ma non confuse e pur vitali e generatrici e metamorfiche, secondo i più concreti princìpi biologici. Secondo la cui prassi lo sconosciuto, il misterioso, un giorno o l’altro non lo saranno più, per aprire il cammino alle altre e altre misteriose opportunità della vita.

Ed è fondamentale che il poeta (Shelley in particolare, ma soprattutto il poeta in generale) «si sforzi di sfuggire al procedimento mimetico», «agendo fra l’altro sull’immagine verbale forse più il tono, la riverberazione fonica, una vibrazione che rifletta il moto dell’anima [cioè della circolazione sanguigna, del battito cardiaco, della sensitività nervosa] senza ricorsi alla descrizione». Quindi niente mimesi, o quasi. Ecco che l’insostanzialità di cui dice William Hazlitt, opportunamente citato, può forse considerarsi... in sostanza, il momento più alto, energetico e autonomo di una oggettualità che non ha bisogno di descrivere le cose, poiché è cosa essa stessa. Che il soggettivo, come osserva Sanesi, diventi il solo oggetto della poesia, fa della poesia il nocciolo duro della vita, che, per ciascuno di noi, è sempre e solamente soggettiva. Tuttavia (o di conseguenza?), nella vita espressa dal soggetto, il soggetto divenendo cosa vitale e realizzando per l’Altro una
fonte energetica, in essa infine si annulla. Il soggetto fa la cosa e, soffiando in essa se stesso, diventa ‘la cosa’ medesima.

In questo clima lo sviluppo delle forme, originali e non analogiche, si assesta in una forma sospesa. Insieme attesa e inattesa (aprosdóketon). E (quasi), diceva Cecchi, dall’autore citato: «...pensieri inconsci, volontà erranti: non atti [e qui si potrebbe discuterne...], ma attese, aspettazioni di germinazioni e metamorfosi e crescite...Le creature...si manifestano per irradiazioni di raggi...». Si vede come, anche inconsciamente, Cecchi dimostrasse di risentire della stessa nuova Weltanschauung scientifica. Forma sospesa indubbiamente come forma in sublimazione (per stare all’anologia chimico-farmaceutica), perché può essere vero che il sublime non dovrebbe essere della cosa positivista o ghestaltica, ma, in qualsiasi senso, può esserlo della cosa come fonte energetica. Che indubbiamente, anche nel significato più ‘materialistico’ e meno kantiano , «provoca con la sua presenza una rappresentazione dell’illimitatezza». Anzi, non è nemmeno una rappresentazione, è l’illimitatezza della infinita, ma non indefinita, metamorfosi della vita. Che Shelley «denunci nell’Inno una assenza» è naturale, una volta che ha ‘voluto’ o ‘tentato’ di rinunciare al procedimento mimetico. E che possa nascerne anche inquietudine, dolore, angoscia, secondo «uno dei tratti più tipici...della poesia e dell’arte dal Simbolismo ad oggi», non c’è dubbio: poiché comunque il ‘creatore’ è solo. E ciò vale comunque per il poeta. Lo diceva Benn: colui che è solo.

Ora si può credere che l’annullamento delle forme possa riferirsi alle forme ‘esteriori’, alle forme che apparentemente stanno al di fuori del momento creativo e totalmente innovativo. Momentaneamente al di fuori, perché, prima e dopo, devono per loro destino metamorfico rivolgersi con la forma nuova al generale processo di comunione e trasformazione. Così un quadro del più ‘luminescente’ Turner appare (e così il più ‘informale’ dei quadri del 900) come forma assolutamente oggettivabile, materica e tras-for-matrice. Come oggetto tra i più concreti. Poiché dovrebbe finalmente rovesciarsi l’obsoleto preconcetto definitorio: cosa c’è di più astratto della rappresentazione di un oggetto tridimensionale su una superficie bidimensionale? E cosa c’è di più concreto e materico di una forma originale e autonoma che si adegui ai mezzi e con gli stessi si fondi, trasformandoli? In queste considerazioni può innestarsi una sola accezione di mimesi, quella che l’autore rivela citando Novalis: l’imitazione genetica. Ma si sottolinea anche l’incontro, in Shelley, tra misticismo e scienze, e Sanesi cita il sorprendente Blake, il visionario: «Nessun uomo dotato di senso comune può pensare che una semplice imitazione degli oggetti naturali costituisca l’arte della pittura». Di qui, da questa materica visione della poesia e dell’arte, e dall’attesa formale può farsi derivare il principio secondo il quale «la tenebra non si contrappone alla luce, ma ne è parte integrante», proprio come si ricava dai primi versetti della Genesi.

Ne consegue la più convincente contrapposizione alla profezia di Thomas Peacock (che non sarà l’ultimo, e che non per nulla era un positivista e nulla sapeva presagire del nuovo scientismo alle porte) sulla morte della poesia: «Certo, l’idea di uno stato di degradazione della poesia si potrebbe accettare benissimo, purché si abbia della poesia un concetto semplicistico di pittura parlante...».

C’è poi quella accezione del mito che è «la narrazione di una genesi, di un creazione, poiché riferisce come una cosa comincia ad essere». Perciò la poesia è cosa sempre mitica. Anche se sul concetto di mito e sui suoi travisamenti sovente strumentali si potrebbe disquisire a lungo. C’è il valore cosale del frammento, pur nel turbamento della parola che si usura e si riframmenta mentre è detta: «La realtà, la forma, la scrittura, la poesia: “non è / infranta già mentre parliamo?”».

Ma i capitoli che seguono, La trasparenza dell’ombra, Su una poesia di Samuel Palmer, e Interno a Petworth, riprendono fascinosamente (grazie ad una leggera eppur incalzante scrittura)... l’affascinante discorso della comunione fra l’ombra e la luce, «segno visibile dell’attesa nell’ora fissata con stupefazione nel punto del transito, sui due momenti inconclusi del giorno e della notte». C’è una bellissima e poco citata poesia di Zanzotto in proposito: la seconda di Due poesie successive a “Idioma”, Irrtum: «Onnipotente e pur lieve luce che in te ti celebri / e consumandoti vai celebrando le ombre-orme che generi...». È l’attesa, lo si è visto, di ciò che Sanesi definisce il sopravveniente.

Tutto questo - si presume in Petworth e più volte altrove - spazza via la semplicistica esclusiva collocazione della poesia e dell’arte dai territori della metafora e del simbolo. Sia perché metafora e simbolo non sono specifici della poesia, bensì di qualsiasi discorso. Sia perché poesia e arte come autonomi oggetti energetici sono metafora e simbolo sostanzialmente di sé (son cose che negli ultinmi decenni si son dette molte volte, ma non è male riprenderle con energia e documentazione vista la banale aria di ri-riflusso - è la seconda o terza volta in breve tempo - che tira). E sul romance di Morris l’autore conclude: «...e la sua stessa metafora si limita ad essere, coerentemente, inconclusiva, poiché converte ogni situazione e ogni immagine in una allusività non spiegata e non interpretabile al di fuori di sé». E nella ‘testualissima’ analisi della poesia di G.M.Hopkins, Che la natura è un fuoco eracliteo, si dice: «...questo ‘respirare’ il significato, la voce, che è solo desiderio, come può ‘rappresentare’? La voce come intermediario di sé, origine e sua rappresentazione immediata, che implica nella scansione presente e continua una abolizione della linearità temporale per affermare solo il momento del suo disvelarsi continuamente ripetuto, cancellando così ogni distinzione tra soggetto e oggetto, fra ciò che parla e ciò di cui si parla». Che dire, ancora? In queste poche righe si agitano i problemi, le illusioni, le ipotesi, le attese della spazialità, della temporalità convenzionale (Prigogine), della crisi e insieme trionfo oggettuale della oggettualità, dell’autonomia e della fisica della forma... La voce come respiro e scansione presente e continua. Perciò è ‘materialistica’ la sostanza della poesia, perché è fisiologica. La poesia nasce dal respiro dell’uomo che batte con il respiro dell’universo. «Di conseguenza questo mondo è Verbo», e questo Verbo è mondo. Non rappresenta il mondo, è mondo. «In questo modo, che è il modo tipico del linguaggio poetico e della teorizzazione hopkinsiana, le immagini (io, soggetto, corpo) mantengono limpidezza e plasticità non perché la visione sia ridotta descrittivamente a una serie di segni, a un disegno visivamente simbolico, ma perché convergono, e vengono pronunciate, in e attraverso la suggestione della voce eletta a rappresentarle». Ma è anche ciò che Sanesi indica per Sutherland: «...per questo ogni immagine, verbale o visiva, non può essere imitazione ma, al contrario, attività produttiva di forme».

Basta. Finiamola qui. Senza tuttavia tralasciare il ricordo dell’evento della poesia di Sanesi, e della sua ‘poesia visiva’. Possiamo rammentarci, fra l’altro, de La differenza, che pubblicò Garzanti nell’ ‘88, un finale, il finale di Elegia che tanto chiaramente, quanto ombrosamente («ma come aderire / alla loro visione...») instaura quella lucida (non fumosa, non spiritualistica o manieristicamente romantica) comunione panica che fa del soggetto l’oggetto dell’elegia medesima, coniugandolo con gli oggetti della spazialità cosmica:

Perché le minime cose, le confidenti, le nostre
compagne, tangibili allo sguardo, prènsili,
ci sono accanto: ma come aderire
alla loro visione,
in che modo tornare a possederle
stando lontani, guardinghi,
senza sciuparle,
trasformate in noi.


In quella scala visuale discendente che conduce la ragionata constatazione, via via, alla ‘puntualizzazione’ (in senso geometrico) di una collassata energetica pluralità, totalità, che sorpassa l’io nel noi.

Così il tempo s’annulla nella spazialità, e l’assenza tralascia i manierismi della memoria per ‘raggrupparsi’ come materia viva nel territorio del presente testuale, tuttavia dinamico fino all’esaltazione barocca (e s’intende l’attributo in senso genetico, non stilistico epocale, pensando, per esempio, tra le ‘poesie visive’ a opere come Visione e preghiera (Dylan Thomas), II, 1991, o Per infinite pianure, 1991). Bene diceva Guido Ballo in occasione della mostra di Sanesi del 1992 alla Galleria Annunciata di Milano: «Il dominio della parola visiva qui è più forte che nella normale lettura. Sanesi crea così dei nuclei di segni raggruppati per far sentire lo spazio, il ritmo, i vuoti; ma anche, altre volte, dissemina i segni stessi nello spazio in modo da far intuire il fermento interno all’unità del blocco testuale».