Eloisa Guarracino
Un epico-comico vero
Sulla ‘parola epicomica’ di Giulia Niccolai*


 

Quella “epicocomicità” che a dirsi suona quasi uno sberleffo nomenclatore, compone in realtà una definizione valida a valutare certa parte, ma potremmo dire tutta, della poetica di Giulia Niccolai. Prima di argomentare i termini del dibattito, dopo aver ammesso una suggestione fonica voluta, fin quasi onomatopeica, per la parola scelta, poniamo una questione delicata e più volte ambigua nelle stesse soluzioni ottenute. La proposta di indagine che suggeriamo servirà al capitolo da premessa.

Il riferimento è tratto da un saggio critico di Gio Ferri, il cui titolo dispensa già una guida alle logiche della ricerca, La ragione poetica. Del primo capitolo, La biologia della parola, fra le ricche ipotesi dell’autore, circoscriviamo alla nostra lettura, il quinto e il sesto paragrafo, Il disdire e La verità. Posto che le mosse dell’autore partono da un richiamo alle «ragioni prime (o ultime) del piacere della lettura della poesia»1, entro una disamina“biologica” della scrittura, emergerà infine uno studio specialmente formale e primario del fare poesia. Riportiamo alcune dichiarazioni dell’autore: «Il disdire. La prima constatazione fenomenologica [...] riguarda il fenomeno della menzogna. Quindi della finzione. È principio prammatico della polis platonica che la poesia si dia come artificio. Come mascheramento ingannevole. Di qui il valore catartico della finzione tragica in Aristotele»2. E infatti, come spiega Werner Jaeger, parafrasando Platone: «La poesia corrompe la mente degli ascoltatori, se questi non hanno a disposizione come medicina, la conoscenza del vero». Ciò significa che la poesia «deve essere respinta a un piano più basso. Essa rimarrà, ora come nel passato, oggetto di piacere estetico, ma sarà esclusa dalla dignità suprema di educatrice degli uomini»3.


È per questo che la questione posta da Platone si basa una volta ancora sul duplice livello di mondo sensibile e mondo delle idee. L’arte (almeno nel suo “piano più basso”) sarebbe in sostanza la copia di una copia, ossia
la rappresentazione di quella che già da sé si manifesta come riflesso di una realtà superiore, e in poche parole “migliore”. Per questo lo Jaeger, di nuovo con Platone, sintetizza che «la poesia è come il riso di giovinezza in un viso giovanile che in sé non sia bello, e che perde perciò la sua grazia quando la giovinezza se ne va»4. Da qui, riguardo al genere poetico, dovremmo trarre il giudizio di uno sguardo fanciullesco e arbitrario della realtà, soprattutto istintuale, né scientifico né propriamente educativo, e certamente lontano dalle qualità specifiche del “vero”.

Tornando a Ferri, la questione si caratterizza poi per negativo, dalla«finalità sistematica del discorso» all’«inutilità della parola poetica»5, ponendo l’accento sull’evidente evasività che la poesia avrebbe, non ragionando con intenti persuasivi, né avendo realmente dei fini programmatici. Non c’è dubbio, tuttavia, che lo stesso discorso cosiddetto “non-poetico” si avvalga, con lo scopo di persuadere meglio, di strumenti «della retorica e della semiotica»6, quindi non si astenga da un porsi e «proporsi quotidianamente (e storicamente) attraverso mascheramenti artificiosi». Questa crisi, secondo il critico, è innegabile e palese, oltre che distruttiva
della “credibilità della polis”; e in poche parole avversa alle logiche interne platoniche, così come esaminate. Si annuncia perciò la questione della “verità”, concludendo col notare la condizione cui verrebbe a trovarsi ora la poesia, e cioè a «togliere la maschera all’uomo quotidiano o storico della polis», per concludere lucidamente che «la finzione della finzione è verità».

Ma è nel paragrafo successivo, La verità, che si profila una possibile soluzione, per cui la «ricerca della verità consiste nella constatazione dei moti presenziali originari dell’essere», ovverosia nell’essenza piuttosto che nei fatti, “viaggio”, questo, “criticamente viaggiato” dalla poesia moderna.

Si introduce quindi una questione molto specifica e determinante nella nostra autrice. Infatti, malgrado una costante, rimodulata “sperimentazione”, un uso perciò poetico della realtà (sia pure, concluderemo, un uso
reale della poesia), sappiamo già che la questione del “vero”, dell’indagine, ancora con Ferri, non evasiva ma utile della parola assume una fisionomia essenziale in Giulia Niccolai. Se, come più volte ribadito, lo strumento linguisticoè stato “maestro” di rivelazioni, innanzitutto esistenziali, inverate dal personale cammino buddista, dovremmo pure accettare che la poesia – qui – non è più poesia (o almeno non solo), ma è vita vera.

Non a caso citiamo che durante un sogno, all’autrice capitò di avvertire queste parole: «...Ne deriva un Manjushiri fiammeggiante, più bello di Baudelaire»7. Il paragone, a vantaggio del Budda, rispetto a un “dio” (sia pure maudit) della poesia, incide nel nostro discorso. Non solo ogni “inutilità” implicitamente rischiata nella parola si scongiura, poiché dispensatrice di epifanie (“Le parole mi hanno indicato la ‘verità’ delle cose, forse ovvia, ma spesso nascosta o travisata o inflazionata8), ma va dà sé che, in coerenza al graduale abbandono dell’Ego cui resta coinvolta anche la poesia, l’autrice si ritrovi a tagliare dalla radice ogni possibile forma di“evasività” poetica. Così dichiara: “Per poter aderire incondizionatamente al cammino spirituale,, dovevo saper rinunciare alla scrittura9.

È per questo motivo che crediamo di poter proporre due affermazioni. Quell’essenza, allusa da Gio Ferri, meta del viaggio poetico e artistico“dell’ultimo secolo”, può dirsi finalmente e pienamente compresa, nelle
dinamiche dell’autrice. E infatti, «la constatazione dei moti presenziali originari dell’essere»10, altrimenti detta la ricerca di verità, ne è stato senza dubbio, il suo cavallo di battaglia più noto. Per questo, poi, anche l’approdo
ulteriore alla rinuncia della scrittura, che crediamo vada piuttosto inteso come perfetta aderenza, co-incidenza, di cammini (umano, artistico, spirituale), deve essere compreso nei termini di una “biologia della parola”, che
come tale avrà svolto il suo corso naturale, per portarsi nel superiore livello, cosiddetto “ideale”.

Ritorniamo alle analisi di Jaeger, interprete profondo di Platone, a sua volta di Socrate. Continuando a citare la Repubblica, lo studioso illumina la questione sul “valore educativo della poesia”, ponendo il conflitto entro i termini di una poesia che è soprattutto di “imitazione”. Questa infatti sarebbe da ostacolo e dannosa al pensiero, poiché esaspera sentimenti, eccitando l’immaginazione del suo pubblico, interpretando in modo arbitrario e stimolando senza freno le emozioni, «con l’interesse che naturalmente le è proprio per la parte passionale della vita psichica»11.

Come un bambino, secondo il paragone precedente, essa stimola quel dolore di cui dà testimonianza in forma nociva: «Si afferra alla parte dolorante del proprio corpo e soffre e piange sempre di più, così essa rinforza, rappresentandolo nell’imitazione, il senso della sofferenza», influenzando gli uomini ad «abbandonarsi con intensità massima a questo sentimento, invece di abituare l’anima a curare il ristabilimento più sollecito, dal turbamento della passione»12. La poesia, dunque, avrebbe in sé poteri travolgenti, e fra questi un’ambigua capacità di rendere piacevole quel pianto, soddisfacendone
il bisogno nella sua rappresentazione, causando «anzi il piacere della partecipazione a una sofferenza»13, stato che definiremo catarsi.

Ma la battaglia che sembra voglia muovere Platone a questo genere espressivo va inteso per lo Jaeger elevandone la prospettiva. La sua mira tende, in realtà, all’innalzamento morale dell’uomo,«alla liberazione delle facoltà creative dello spirito dalla forma poetica», al «ritorno dell’anima in se stessa». E infatti, precisa l’autore che «di fronte all’ingrata prospettiva della fine della poesia, un motivo consolante fu proprio per lui la universalità assoluta di questa conclusione: la poesia non possiede la bellezza schietta e imperitura che è propria solo della verità»14. Torna utile il paragone fra poesia e giovinezza: l’arbitrarietà, la stagionalità di cui il genere difetterebbe, rispetto alla speculazione filosofica.

La conclusione di Platone, e con lui di Socrate, sta in questa importante deduzione, secondo cui la poesia, pur riflettendo valori e ideali comuni, sebbene sommariamente rielaborati, è però «priva di quella vera “arte della misura” che rende possibile sfuggire all’illusione e all’apparenza vana»15.

L’”arte della misura” ci riporta, per forte suggestione, come il flusso di una rapida, alla raccolta dell’autrice, La misura del respiro. Poesie scelte, pubblicata nel 2002 per ‘Anterem Edizioni’. Il titolo è tratto da un verso del secondo testo della sezione Dai Novissimi, antologizzato in Harry’s Bar e altre poesie.

Ma la “misura del respiro”, che riassume con la sua brevità, tutta la vicenda artistica e umana di Giulia Niccolai, se temperassimo le drastiche critiche al genere poetico (mitigate del resto dal loro focus a un certo tipo di poesia, quella d’imitazione), sembrerebbe a buon titolo centrare, seppur paradossalmente, poiché il metodo è quello “illecito” della poesia, quell’“arte della misura” proclamata con intenzioni di verità, nel dialogo platonico.

Di una “bellezza schietta” percepiamo essere i versi, soprattutto i più maturi, della Niccolai, così come le prose, che pure eludono schemi di genere artistico, indubbiamente, però senza rientrare nei canoni della filosofia. Ma se questa fosse solo un’impressione, estranea al vero pensiero di Platone riguardo a una “bellezza” ideale e imperitura, meno pretestuosa è però la certezza che esperiscano ovunque una “ricerca della verità”, il sabotaggio, dolce ma implacabile, dell’“apparenza vana”, possibile solo per
mezzo di un’“arte della misura”.

Massimo Cacciari, in un saggio raccolto da G.Garelli nell’antologia Filosofie del tragico, ragiona su «che cosa “fa” il poeta», e con una «raffinata analisi del senso della condanna platonica dell’arte»16 rileva che in realtà «la poesia mette in gioco la forma complessiva del fare, sia sotto l’aspetto mimetico che sotto quello proairetico; la sua “verità” è a-intenzionale; la sua parola non è mímesis; il suo tempo è puro kaíros»17, ma così posta, la poesia, sarebbe necessaria proprio per la sua stessa funzione catartica.

Qui ragioniamo ancora attraverso strumenti poetici, perciò senza pretese scientifiche: la scrittura della Niccolai non solo avrebbe paradossalmente informato la sua arte alla “ricerca del vero” (con un senso della misura e della misurazione ontologici al suo “fare poesia”), ma ancora riuscirebbe in qualche modo a sostituire, o meglio a far convergere, catarsi con vacuità.

Consideriamo infatti che l’insegnamento della vacuità (sunyata) è uno dei cardini su cui fonda il Buddismo, per cui riflettendo sull’insostanzialità di tutti i fenomeni si arriverà a comprendere che «non solo il “sé”, ma tutte le cose sono prive di natura propria in quanto soggette al meccanismo della produzione condizionata». Il vero stato delle cose è infatti «l’assenza in sé e per sé o assenza di sostanzialità di un fenomeno». Ma ci si astenga da reminescenze di nichilismo pessimista, poiché «la vacuità non svuota le cose del loro contenuto: ne è la vera natura. Non il nulla, giacché le cose appaiono in maniera interdipendente»18, come scrive Philippe Corpu, nel Dizionario del buddismo. Pur senza possedere cognizioni profonde in materia, è facile intuire che si tratta qui di un vuoto per così dire “pieno”, e viceversa di un pieno per così dire “vuoto”.

Secondo questa concezione si giunge a riconoscere due livelli di realtà: «quello relativo della verità discorsiva che distingue e conosce i fenomeni nella loro dimensione apparente e quello della verità assoluta che coglie l’intrinseca vacuità di tutte le cose e si pone al di là di ogni ragionamento discorsivo. I due livelli non sono contrapposti ma complementari: il piano della verità relativa riconosce un’esistenza alle cose come strumento indispensabile per la conoscenza intuitiva della vera realtà: l’esperienza della mente libera da tutte le categorie di pensiero e vuota di ogni rappresentazione soggettiva»19.

Per queste ragioni potremmo ritenere che la scrittura della Niccolai, che definiamo “sperimentata”, pur non essendo filosofia come vuole Platone, abbia già compreso (nel senso anche di incluso) la necessità di una ricerca, abbia cioè già assunto la “medicina”citata dal filosofo, e intesa come conoscenza del vero, ma al contempo essa stessa raggiunge anche quello stato“non discorsivo” (quindi diremmo né poetico né filosofico, ma entrambi a ben vedere, contemporaneamente) della visione della realtà, ne colga dunque la vacuità, includendo nella medesima condizione la stessa poesia.

Infatti, «l’assenza di identità propria o insostanzialità dei fenomeni [...]è l’assenza di essere in sé tutti i fenomeni raggruppati sotto la definizione di soggetto che percepisce e sotto quella di oggetti percepiti»20. Un equanime status di assenza riguarda perciò soggetto e oggetto, e come tale sovrasta e azzera, al tempo stesso, poeta, poesia, ricerca, oggetto, realtà. La scoperta di tanta vacuità riserva infine la scoperta dell’essenziale realtà. Sempre secondo una precisa prospettiva che influenzerebbe il modus scribendi della Niccolai, che riguarda cioè lo studio circoscrivibile alla poesia della nostra autrice.

Ma torniamo alle questioni platoniche (o meglio aristoteliche) e concordiamo nel riconoscere che la poesia ha precise funzioni catartiche e cioè quelle di rappresentare, enfatizzare sentimenti nei quali e attraverso i quali è possibile e necessario riconoscersi, al fine di purificarsi, neutralizzandoli attraverso un processo di mimesi. Consideriamo che in Platone questo termine ha avuto una portata enorme e soprattutto morale, intendendo la catarsi sostanzialmente come una liberazione dai piaceri del corpo, e che in Aristotele questo concetto sia stato per la prima volta esteso al fenomeno estetico, costituendo «quella specie di liberazione o rasserenamento che l’uomo subisce ad opera della poesia»21. Si comprende tuttavia che in questo caso si parli di catarsi come di un “fine” della poesia (la sublimazione di uno stato psichico), che è comunque anche un “mezzo” (il raggiungimento di quello stesso stato, sedato e purificato). Ne risulta una sorta di equilibrio, di calma piatta emozionale, secondo cui Goethe individua nella catarsi una specie di «cura delle affezioni (corporee e spirituali) che non le abolisce ma le porta alla misura in cui esse sono compatibili con la ragione»22.


Non riteniamo azzardato, dopo siffatte premesse, considerare certo tipo di scrittura della Niccolai, soprattutto nei suoi contenuti “non discorsivi” bensì meditativi, informata a sua volta della funzione catartica. Ma se lo stadio psichico di cui si presume ella voglia dare cura, purificandolo ed esorcizzandolo mediante il fenomeno estetico, è rappresentato (nelle forme e nei contenuti della sua rappresentazione) dallo slancio alla ricerca, radicata nei concetti di vacuità e interdipendenza, ne potremmo desumere che la catarsi, doppiamente al quadrato (ovverosia la liberazione della tensione alla liberazione) conduca di conseguenza, e radicalmente, a un livello totale– essenziale – di vacuità.

Del resto, senza osare interpretazioni ardite, potremmo accontentarci di certificare nell’autrice quel compito di paideia che Platone riserva alla filosofia, semplicemente se è vero che la scrittura rappresenti, prima di tutto per lei stessa (che ne è prova, per così dire, provata), una forma di insegnamento costante della verità, pervaso da una certa “morale”: un’“arte della misura” interessata, come prima cosa, a fare chiarezza e a scostarsi da ogni tipo di inganno, come insegna il filosofo, e come lei stessa implicitamente conferma con la metafora della “misura del respiro”.

Tutto questo accade anche per ciò che, in un altro contesto, rileverà Cecilia Bello Minciacchi, secondo la quale «c’è nella scrittura di Giulia Niccolai, una capacità al contempo di vedere e di intelligere»23. Ma la questione sarebbe, oltretutto, da valutare riferendosi anche a quanto afferma Aldo Tagliaferri, proprio nella prefazione a La misura del respiro, sfiorando anch’egli il già citato concetto di vacuità.

Così il critico, a proposito dei suoi testi più recenti (oltre le poesie di Orienti, le Meditazioni e i Frisbees della vecchiaia), afferma che «ha oscillato tra il sospetto che il buddismo renda superflua la poesia, relegandola tra le illusioni, e la fiducia che il buddismo, al contrario, possa costituire la suprema coincidenza tra l’uso artistico del linguaggio, comprensivo della sua contestazione, e la nuova dimensione di esistenza offerta»24. Il critico conclude poi, osservando che il rapporto fra realtà fenomenica, delle apparenze, «e ciò che, indicibile e irrappresentabile, si situa oltre di essa» è comunque una questione complessa e dibattuta fin dall’interno delle varie scuole orientali, e in ogni caso «non si risolve in un necessario sacrificio dell’estetico».

Ciò che interessa cogliere, è il fatto che la meditazione «dissolve la questione delle radici riconducendola a una “vacuità” produttiva di un senso nuovo della pratica della poesia e contribuisce a riproporre sotto una nuova luce l’“aura di una coincidenza»”.

Questo “senso nuovo” della poesia, informata come è dal Buddismo, è da prendere a modulo di una misurazione del reale, che al contempo scompagina e mette in fuga ogni illusione poetica, «la finzione della finzione». Che in effetti, così, «è verità», come già affermava Gio Ferri.

Ritorniamo ora all’osservazione della Bello Minciacchi. Il nostro collegamento non si pone a caso, e rispecchia d’altronde lo sviluppo di quel filo che unirebbe i tre termini della questione, così come posti dal titolo:
epicità, comicità e “verismo”. Senza poterli esaurire del tutto con sufficiente materia d’analisi, ci riserviamo di circoscriverli il più possibile all’opera dell’autrice, cominciando con l’anticipare che le premesse da cui eravamo partiti (la ricerca del “vero”) si ritroveranno circolarmente quale loro ideale conclusione, al termine dell’intera argomentazione, quasi come il serpente Ouroboros degli alchimisti.

Parliamo del “dolore”, perché è di questo che riferiva la critica, relativamente a una capacità dell’autrice di “vedere” e “intelligere”. In un Frisbee cosiddetto “della vecchiaia”, appartenente a una raccolta solo parzialmente edita, è scritto: «Il dolore è luce perché ci costringe a vedere ciò che facciamo di tutto per evitare il dolore»25.

Consideriamo il “dolore” come il collante fra le qualità più riconosciute all’autrice dalla critica (epicità, comicità), cui aggiungeremmo il “verismo” inteso come ricerca dell’essenza, tenendo valido il suo ruolo di conoscenza. Potremmo cominciare con l’osservare come la stessa esperienza religiosa dell’autrice parta proprio da un momento buio, a seguito di un ictus, come più volte lei stessa ha ricordato, e al termine di un’esperienza molto intensa, e come tale travagliata, a Mulino di Bazzano, compagna di Adriano Spatola. Ma quello che ci induce a considerare l’afflizione come una linfa che scorre (o meglio che è trascorsa) nella scrittura talora comica, talora epica, talora per così dire “verista” (e contemporaneamente compresente, nella maggior parte dei casi) è un altro Frisbee, stavolta antecedente a quello già citato, dal titolo significativo di La ripresa 26.Coerenti all’attuale indagine sulle tre specifici registri di scrittura, troveremo in esso la sintesi di ciò che intendiamo dimostrare. Si legga:
.

Vivere / sentendo sempre / di vivere sentendo sempre / la mancanza / di
qualcosa / è vivere?
Col tempo / la sofferenza / diventa / conoscenza.
Ma anche. / col tempo / la conoscenza / diventa / sofferenza.
Di sofferenza / ne ho a sufficienza / ma ho sempre fame / di conoscenza.

Se ci affrancassimo dall’imperio delle definizioni più strette, poiché è evidente che si tratti qui di una poesia (anzi, di un Frisbee), se osassimo perciò sbilanciarci, coglieremmo, sia pure in forma essenziale, e informale in ogni caso, le tre qualità certificate, sotto il segno uniformante del dolore.

Così una certa comicità, nell’accezione più vulgata, si potrebbe rilevare nell’ultima strofe, in particolare dagli ultimi due versi, il tutto smaltato dalla verve della rima, baciata e alternata. E se è proprio della commedia lo sviluppo in direzione di un lieto fine, con scopo “satirico o didattico”, tanto da autorizzare il topos “finire in commedia” (a proposito«di cosa seria che finisce in modo comico»27), bene allora avremo fatto a scommettere parentele fra i generi.

Infatti, dopo tre strofe, dove si declina una pena, lievemente rimodulata (ma sempre più acuta) dalla base di pochi vocaboli, sempre gli stessi e all’osso nel loro grado impersonale, l’autrice cede il passo a un’ammissione (accettazione, a dire il vero, col surplus di una scoperta) positiva e liberatoria. Il “ma” e il “sempre” variano di poco i versi quasi identici reiterati per l’intera poesia, ma concedono la svolta sostanziale al “lieto fine”, dacché accostati a concetti positivi (la “fame” intesa non come desiderio, bensì ricerca connaturata al vivere, e la “conoscenza”, oggetto dell’appetito).

Ricerchiamo ora l’epicità, tanto insistita dalla critica di Manganelli, riproposta ovunque, ma soprattutto in prefazione a Harry’s Bar e altre poesie 1969-1980. Chiamiamo “epico”, per definizione, ciò che attiene a un genere, innanzitutto poetico, dove si narrano gesta di personaggi eroici, entro uno spazio-tempo vissuto in forma mitica. «Vivere / sentendo sempre / di vivere», oltre alla «lettura leopardiana»28 che li accomuna a un altro Frisbee, analizzato dalla Bello Minciacchi, sono tre versi che schiudono da sé, per situazione d’incipit, chiarezza classica del verso, verbi infiniti e lapidari, un senso, o per lo meno un fondale, in un certo senso eroico del dolore.

Ma più che di emozione eroica, essi sembrano frutto di un’ipercoscienza attiva, eppure eroica, di un ipotetico dialogo fra uomo (sia pure di un pastore errante dell’Asia) e Zeus, giunti a una sorta di resa finale. Tanto più sentiamo spontanei i versi, quanto più ci sembreranno epici, prodotti di una ratio umana, divina e naturale, al tempo stesso. La saggezza sarà la conquista dopo gesta sofferte e “epiche”, quasi di conseguenza, trasfigurato il dolore in “conoscenza”, entro un tempo assolutizzato e astratto (per cui abbiamo il sentore di sentirne peso ed eternità, come sembra suggerire la locuzione complementare strumental-cronologica: “Col tempo”).

La ripresa” (titolo con l’implicita allusione già a un’idea di consuntivo) è l’accettazione di un Fato (altrimenti detto Karma) che per sua stessa affermazione, accogliendo la conditio della pena, realizza in positivo la sua chiusa. La sapienza è il ricavo finale: ed è qui che imbocchiamo la pista del terzo elemento, ossia la ricerca del vero. “La sofferenza diventa conoscenza” e viceversa. Cogliere e ammettere questa dialettica interna al “vivere” è la riprova migliore di un’arte che indaga la realtà, oltre ogni apparenza, fino a quei «moti presenziali originari dell’essere»29 di cui attesta Gio Ferri.

Precisate queste avvertenze, dal Frisbee successivo, otteniamo la riprova, e con essa un nuovo segnale, di poetica come “arte della misura”. Chiosa l’autrice, sulla scorta di una citazione di un famoso pittore romantico: «Il sapere / è la base reale della visione». Füssli”30. Ma se anche il dolore è alla base del sapere (e così viceversa, tanto da identificarsi, per un certo verso), alla radice della visione, che si fonda sul sapere, avremo ancora quel “dolore”, cercato in tutti i modi di evitare, ma che è lume di conoscenza.

Se, come scrive la Niccolai in Esoterico Biliardo,”L’immagine [...] qualunque essa sia, l’immagine che affiora da dentro ha una tale aderenza alla coscienza, da essere, per ognuno di noi, molto più convincente e reale di tutto ciò che vediamo a occhi aperti31; se è proprio questo tipo di “immagine” a fare da oggetto alle opere (si vedano, per esempio, le Meditazioni) sarà impossibile non ravvisare da questo sostrato poetico una sostanziale ricerca di verità, considerata finora esclusiva della filosofia.

È questo, in sintesi, il “senso nuovo” della poesia di cui dà ragione Tagliaferri, ed è così che andrà intesa la rinuncia (“scritta”) alla scrittura: generosi reportage verbali e condivisi di un’indagine nel reale (come appunto, Esoterico Biliardo o Le due sponde).

Nessuna accusa di poesia come menzogna o di sogno che trastulli e distragga la veglia. La scrittura di Giulia Niccolai ha già – lo si è detto – a «disposizione come medicina, la conoscenza del vero», di cui testimoniava lo Jaeger parafrasando Platone: non solo per guarire la propria arte, ma anzi riportandone la sua vacuità. Pertanto, lungi ancora una volta dal volere esaurire questioni complesse, fuori di ogni nostro ambito e portata, possiamo però osservare come il concetto di “vacuità”, più volte interpellato dall’autrice e causa della sua rinuncia all’arte, rappresenti il vero pharmakon che placa ogni dibattito su come e cosa sia la poesia, rispetto ad altri metodi ritenuti più consoni alla conoscenza.

Proprio per questo Tagliaferri parla di oscillazione fra poesia e buddismo (che, non dimentichiamolo, è una filosofia, piuttosto che una “religione” secondo quanto siamo avvezzi a intenderla). Ed è anche per questo che l’autrice non fa tabula rasa dell’ars con nichilismo o abiura del passato, ma approderebbe molto più semplicemente in quello spazio galleggiante e “zero”, che riconosce vacuità a tutti i fenomeni, compresa la poesia.

Quello che è interessante cogliere e che salva, o meglio conserva una poeticità costante dell’autrice (finanche superflua a “scriversi”) è il riconoscimento che sia stata proprio la scrittura a farla avvicinare al buddismo, così come il buddismo a renderle superflua l’idea della scrittura, ma nello stesso tempo ogni scoperta, ogni epifania e “illuminazione” quotidiana degli eventi, è stata però possibile per una sorta di collaborazione attiva, sinergica, da entrambe le parti. Interdipendenza, dunque, se così si può
dire, allo stato puro.

Cerchiamo ora la definizione applicata dei generi evidenziati in apertura. Cominciamo con l’argomento della “comicità”, poiché si tratta della cifra originaria che contraddistingue la fase poetica iniziale dell’autrice, ricca di tecniche nonsense e di humor costante.

È da premettere che il fenomeno dell’umorismo talmente è vasto, imprecisato e imprecisabile, quanto la sua ubiquità, fin dalla sfera più immediata del quotidiano. È per questo che risulta fragile il tentativo di una sua definizione, fugace al pari dell’incursione di una risata entro uno spazio di momentanea sospensione della ratio. Sui limiti dell’indagine filosofica, a proposito di umorismo, è illuminante ciò che dice il filosofo Henri Bergson, autore del noto trattato Le rire (1900), che mette a punto uno studio fine e argomentato del fenomeno. Egli paragona la comicità (e per esteso la sua comprensione) a un bambino che tenta di afferrare la schiuma del mare, comparando il riso a tale schiuma.

Tuttavia è possibile comprendere in un certo modo la questione, circoscrivendone taluni aspetti. È bene cogliere, con Bergson, che «non v’è comicità al di fuori di ciò che è propriamente umano»32.

Un esempio dello humor della Niccolai, si evidenzia nella raccolta Greenwich: oltre a colpire per la tecnica nonsensical, genera comicità per la sostituzione del nome geografico al posto di una certa riconoscibile “umanità” di sintassi e parole, che invece si attende. Come un cane farà sorridere, sorpreso con indosso un cappottino (cioè con un indumento umano, che ridicolizza la sua natura animale), così dovremmo intendere la struttura verbale di Greenwich, vestita di sembianze che altrimenti non le appartengono. La crisi, ossia la discrepanza fra due ordini di realtà, conduce alla rottura di una normale aspettativa, a un cortocircuito logico che scatena riso, tanto da autorizzare Giorgio Manganelli a farle il verso in una giocosissima prefazione, in questi termini: «I verba popolarono gli spazi innocui e dementi; e cominciarono le loro storie [...] sempre sulla soglia dell’invenzione della matematica; ma tutto questo in modo vago, miscellaneo, composito, un congerminare di membra di ogni estrazione, ipotesi di oggetti, giocarelli di anima, ectoplasma, sangue, selce, cellulosa e voce»33.

Simili considerazioni potremmo trarle anche per le poesie concrete di Humpty Dumpty, se considerassimo la veste grafica delle parole al posto del tratto illustrativo e viceversa; se valutassimo, cioè, questo incrocio fenomenico di codici come una contraddizione alla logica comune, una sorta di contraffazione, comunque equilibrata, in sfida all’ordinario.

Di questo meccanismo ce ne rendiamo conto ancora nella produzione visiva della Niccolai. Non solo è posta la ripetizione in sé di un fenomeno (si vedano i molti casi di identiche parole costantemente rimodulate sul foglio), ma con essa anche la formazione imitativa di un’immagine. Citiamo un testo di Poema&Oggetto, intitolato Steep: ripido step: gradino, già precedentemente menzionato 34. Le parole che formano l’immagine sono due, ma entrambe rispettivamente reiterate con un’insistenza e un meccanicismo, tali da rappresentare la forma di una scaletta, “ripidi gradini” per l’appunto. Posto che la loro costanza sortisca già l’effetto comico insito alla ripetizione, è interessante osservare che la raffigurazione, cioè la copia della scala, sia avvenuta per un grado massimo di meccanicismo, per quell’estrazione, di cui scrive Bergson, della «parte di automatismo» che esso (la scala da copiare) ha lasciato “penetrare nella sua persona” (la scala copiata sul foglio).

Nelle parole del filosofo sull’imitazione, c’è anche una riflessione che qui interessa riportare, essendo più diretta all’ambito letterario, specifico al nostro caso. Così scrive Bergson: «Possiamo indovinare come gli artifici abituali della commedia, la ripetizione periodica di una parola o di una scena, l’inversione simmetrica dei ruoli, la progressione geometrica dei quiproquo, e molti altri giochi ancora, riusciranno a trarre la loro forza comica dalla stessa fonte, giacché l’arte dell’autore di vaudeville forse consiste nel presentarci un’articolazione visibilmente meccanica di eventi umani, mantenendo in essi l’aspetto esteriore della verosimiglianza, vale a dire l’apparente agilità della vita»35.

La citazione è ricca di spunti, poiché pare di ritrovare ovunque i suddetti aspetti, benché la Nostra non sia autrice di commedie. Abbiamo già considerato come i testi di Greenwich siano frutto di un “genius loci” che elabora, in maniera tecnica, giochi linguistici dalla “forza comica”. Ma sarà ora il caso di ampliare la campionatura di esempi e analizzare una miniera (anche, ma non solo) comica, quale la raccolta di Frisbees (Poesie da lanciare). Senza attendere di individuare altre catalogazioni del comico entro il saggio di Bergson, basterà leggere questi brevi, sapidi “epigrammi”, per viverne personalmente la comicità. Leggiamo subito il primo testo e da qui ci accorgeremo che, molto prima dell’analisi, il riso scatterà in noi spontaneamente.

“Una volta / aprendo il frigorifero / è capitato anche a me di dire: ‘C’è qualcosa di marcio in Danimarca’36. Gli elementi di comicità sarebbero molti, se li volessimo analizzare. Avviciniamoci per gradi al più evidente, che è contenuto nel verso finale. Si potrebbe cominciare con il notare che l’incipit apparentemente altisonante, ai limiti dell’epico, apre invece con l’immagine di un frigorifero. Quest’effetto ha la forza di provocare un improvviso, immediato ribaltamento: una crepa (comica) fra l’attesa e il risultato, inatteso. L’urto percettivo fra la l’aura favolosa dell’avverbiale locuzione di tempo (“Una volta”) e un oggetto banale e quotidiano, quale il refrigeratore (regno in questione dell’autrice), è evidentemente la scintilla che accende umorismo nel lettore.

Oltre all’abbassamento, ma anche al rovesciamento dei piani, si aggiunge che tutto questo capita a esordio di una raccolta poetica, il che evidentemente sdrammatizza l’intero genere, se già non ne avessimo ricevuto l’impressione, a cominciare dal titolo. Frisbees: “poesie da lanciare” inventa di fatto un nuovo genere letterario, che è anche parodia primaria di una poesia normalmente “da leggere”, o al massimo “vedere”


Un altro elemento di umorismo è costituito dall’elemento del cibo. Di questo aspetto ne argomenta diffusamente Michail Bachtin a proposito di un autore classico del riso quale Rabelais. Nell’introduzione a un suo noto studio 37, l’autore evidenzia come il principio materiale e corporeo rappresenti, di fatto, un universo unico e rovesciato, rispetto alla realtà ordinaria, definendo questa dimensione alterata («comica popolare»38) come un sistema di «realismo grottesco»39. Fondamentale in questo sistema è il ruolo del corpo, con tutte le sue più basse derivazioni e connessioni: cibo, sesso, funzioni fisiologiche. Tratto caratteristico è dunque un generale abbassamento, “cioè il trasferimento di tutto ciò che è alto, spirituale, ideale ed astratto, sul piano materiale e corporeo, sul piano della terra e del corpo nella loro indissolubile unità”40.

Chiarisce Bachtin, «l’alto è il cielo; il basso è la terra; la terra è il principio dell’assorbimento (la tomba, il ventre) ed è allo stesso tempo quello della nascita e della resurrezione (il senso materno)».

Si parla qui di un valore che l’autore definisce topografico 41, distinguendolo da quello propriamente corporeo. Entro la prima definizione, alto e basso vengono considerati «nel loro aspetto cosmico»42. Invece, sotto l’aspetto specificatamente corporeo, che non è comunque mai del tutto disgiunto dal topografico, «l’alto è il volto (la testa), il basso gli organi genitali, il ventre e il deretano». Senza riportare un’analisi troppo sottile dell’autore, citare certi concetti è comunque proficuo, se anche noi acquisissimo le riflessioni di Bachtin in merito allo stile parodico, nel suo caso medievale. Esso si basa su un sistema topografico, che abbassa la realtà a un livello, che è legittimo da parte nostra ridurre a “terra-terra”. Tuttavia duplice è l’implicazione, poiché l’abbassamento è un «principio che assorbe e nello stesso tempo dà la vita; abbassando si seppellisce e nello stesso tempo si semina, si muore per nascere in seguito meglio e di più».

Si tenga conto del fatto che l’abbassamento, rappresentando una forma di «iniziazione alla vita»43 delle parti basse, nel medesimo modo «scava una tomba corporea per una nuova nascita. È questo il motivo per cui esso non ha soltanto valore distruttivo, negativo, ma anche positivo, di rigenerazione: è ambivalente, nega e afferma nello stesso tempo. Fa precipitare non soltanto verso il «basso» produttivo, in cui avvengono il concepimento e la nuova nascita, e da cui tutto cresce a profusione»44. Il basso, conclude Bachtin, «è sempre inizio»45. Sarà comunque giusto ricordare che tali considerazioni sono per l’autore ascrivibili alla parodia medievale, che avrebbe appunto questa valenza purificatrice e catartica, a differenza di quella moderna che è solo di tipo formale e sovente svolge un abbassamento di tipo negativo.

Risibile è il termine “marcio”, poiché sappiamo, non senza merito di Bachtin, che tutto ciò che è putrido, rovesciato da una normale integrità e “sanità”, costituisce a sua volta una forma di carnevalizzazione, e dunque
di ridicolizzazione dell’oggetto. L’invecchiamento (che nel nostro caso riguarda gli alimenti, ma riteniamo abbia uguale valore rispetto all’umano), il mutamento, la fase indeterminata della transizione e del decadimento sono topoi assai presenti nell’immaginario comico-grottesco di ogni epoca e cultura storica.

Ma occupiamoci ora della battuta finale, che rappresenta la comicità lampante della sequenza strofica. La frase è evidentemente la parodia a un noto verso di Shakespeare, tratto dall’Amleto. L’umorismo sta proprio in
questo ‘riciclo’ parodico di quelle che nel testo del Bardo sono parole drammatiche, pronunciate da Marcello, ufficiale dell’esercito danese. Qui l’autrice ribalta la scena da tragica a già consapevolmente comica, ne abbassa il contesto e il registro, ripete i medesimi versi estraendoli dal personaggio emulato, per mezzo di un automatismo insensibile (così lo chiamerebbe Bergson) e scientemente irriguardoso della provenienza, crea un doppio e simmetrico ‘realismo’, dacché sostituisce, entro i canoni dell’imitazione, lei stessa e – immaginiamo – un ipotetico formaggio avariato.

Scrive a questo proposito Bergson: «Il poeta tragico deve aver cura di evitare tutto quel che potrebbe richiamare la nostra attenzione sulla ‘materialità’ dei suoi eroi. Non appena interviene la preoccupazione per il corpo, c’è da temere un’infiltrazione comica. Per questo gli eroi della tragedia non bevono, non mangiano, non si riscaldano [...] significherebbe ricordarsi di avere un corpo»46. La fondamentale comicità della Niccolai sta proprio nell’aver sostituito se stessa affacciata al frigorifero, e si suppone affamata, all’eroe shakespeariano, così come il cibo (per giunta “marcio”) a ciò che, invece, nel dramma inglese è individuato come un sentimento, un’aggravata condizione morale spiritualmente percepita.

La scena (di per sé già comica) di esclamare quella frase, aumenterebbe di grado se leggessimo la scrittura (il resoconto riportato dall’autrice) come una forma di osservazione neutra e distante che, ora, a posteriori, dà di sé (“Una volta”). Se questa lettura risultasse legittima, ella tratterebbe se stessa, o meglio il suo personaggio, come una sorta di “marionetta”, di cui scrive, muovendo i “fili”, allo scopo di far spassare il lettore. La freddura, infatti, nel contesto originario della cucina, sembra frutto di un umorismo ‘inconsapevole’ da parte di chi la vive e la pronuncia, nonostante l’’attore’ sia incappato in una situazione doppiamente risibile (per la battuta in sé, ma soprattutto per la coincidenza letteraria che è la vera accensione comica). Quell’“anche” scritto dalla Niccolai autrice (non quella dello sketch), si carica così di ulteriore valenza. L’autrice stessa non solo ha pronunciato il motto di spirito, ma si astrae da quell’evento per poterlo raccontare, e lo racconta in ragione della coincidenza, “anche”, con l’Amleto di Shakespeare. Quasi (“anche”) a dire che il marcio stava (“anche”) nel suo frigorifero, svalutando, o mettendo in secondo piano, il “marcio” fiutato nel castello di Elsinore. Come si può vedere, in soli quattro versi risiede un’alta densità di elementi comici. Ma ciò che stupisce maggiormente è il fatto che l’esplosione del riso è tanto più naturale e immediata, quanto diametralmente opposta alla lunga analisi, che segue a una prima, certamente meno ‘intellettuale’, lettura. Anche tutto questo è comico. Anzi, se pretendessimo di sviscerare sia la comicità del testo, sia quest’ultima evidenza diametralmente invertita del caso, non sarebbe più possibile sortirne l’effetto: svanirebbe come la spuma marina citata dal filosofo.

Un altro metodo di comicità che individua Bergson è quello della cosiddetta «palla da neve»47, che rotola e accresce le sue dimensioni, fino a diventare valanga. Si allude così a un processo di propagazione e ingrandimento, per cui a un minimo fenomeno si accorpa gradualmente una concatenazione di fattori, che spropositano le dimensioni d’origine. Uno degli esempi che cita l’autore è quello dei birilli. Se ci servissimo di queste idee e applicassimo il meccanismo alla struttura stessa della raccolta, potremmo osservare come l’effetto “palla di neve” coinvolga innanzitutto l’andamento stilistico della raccolta. I testi, infatti, si susseguono l’uno all’altro mediante un moto assolutamente progressivo e causale, agganciandosi fra loro da una serie di coincidenze e convergenze testuali, che promuovono lo sviluppo.

Un simile effetto, che ora definiamo comico e a “palla di neve”, può capitare anche all’interno di ogni singolo microtesto, facendo smottare i significati in esso contenuti e ingigantendone l’umorismo.
È proprio per questo effetto che il microtesto successivo aumenterà la propria comicità, se letto come il risultato di un piccolo, ma decisivo, “fiocco” a monte. Leggiamo dunque alcuni versi successivi: “Un santo mi fa
notare / (durante l’intervallo di una mia lettura alla Pasticceria), / che il pane in Toscana viene fatto senza sale / e che Dante ha scritto: ‘Tu proverai sì come sa di sale / lo pane altrui... / e il salir per l’altrui scale’. Ci rimango di sale. / E intanto Dante sale
48. Poiché è evidente il Witz che muove l’autrice, evitiamo di dilungarci su quei giochi interni al testo, costruiti su simmetriche assonanze e isomorfie, come nel caso di “sale”: sale (condimento), sale (stupore), sale (verbo), così pure il divertente accostamento che si intuisce fra “santo” (inteso come brav’uomo) e “Dante” (ovvero, Divina Commedia), nonché fra “Pasticceria” e “pane”.

L’effetto “palla di neve” consiste, soprattutto, nella comunicazione sottesa fra i due blocchi strofici. Se parafrasassimo letteralmente la terzina dantesca, scioglieremmo infatti la parodia del primo Frisbees. Quel “pane altrui”, così ricco di sale rispetto al proprio, potrebbe forse essere allusivamente legato alla citazione dall’Amleto, intendendola come inscrivibile nell’area semantica del cibo e per esteso dell’ingegno (sale-intelligenza). Il gioco di corrispondenze è sempre, tuttavia, sottile e molte letture, almeno le più velate, si realizzano a seconda della sensibilità del lettore.

Di nuovo sulla scorta di Bergson, «si ottiene un motto comico introducendo un’idea assurda all’interno di un modello di frase stereotipata»49. Senza blasfemie nel definire i versi di Dante “stereotipi”, semplicemente (con una sorta di “metonimia sublimata e intellettualizzante”) sfruttiamo l’idea della figura retorica, a garanzia di versi intoccabili, riconoscibili e di stabile valore (pari alla ruolo dello stereotipo). Anche in quest’altro caso ricaveremo una lettura comica della Niccolai, secondo il codice bergsoniano.

Entro versi così “stereotipati”, oltretutto alti, l’utilizzazione di una citazione in un registro degradato (“Ci rimango di sale”. / E intanto Dante sale50) raddoppia l’umorismo del contesto.

[...]

Sappiamo inoltre dall’autrice una notizia interessante, che forse qui porta a rischiare paragoni impropri, ma che almeno sembra legittimo evidenziare. In più di un’occasione, la Niccolai informa di diversi livelli che secondo il Buddismo sono individuabili nel corpo, con annesse funzioni. Riportiamo le parole della scrittrice per capire esattamente, o più precisamente, ciò che intendiamo far emergere: “Il corpo umano possiede ottantaquattro chakra (ruote) o vortici di energia. I chakra principali sono situati nel ‘canale centrale’ [...] e questo canale centrale parte dalla fontanella in cima alla testa e arriva fino ai genitali. I chakra principali (che nel Buddismo sono cinque) rappresentano ognuno un elemento e ognuno di essi ha un diverso colore: al capo abbiamo l’elemento acqua e il colore bianco; alla gola, l’elemento fuoco e il colore rosso; al cuore, l’elemento spazio (uno in più di noi in Occidente), e il colore blu; all’ombelico, l’elemento terra e il colore giallo; ai genitali, l’elemento aria e il colore verde51.

Quindi anche nel Buddismo l’elemento terra è connesso alla zona del ventre. Ma leggiamo ora questo passaggio da Esoterico biliardo: “Le parole, queste parole che sto scrivendo, so che non possono bastare per rendere comprensibili i concetti che ho appena espresso, e che, comunque, entrano in un orecchio ed escono dall’altro. Per diventare veri e stabilizzarsi in ognuno di noi, dovrebbero scendere dalla testa fino all’intestino, divenire cioè «viscerali», centrarsi in noi, e questo è possibile solo dopo lunghe e pazienti meditazioni analitiche52.

Si prendano anche questi riferimenti: “Sud è terra, giallo, Gemma che esaudisce i desideri, orgoglio al negativo ed emanazione al positivo”53, e ancora, da Meditazione VIII: “Quattro dita sotto l’ombelico / in quello spazio profondo e viscerale: l’orgoglio, l’arroganza (“terra”, giallo) al negativo / ed “emanazione” al positivo: la capacità / di trasmettere ad altri il calore della propria / Gemma che esaudisce tutti i desideri”54. Sappiamo anche che la pancia del Budda, notoriamente espansa, significa emanazione, “il saper emanare amore e compassione” come ci informa direttamente l’autrice.

È interessante a tal proposito, inquadrare degli aspetti che apprendiamo dal sociologo Peter L. Berger, nel suo saggio, ricco e articolato, dal titolo Homo Ridens. Forse sarà superfluo notare che già la copertina dell’edizione italiana da cui attingiamo, reca la foto di due monaci tibetani che ridono a squarciagola. É invece efficace riferire alcune delle importanti riflessioni dell’autore. A proposito di un passaggio dall’opera di Bergson, di cui già abbiamo affrontato certi aspetti, l’autore commenta che «la comicità si presenta in un segmento percettivo singolarmente asettico, depurato delle emozioni, e perciò assai simile allo stato della mente durante la meditazione»55, citando perciò Bergson: «Il comico esige dunque, per produrre tutto il suo effetto, qualcosa come un’anestesia momentanea del cuore: si dirige alla pura intelligenza»56. Viene in mente, non a caso, che, secondo il Buddismo, la mente è all’altezza del cuore.

In un altro capitolo, dal titolo profetico, Monaci che ridono, l’autore riflette su un tipo di comicità tipicamente orientale, anche a proposito di koan zen (ossia quegli indovinelli paradossali che i maestri sottopongono ai discepoli, la cui soluzione è irrazionale, o comunque non esplicita). Berger sottolinea che lo scopo di questi motti di spirito è «sempre la decostruzione della realtà per arrivare a un’illuminazione liberatoria»57.

Opportuno anche ricordare come il sociologo chiuda il capitolo, poiché in qualche modo il suo finale realizza un perfetto esempio di coincidenza, e se vogliamo di collegamento fra “le due sponde”, che citiamo a omaggio dell’autrice. Nota Berger che in Asia, specialmente nel taoismo e nello zen, sono rintracciabili «tutte le componenti di una filosofia del comico: la diagnosi del mondo come somma di incongruenze; il ridimensionamento drastico di ogni esibizione di grandezza e di saggezza; uno spirito di beffa e irriverenza e, come risultato finale, una profonda scoperta della libertà»58.

In effetti, queste tesi non sono affatto distanti dagli assiomi di Bergson, che assumiamo come esempio di “filosofia del comico”. Ma è suggestivo riportare l’ultima immagine dell’autore, secondo cui «la Stultitia di Erasmo, avvolta in una tunica color zafferano ha girovagato in Estremo oriente per diversi secoli»59, e potremmo aggiungere che, tuttora, girovaga.

Questa parentesi aperta, che anticipa un ulteriore discorso sulla sacralità del riso, è il lancio di quell’intuizione annunciata, a proposito del “ventre” indicato dall’autrice e di quello esaminato da Bachtin,“tomba”, ma anche “inizio” e sede di vita. Ci chiediamo, dacché è la materia, in fondo, a indurre collegamenti continui, se il chakra all’altezza del ventre, la visceralità citata dall’autrice, la pancia rilassata del Budda, abbiano a che fare, a modo loro, con l’idea di “nascita” insita nel riso popolare, finora argomentato. È evidente che le figure siano uguali, ma che a livello “discorsivo” implichino concetti diversi fra loro; eppure sentiamo che è possibile intuire nel comune archetipo la stessa viscerale gioia, che purifica e segna un nuovo inizio.

Una definizione di “umorismo”, tratta da Sogyal Rimpoche (maestro buddista), di cui personalmente ci dà notizia l’autrice, è quella di «trovare spazio dove spazio non c’è». Fiutando di nuovo la “presenza di vacuità”, la
stessa di cui sopra accenniamo, come un nesso (e come non potrebbe non entrarci?) collegato al fenomeno del comico, chiediamo alla Niccolai la definizione di vacuità, pur essendo stati avvertiti che questa, se è possibile, si sperimenta, ma non può darsi una sua comprensione “concettuale” (torniamo, dunque, al concetto di pensiero “non discorsivo”, poco fa enunciato). Così, potremmo farci un’idea di tale concetto come di un’“interdipendenza fra tutti i fenomeni, che diventa evidente quando lo spazio è libero da ostacoli e ingombri dell’io e dell’afferrarsi al sé”; e ancora: “si tratta di uno spazio altro che ha a che fare con l’assenza di tempo, con l’eternità”. E a proposito di eternità, l’autrice ama ricordare una definizione di Manganelli: «Eternità, essere vicini, vicinissimi».

Da ultimo ricordiamo che a proposito di sorriso (una sorta di “sottocategoria del riso”, o se si vuole viceversa), quello del Budda, delicato e non turbato da emozioni, affiora per il suo stato di Illuminazione, per la scoperta della vacuità.

Tutte queste “definizioni”, per quanto i limiti ontologici somiglino alla parabola della schiuma marina, danno la percezione che un nesso fra umorismo e vacuità esista davvero, se non altro per il fatto che l’umorismo è un fenomeno e come tale, secondo il Buddismo, è anch’esso vacuo. Se non altro per la somiglianza di quei limiti all’inafferrabilità dell’onda. Ma se riconducessimo lo studio alle coordinate di Bergson, ci renderemmo conto che la definizione dell’autrice “di trovare spazio dove spazio non c’è”, ricorda in qualche modo la percezione comica di incongruo, di cui argomenta il filosofo.

Anche Berger, citando il pensiero di J. Ritter 60,tiene sottolineare che, malgrado questo filosofo abbia cercato di smorzare il valore determinante dell’incongruo, a favore di una relatività del comico, quello stesso sembra infine ravvedersi. Secondo il sociologo, è possibile far emergere una certa dipendenza dell’umorismo rispetto all’ambiente in cui è prodotto e recepito, tuttavia ciò non è sufficiente a negare che la percezione dell’incongruo sia un fenomeno che va «al di là di ogni relativismo spaziale e temporale»61, poiché malgrado i diversi linguaggi esso si presenta ovunque e in ogni tempo, come una dimensione inafferrabile, di impossibile
indagine. Dinanzi a questa problematicità, anche Ritter sembra arrendersi, considerando lo studio di questa manifestazione come qualcosa di simile al gioco e nello stesso tempo alla filosofia, mostrando ugualmente i limiti estremi della ragione.

Una delle prime spiegazioni attestate nel saggio di Bergson è quella riguardo al concetto di “insensibilità62 che accompagna il riso: «Sembra che il comico possa produrre il suo effetto solo a condizione di cadere sulla superficie di un’anima molto calma e uniforme. L’indifferenza è il suo ambiente naturale. Il maggior nemico del riso è l’emozione»63. Se al posto della parola “riso” sostituissimo “meditazione”, il concetto non varierebbe. Così, anche quando più avanti Bergson illustra i meccanismi della scrittura, dando prova di una tecnica di forte individualizzazione, tipica della tragedia, a dispetto di una certa genericità e di «un lavoro di astrazione»64, che invece caratterizzano la commedia, ci sembra di rintracciare di nuovo somiglianze fra umorismo e pratiche buddiste.

È certo che il fenomeno del riso, trasversalmente a tutte le religioni, abbia una funzione significativa, ai limiti del sacro. Berger ci ricorda come ad esempio nel Cristianesimo, la stessa Pasqua (offesa, uccisione e risurrezione del dio) implichi da sé un concetto paradossale, che non è l’unico, se ripensiamo anche all’entrata nella città santa di Gerusalemme, in sella a un asino e con abiti di povertà.

Un altro risvolto del comico è la follia, che assume valenza sacra dacché si caratterizza come un incontro con l’alterità, come il contatto con la dimensione divina. Così si osservino, per esempio, le rappresentazioni grottesche di certe divinità, pensiamo in questo caso a quelle dell’olimpo orientale. Secondo il sociologo, le forme talvolta mostruose e in un certo senso comiche, esprimono proprio quell’altro rispetto a noi, che caratterizza il sacro: «Questa alterità non si può afferrarla con il linguaggio e l’immaginazione ordinari; tutt’al più è possibile farsene un’idea»65, poiché essa «è un qualcosa che sconvolge i presupposti dell’esperienza ordinaria, quotidiana. È esattamente questo che con grande efficacia simboleggia il grottesco»66.

In questo caso, la follia sacra realizzerebbe, nello stesso tempo, due situazioni date, ma antitetiche nel loro modo di definirsi: irrompe nell’ordinario, svela l’alterità e dimostra come sia impossibile rappresentarla nella dimensione cosiddetta “normale” (di qui il grottesco). In maniera simile, l’atto di fede comporterebbe uno scarto della realtà quotidiana, che relativizza, ma nel contempo sostituisce con uno spazio totale, altro e assolutizzato.

Insistiamo sull’argomento che unisce il comico al sacro, poiché concorre bene a illustrare la dimensione della nostra autrice. Un aspetto, per ora trascurato, è quello delle pratiche di vagabondaggio, relative a un certo
tipo di follia divina. Sempre da Homo ridens traiamo spunti rilevanti e ne citiamo un passaggio, per produrre degli esempi. «Il Folle sacro è un perenne forestiero, un uomo senza una casa e senza fissa dimora, anche questo a imitazione di Gesù. Sebbene [...] privo di una cultura formale (o individuo che l’ha ricevuta ma ha deciso di rifiutarla), egli è depositario di una saggezza superiore. A lui vengono rivelati misteri che restano impenetrabili per saggi di questo mondo»67

Questi concetti, che rimandano a quello più generale di “rinuncia”, non sono assenti neppure nel Buddismo. Con essa si intende una cessazione da parte dell’ego verso ogni forma di attaccamento e dunque di emozione negativa, la cui fonte è la paura, che non può che generare sofferenza. Scrive il Dalai Lama: «Né parenti, né amici e neppure il più grande amore terreno, nulla ci sarà dato di possedere al momento della morte, neppure più un nome». Questo corpo è un luogo di passaggio, non possiamo rimanervi sempre; per ora ospita la nostra coscienza, ma quest’ospite-coscienza, eterno viaggiatore, partirà un giorno e dimenticherà l’albergo che l’ha ospitato, abbandonandolo dietro di sé. Amici, corpi, perfino il nome, non esiste nulla
al quale attaccarsi»68.

A proposito di “vagare”, affiorano anche numerose memorie culturali. Pensiamo ai Clerici Vagantes, alla Follia di Erasmo da Rotterdam, alle danze macabre durante i riti del carnevale, ai baccanali dell’antica Grecia, ai Mammutones sardi, a Don Chisciotte della Mancia. Molti ancora se ne potrebbero aggiungere, con diverse sfumature di comicità, più o meno grottesca, tutti, però, in fondo, con un grado di “sacro”, non fosse altro per il mistero e simbolismo di cui danno traccia.

Da un pamphlet dello psicologo Giancarlo Ricci, su un numero di «aut aut» (1997), apprendiamo di un ulteriore elemento, che avvalora l’argomento di un certo vagabondare del comico, che per esteso riteniamo “sacro”. Nel commento all’opera Il motto di spirito e la sua relazione con l’inconscio, in un paragrafo dal titolo Nomadismo della soggettività, Ricci approfondisce lo studio del Witz in Freud 69, ponendo differenza fra soggettività e soggetto. La prima, di cui si occupa la sua analisi, «non sta dove è supposta stare o esserci. Non è stanziale»70 [...].

Leggiamo due Frisbees della Niccolai, per afferrare meglio in che modo la soggettività faccia i conti con la parola, ne sia in un certo senso “investita” anche dai significati. “È molto importante vedere / Il fascino discreto della borghesia. / Prima di cena. A stomaco vuoto“; e ancora: “Omaggio a Petrarca / Oggi ho conosciuto Laura Gentile»71. Il motto arguto, che costituisce queste poesie, ha in effetti una forza dirompente, che lascia per così dire passiva la soggettività del lettore, che accetta questo intervento verbale, pur avendo recepito lo humor e perciò reagito attivamente nello stimolo al riso. Possiamo dire, con Ricci, che egli si trovi «gettato sotto dalla parola» e dal suo senso.

L’autore dichiara che «si ride perché i giri del significante, attraversando il sapere dell’inconscio, attuano un raggiro del senso: controsenso, doppio senso, non senso». In effetti, ci è spesso sembrato che nei testi della Niccolai la comicità facesse leva su queste tre modulazioni, anche se non sempre il nonsense abbia concluso la dinamica di tale schema. Così, ci pare anche che in questa poesia i primi due elementi citati da Ricci costruiscano sostanzialmente il contenuto, ma si potrebbe ammettere che il terzo della sequenza sia assente in questo caso: “Letto sulla vetrina / del negozio di ferramenta / in allestimento sotto casa: / PROSSIMA / APERTURA / CHIAVI / SERRATURE. / Che siano ladri?72.

Possiamo dire che qui il doppio senso è l’elemento determinante. In parte, forse, potremmo rinvenire una traccia di nonsense se considerassimo assurda, di fatto, la possibilità dei “ladri”. Tuttavia, abituati ad altro stile nonsensical, più estremo, dell’autrice, non ci sentiamo di ascrivere il testo alla specifica situazione. È importante, comunque, riflettere su ciò che evidenzia Ricci a proposito del motto di spirito, poiché al di là del sacro che stiamo indagando, egli chiarisce molti sviluppi. Uno di questi è la riprova che il Witz costringe il nostro buon senso ad arrendersi, «a consegnarsi quale subjectum al linguaggio»73.

Quale miglior esempio di “resa” dinanzi alla lingua, da parte della ratio (o se si preferisce della tirannica mente discorsiva), se non il caso della Niccolai, tutt’altro che limitato all’ambito dei Frisbees?

«Il nomadismo della soggettività irride ogni tentativo della ragione di confinarla in una fissa dimora. Tuttavia tale nomadismo non procede alla cieca, non girovaga, non gira in tondo. È un nomadismo che sa contare e pertanto che sa ciò che fa: per esempio fa ridere, fa emergere schegge di verità, fa superare censure, fa crollare inibizioni»74, come nota Ricci. Ne risulta una trasformazione della soggettività a opera del motto di spirito, non troppo lontana dai meccanismi catartici citati da Bachtin, ossia stravolgimento, ma anche trasformazione.

Il Witz, dovendolo descrivere con semplicità, ha in comune col sogno, secondo Freud, la relazione con l’inconscio. Senza entrare in merito a questioni psicologiche complesse, sarà sufficiente notare che entrambi, a parte l’approccio ludico tipico solo del motto, stabiliscono lo stesso rapporto con la realtà, «per il fatto di collegare ciò che normalmente è disgiunto», dando «un significato a ciò che normalmente è inteso come privo di senso»75, come suggerisce Berger. Alla base dei due fenomeni vi sarebbe il medesimo meccanismo, per cui i pensieri repressi, cacciati nell’inconscio riemergono poi «sotto mentite spoglie»76. Al di là di ciò che Freud sviluppa, e cioè l’individuazione di tali processi come forme di sublimazione (mossi alla base da una necessità di gratificare le pulsioni, da un appagamento effettivo della libido), è importante fare proprio quanto osserva Ricci. Egli sostiene che il contributo freudiano a proposito del motto di spirito abbia concorso a illuminare maggiormente la logica dell’inconscio. E scrive: «Se nella creazione del motto qualcosa si enumera a nostra insaputa, l’irruzione del riso attua un salto di registro: non si tratta più di sapere o di venire a sapere, ma di verità. La riuscita del motto [...] testimonierebbe un salto di registro dal sapere alla verità»77.

La situazione sembra molto chiara e, nello stesso tempo, paradossalmente ambigua. È giusto, d’altra parte che sia così, se continuiamo a tener fede a quel concetto di inafferrabilità che caratterizza il momento del
riso. Prosegue, infatti, l’autore, scrivendo che «non solo non è dato saperla prima» – la verità – ma «quando crediamo di saperla è già altrove, altra, differente. Il Witz dimostra che non si lascia sapere»78. (Straordinaria coincidenza di/con la vacuità).

Ma a proposito di nomadismo, vale la pena di citare un passo della Niccolai, tratto da Le due sponde, non propriamente comico, ma contingente al tema del sacro e significativo per il proseguo dello studio. Riferendo del suo smarrimento, per la sensazione di possedere radici instabili (padre italiano, madre americana), la scrittrice racconta che un amico, ignaro di queste personali riflessioni, le invia un pensiero di Ugo di San Vittore: «L’uomo che trova dolce la sua patria, non è che un tenero principiante; colui per il quale ogni terra è come la propria è già un uomo forte, ma solo è perfetto colui per il quale tutto il mondo non è che un Paese straniero»79.

Queste parole del teologo medievale consuonano con altrettanta grazia e pertinenza rispetto alle riflessioni citate poc’anzi dal Dalai Lama. A questo punto, trovandoci già nel capitolo da cui traiamo il nostro ultimo esempio, abbiamo modo di approfondire un altro aspetto, assai tipico della comicità. Si tratta del motivo del “doppio”. È stato già osservato come la copia (la ripetizione) di qualcuno o qualcosa provochi umorismo. Non abbiamo, però, ancora menzionato, come questo rappresenti un topos nella commedia, specialmente quella classica, tanto da generare veri e propri stereotipi (fenomeno altrettanto tipico, questo, nella rappresentazione farsesca, di sostantivare i nomi dei personaggi, per esempio appellando un vecchio vizioso come “lenone”).

Pensiamo, allora, a varie commedie, come l’Anphitruo di Plauto, i Menecmi di Menandro, ma certo non mancherebbero esempi nella storia della letteratura mondiale, fondati sul tema del doppio, basti citare più da vicino Pirandello e Dostoevskij.

Leggiamo questo estratto dal primo capitolo di Le due sponde (Appunti su Magritte, de Chirico, Hopper): “Quest’ultimo viaggio negli Stati Uniti l’avevo fatto su consiglio del mio Maestro, il Lama tibetano Thamthong Rimpoce, che mi aveva suggerito di partecipare all’iniziazione di Kalachakra (la Ruota del tempo), che S.S. il Dalai Lama avrebbe conferito in agosto a Bloomington nell’Indiana. Lì avevo conosciuto per caso un mio quasi omonimo: Adeo Piazza Nicolai, italiano del Cadore, emigrato negli Stati Uniti a quattordici anni e divenuto cittadino americano. Incontrare nel Middle West, tra diecimila persone un ‘Nicolai’, lo vissi come un segno particolarissimo, mi diede un attimo di vertigine. Anche se il mio cognome ‘Niccolai’ ha origini toscane (di Pistoia), e il suo (con una sola ‘c’), è il classico patronimico russo che suo nonno aveva aggiunto al proprio ‘Piazza’, dopo essere emigrato per un certo periodo di tempo in quel paese, alla fine dell’Ottocento. Poiché è dai tempi dell’infanzia che cerco di far combaciare tra loro la mia metà italiana e quella americana, per non sentirmi esule, e in parte estranea, in entrambi i paesi, vissi questa coincidenza con la sua deviazione russa (in omaggio ai quasi cinquant’anni di guerra fredda?) come il sigillo ironico e perfetto dell’unificazione avvenuta80.

Ma il racconto non finisce qui, infatti: “A livello linguistico, la cosa era capitata nel Middle West (dove non ero ancora mai stata), grazie al ‘Middle Path’, ‘Il sentiero di mezzo’ buddista, e all’interno di quel Mandala di sabbie colorate, geometrico, tantrico, tridimensionale ed emblematico dell’Universo, che viene laboriosamente disegnato e composto dai monaci, a ogni iniziazione di Kalachakra, durante i dieci giorni di cerimonia»81.

Fin qui disponiamo di sufficienti elementi per ravvisare un allure di umorismo, che la stessa autrice non manca di sottolineare (“come il sigillo ironico e perfetto dell’unificazione avvenuta”). Ma il dato interessante, che
emerge nella seconda sequenza narrativa, che è poi determinante e sigilla, se fosse possibile dirlo, ancor “più perfettamente”, la dimensione (umana e artistica) della Niccolai, è la presenza di quel terzo elemento che a modo suo “razionalizza” (ma il verbo è molto improprio) l’evento comico. Si potrebbe correggere il termine, con un più neutro e più cauto “giustificare”, ponendo enfasi sulla radice comune con “giusto”. In realtà, l’autrice commenta questa coincidenza avvenuta come un segno della vacuità. Il terzo elemento che interviene, che spiritualizza questo riso, è l’aver trovato pace rispetto a un dubbio che da sempre la attanagliava, il tutto con una risposta convincente, in un luogo significativo geograficamente, almeno quanto religiosamente.

È interessante segnalare che la riflessione spirituale della Niccolai, che la riguarda soprattutto nel suo lato umano, avvenga con strumenti da scrittrice (“a livello linguistico”). Del resto è lei stessa ad avvertire, prima di narrare l’episodio, e non certo per la prima volta: “Epifanie e coincidenze – che sono la causa principale del mio cammino spirituale – continuando a ripetersi come pietre miliari, diventano la prova del nove che mi indica
di essere sulla strada giusta
82. È così che l’umorismo, anche e soprattutto in Giulia Niccolai, si veste di conoscenza, sacralità, vacuità alla fine di tutto.

Così il suo ulteriore commento: “Ne La ruota del tempo, le mie due metà si erano spiritualmente riunite nello spazio puro e senza confini del Mandala della Vacuità dei fenomeni (non della loro esistenza intrinseca, bensì della loro interdipendenza), perché ormai era giunto il momento che ciò avvenisse, dopo averlo desiderato per più di mezzo secolo”83.

Forse, non sarà un fatto casuale (certamente non “causale”) che nel catalogo di una mostra poetica, tenutasi alla galleria Il salotto di Como, dal 17 al 30 maggio del 1975, in collaborazione con il periodico «D’ARS», il nome dell’autrice sia stato scritto con un refuso in copertina: “Giulia Nicolai”. Il titolo del catalogo è: Oltre la parola 84.

[...]

Lo studio di Jung è rivolto proprio a quei fenomeni, coincidenti e significativi, che non sono ascrivibili a questo schema spazio-temporale. Sono prodotti nel saggio numerosi esempi, fra cui casi personalmente vissuti coi pazienti in analisi, e i non meno interessanti esperimenti di J.B. Rhine, grazie ai quali arriverà a individuare la forte presenza del dato affettivo, determinante nel verificarsi di tale simultaneità.

Per potersi avvicinare all’argomento, sarà comunque necessario liberarsi della propria razionalità, vedere, in un certo senso, attraverso un sentimento intuitivo. Infatti, per cogliere il concetto di sincronicità, «sembra piuttosto che la spiegazione vada cercata da un lato in una critica del nostro concetto di spazio tempo, dall’altro nell’inconscio»85. Secondo Jung, non si può pensare al caso in termini di causa-effetto, poiché ciò escluderebbe il verificarsi della coincidenza: «Spazio e tempo vengono in una certa misura ridotti circa a zero; si direbbe che spazio e tempo siano in rapporto con condizioni psichiche, o che in sé e per sé non esistano affatto e siano “posti” solo dalla coscienza». Inoltre, scrive Jung, «di per sé spazio e tempo non consistono in nulla. Emergono come concetti ipostatizzati solo dall’attività discriminante della coscienza, e formano coordinate indispensabili per la descrizione del comportamento dei corpi in movimento. Sono quindi sostanzialmente di origine psichica».

Jung introduce il concetto di inconscio e quello di archetipo. «Gli archetipi sono fattori formali che coordinano processi psichici inconsci: sono “patterns of behaviour”. Al tempo stesso gli archetipi hanno una “carica specifica”: sviluppano effetti numinosi che si manifestano come affetti. L’affetto provoca un parziale abaissement du niveau mental, elevando un determinato contenuto a livello di chiarezza superiore al normale, ma sottraendo anche in pari misura agli altri possibili contenuti della coscienza tanta energia che essi si oscurano, diventano inconsci. In conseguenza dell’effetto restrittivo esercitato sulla coscienza dall’affetto, si manifesta un calo dell’orientamento cosciente corrispondente alla durata dell’affetto, calo che a sua volta offre all’inconscio un’occasione favorevole per inserirsi nello spazio lasciato vuoto»86.

In questo “schema” l’archetipo svolge un ruolo di rilievo, così come quella «scossa alle prevenzioni della nostra concezione attuale del mondo»87 che è indispensabile, e che avvertiamo, senza afferrarla davvero. Tutti questi aspetti informano in modo determinante la scrittura dell’autrice, che del resto scrive ciò che vive, superando qualunque limite di natura letteraria, qualunque urgenza puramente estetica. Nei suoi “diari” scritti in un «presente continuo»88, come pure attesta Milli Graffi, si annota spesso, diffusamente, il resoconto di questa magica sincronicità degli eventi, di cui fa personalmente esperienza. «Il fenomeno della sincronicità è quindi la risultate di due fattori: 1) un’immagine inconscia si presenta direttamente (letteralmente) o indirettamente (simboleggiata o accennata) alla coscienza come sogno, idea improvvisa o presentimento; 2) un dato di fatto obiettivo coincide con questo contenuto»89. Se non fosse poco prudente, ci sembrerebbe che anche questo, a suo modo, entro certe intuizioni non dimostrabili, abbia a che fare con il misterioso, ineffabile fenomeno del riso.

Tornando così al nostro ambito di partenza, concludiamo l’analisi sul lato comico dell’autrice, occupandoci di una manifestazione tipica e particolare: il nonsense. Abbiamo già riferito in un capitolo precedente che è la stessa autrice a ricordare Edward Lear, come una delle possibili influenze letterarie, quanto meno depositate nelle sua memoria di bambina.

Ancora una volta, a definire questa storta illogica della logica, poetica di questo genere di scrittura, varrà il riferimento all’incongruo. Carlo Izzo, nell’introduzione a Il libro dei nonsense, parla a tal proposito di «una sorta di logica dell’incongruo»90 alla base delle storielle di Lear, capace di spezzare gli schemi, e al contempo di proporsi come una cosa “assolutamente ovvia” e naturale. Vale anche la pena di riportare alcune osservazioni dello stesso Izzo sullo stile nonsensical, laddove traccia un brillante paragone del genere al “grin” del gatto del Cheshire, di Alice nel paese Sdelle meraviglie. Il graduale processo di scomparsa, fino alla sua «smorfietta di sorriso senza corpo»91 sarebbe assimilabile al nonsense. Perciò l’autore tiene a sottolineare una certa astrazione di questo tipo di comicità, che a suo giudizio si presenta come qualcosa che avrebbe poco a che fare con l’umano.

In effetti, rispetto ad altre manifestazioni umoristiche, è facile rendersi conto di una certa non umanità degli eventi, piuttosto simile ai paradossi dei koan zen.

Come nota Berger, l’etimologia del termine assurdo è dal latino absurdum e perciò “per sordità”. L’autore spiega infatti, che se osservassimo una scena senza udire suoni e voci che l’accompagnano ricaveremmo
un’impressione di stranezza, di conseguenza molto buffa. Tutto questo, oltre all’immediato divertimento, avrebbe, in realtà, la funzione di problematizzare la realtà posta. La crisi verso simili eventi riserva, pur tuttavia, una sorta di possibilità cognitiva, non fosse altro per il distacco instaurato.

Chiudiamo per ora la lunga disamina sul comico, avvertendo comunque di non aver precisato realmente ogni diversa sfumatura del fenomeno, pur essendo fondamentale tener presente che il riso provocato dal nonsense si differenzia di molto rispetto a quello, per esempio, del Witz.

Cerchiamo ora di chiarire, brevemente, un altro aspetto determinante nella poetica dell’autrice, su cui più volte ha insistito Giorgio Manganelli: stiamo parlando dell’epicità. Prendiamo subito la sua citazione, tratta dalla
prefazione a Harry’s Bar. Dopo aver definito l’autrice una «Shérézade [...] glossolalica»92, così continua: «La signora Giulia Niccolai è l’ultimo, irripetibile caso di poetessa epica. La sua aspirazione a scrivere qualcosa che includa la Gerusalemme, the Faery Queen (ma nell’originale è scritto Queene), il Canto della Schiera di Igor (purché sia un falso), un poema ciclico perduto, l’Edda, l’orario ferroviario mitteleuropeo – ovviamente epico – la guida del telefono di Stoccolma del 1933, con note, tutto ciò che non ci è pervenuto di Ennio, e le opere complete di Tolomeo. Avida di universi, come un Milton o un Amadigi di Gaula, la signora Giulia Niccolai deglutisce l’Atlante totale, e partorisce una storia che include tutto il mondo e tutti i villaggi, e tutta la gente dentro la città, e il signore del ventesimo piano che sta scrivendo una sinfonia in onore di una signora che vive nelle fognature di Minneapolis insieme ad un gatto germanico di Heldenwald; occorre forse aggiungere che quel ventesimo piano non è in nessun luogo, e la sinfonia sarà dunque glorious, absolutely»93.

E conclude: «Ecco una lirica di vocazione epica: quell’attacco totalmente fluviale, come l’Oceano, quello omerico, che finge di essere una cantilena – malizia di gran Signora! Alice cresciuta che ...ricorda...»94.

È necessario pensare all’epica come a una sorta di sostrato multiforme, eppure organico, di topoi (e come tali riconoscibili e condivisi) da cui si va modellando un poema di ampio respiro, capace di restituire un patrimonio, formale e contenutistico, dal valore “universale”, quanto meno archetipico.

Tutto ciò si arricchisce e avvalora, se accogliamo le considerazioni di Antonino Pagliaro, che negli atti del convegno su La poesia epica e la sua formazione (Roma, 23 marzo-3 aprile 1969) individua non solo un’origine del genere nelle «manifestazioni di carattere religioso e rituale»95, e sempre più dettagliatamente riferibile agli agoni poetici, mettendo altresì in luce un’evidente contemporaneità fra epica greca e indiana (Veda), ma argomenta di un carattere collettivo e composito alla base dei testi omerici, che sarebbero così il frutto di un’elaborazione comune, di temi e di tipi stilistici.

Pagliaro riflette sulla possibilità che alla base dell’epica vi siano «manifestazioni di carattere orchestrico-corale» e soprattutto che «fra il linguaggio della poesia omerica e quello della poesia di altri popoli arioeuropei
vi siano rispondenze tali da far postulare per la fase comune l’esistenza di una lingua poetica»; inoltre «che questa debba essersi formata nell’ambito della religione o del culto è provato dal fatto che la concordanza si manifesta principalmente sul piano formulare fra la lingua omerica e quella dei Veda»96. Proprio sul linguaggio formulare è da riflettere, specialmente per i nostri spunti successivi, oltre che per il fatto che il filologo da esso rintraccia i «residui di un’innologia antica», precedente e alla base dell’epica.

Ricongiungiamoci alla scrittura della nostra autrice, fermo restando che per la sua vicenda artistica, ovviamente, non sia lecito parlare di “epica” nel senso stretto del genere. Tuttavia, è possibile, così come per il comico (anche se questo registro risulta, forse, più evidente) snidare degli elementi chiave e percepire certe sostanze che ci inducono a parlare entro i termini dell’epicità.

Consideriamo, comunque, alcuni stilemi, ricorrenti e di facile riconoscibilità nella sua opera. Si può affermare, innanzitutto, che almeno da un punto di vista linguistico, molti dei luoghi di testo, sia pure in passaggi minimi, si ripetano altrove, magari con lieve variazione stilistica. Riportiamo questo esempio, ma si badi che innumerevoli altri sarebbe possibile rintracciarne:

“In un altro momento di quel mio viaggio di tre settimane in Giappone nel ’97, notai una bellissima ragazza in un vagone del metrò di Tokyo. I posti a sedere tutti occupati, lei e pochi altri in piedi [...]. Quando la
ragazza scende, tutti si voltano per un’ultima occhiata. Scomparsa
”97 (Le due sponde).

“Una bellissima ragazza / nel vagone del metrò di Tokyo. / I posti a sedere tutti occupati, / lei e pochi altri in piedi. [...]. / Quando la ragazza scende, / tutti si voltano per un’ultima occhiata. / Scomparsa”98 (Orienti).

Come si è detto, si tratta solo di uno dei frequentissimi casi in cui l’autrice si ripete in maniera “incrociata” e comunicante, all’interno della sua stessa produzione. Notare quest’aspetto, non è, del resto, secondario, se lo si considera come un ulteriore indizio rispetto alle nostre tesi di base (poesia sperimentale, in seguito sperimentata).

Ma ciò che più teniamo a evidenziare è una certa insistenza e ricorrenza di temi e formulari linguistici nella Niccolai, così come nei poemi epici. È bene chiarire subito che quest’esempio, di quasi perfetta isomorfia (che però svia per quanto riguarda lo stile, differenziato in prosa/poesia), non è forse il più calzante a rendere l’idea di una certa riformulazione, assai tipica dell’epos. Se, tuttavia, fossimo pronti a cercare nuovi casi, avendo letto ogni opera dell’autrice, non ci sarà difficile anche solo avvertirli, pur senza doverli o volerli annotare, passo per passo, pertanto non saremmo affatto smentiti a proposito di quanto finora abbiamo scritto.

Non solo. Le formule costanti, così come nei poemi omerici, non si esauriscono nel frutto di un rimpasto univoco delle proprie cifre, bensì si completano, in un certo senso, e si arricchiscono di ulteriori sostanze esterne, di elementi, cioè, desunti da altri testi, non sempre necessariamente letterari (in modo simile a Sostituzioni o Dai Novissimi, ma con meno radicalità, e certamente senza un voluto intento estetico).

Così, molte definizioni e immagini sono attinte dall’autrice da testi orientali, dalla propria esperienza di monaca buddista, dalla storia dell’arte, quadri o saggi critici, ma anche più semplicemente dalla realtà circostante, finanche dai cartelloni pubblicitari (“sui muri di Milano un manifesto pubblicitario della Peugeot: un’auto rossa, [...] a grandi lettere: L’ANTAGONISTA99); il tutto, sia chiaro, poiché assimilato profondamente: visceralmente.

Così considerata l’epica, lascia immaginare un immenso corso d’acqua che formalizzatosi in un fiume, non fa che scorrere, certamente per un’energia vitale che ne agita le correnti, ma anche per l’infinita combinazione di molecole, che insieme si sospingono, per tutta la loro portata e abbondanza, fino a perdersi nell’oceano, ricominciando qui il proprio ciclo di vita, sotto forma di vapore (nuvola, pioggia, e ancora mare).

Ma cerchiamo subito un caso, attraverso cui sia possibile verificare le definizioni del filologo appena espresse. Ne troviamo facilmente più di uno, nel capitolo di Cosmo Bar, l’ottavo di Esoterico Biliardo.

Una mattina, svegliandomi prima dell’alba per iniziare la prima sessione, mi ritrovai a pronunciare questa frase: HUM, il migliore apriscatole esistente sul mercato. In effetti la ‘Hum’ di colore blu, è la cosiddetta ‘sillabasemeì’ che benedice la mente (che si trova all’altezza del cuore) e, scritta in caratteri tibetani, assomiglia straordinariamente a un apriscatole. Se con quell’’apriscatole’si riesce a perforare la corazza, si scopre che nella mente-cuore c’è tutto. Tutto ciò che è stato. In quell’attimo si compie la reversibilità di presente e passato: esiste la loro non-dualità. Così, non si può che concludere che, a un determinato livello, non esistono né l’uno né l’altro. Invece la ‘sillabaseme’ di Tara è la TAM e certo, la prima volta che misi piede al centro buddista di Milano, non mi sfuggì questa coincidenza, cioè il fatto che la rivista di poesia che avevamo fondato quindici anni prima che incontrassi il Buddismo, Spatola e io, ha per titolo TAM TAM...100.

Questo capitolo, pubblicato anche su «il verri»101, con l’aggiunta illustrata dell’Hum, come scolio a margine del testo, permette di capire meglio le definizioni applicate di Pagliaro, al nostro caso di scrittura. In effetti, anche qui possiamo assistere a un “momento soggettivo oggettivato”, che estende, di fatto, la propria singola vicenda a “un ambiente che ne diventa depositario”. Vengono oggettivate (e assolutizzate, come è tipico dell’epos) impressioni o situazioni soggettive: “HUM, il migliore apriscatole esistente sul mercato” viene infatti estrinsecato nella spiegazione di “Hum” [...] la cosiddetta ‘sillabaseme’ che benedice la mente; così come la ‘sillabaseme’ di Tara è la TAM, a partire dal ricordo personale della rivista, da lei fondata con Adriano Spatola, che ha per titolo TAM TAM.

Riportiamo ora un esempio, tratto dal capitolo Cavalli veri, cavalli figurati, per definire meglio quali altri tipi di glosse, ossia “relitti” significanti e nuovamente potenziali, facciano parte di un certo formulario epico dell’autrice: “’Vessel’ in inglese è ‘ricettacolo cavo’, sia ‘vaso’, che ‘nave’ che ‘vena’... ‘Nave’, ‘vascello’, ‘il vascello snelletto e leggiero’? ‘Nave’ come ‘corpo’, contenitore dell’anima. E in italiano abbiamo nave/vena... Vajarayoghini: la purificazione del sangue. Assieme alla fiancata della nave e ai lastroni di ruggine, avevo la sensazione dolorosa che mi uscissero dai calcagni delle schegge di vetro [...]”102, e ancora, più avanti: “La sensazione di essere la fiancata di quella nave di giorno, durante le quattro sessioni di meditazione [...] come segno tangibile di un mio processo di trasformazione103.

Una ulteriore cifra linguistica dell’epica è, come riporta Pagliaro, il «composto»104 fino al suo irrigidimento nell’epiteto. Sappiamo, per precisa definizione, che l’epiteto «è l’aggettivo qualificante o il determinante del nome» (Marchese, Dizionario di retorica e di stilistica), per cui ci sentiamo di poter rintracciare un’espressione tipica e “determinante” in questo passaggio, che scorciamo molto, per necessità di sintesi, da Le due sponde 105: “Luant e Louette [...] Lucente e Lucetta [...] «Alouette, gentille alouette, alouette je te plumerai...» [...] ‘alouette’ [...] Alouette = Lark. E Lark = Larkin. [...] Trovai Lark sul dizionario Inglese-Italiano: Allodola. Allodola! Lo specchietto per le allodole! Ecco dunque il legame con la luce! I conti tornavano [...] il mio subconscio doveva già sapere che Lark è Alouette e Allodola. E viceversa106.

La lunga e complicata citazione fa riferimento a un possibile “epiteto”, derivante da una serie di composizioni, certamente particolari, giocate sul nome del poeta Philippe Larking.

Troviamo, però, anche altri casi di epiteti molto più espliciti, oltre che già in forma sintetica. Leggiamo, allora, dall’“epico” Harry’s Bar, nella ballata A. S. Ballad (in Russky salad ballads), come Spatola venga appellato “enrico ottavo”107, e il fatto avrà modo di essere ribadito nei Frisbees: “Se Adriano Spatola / è Enrico VIII”108 (regalando un altro paio di epiteti: “Bianca Tarozzi / è Elisabetta I, / Nilde Jotti / è la regina Vittoria”).

In un’altra ballata (L. A. Ballads), è lei stessa a dichiarare il proprio gusto per la denominazione: “Lo ammetto / il vizio degli alias dei parallelismi / come cavallotti forse il più felice / e non a caso entrato nell’uso109. “Cavallotti” è un altro epiteto di Spatola, ma il testo è molto ricco di ulteriori appellativi: “Così giovanna zazie. Maria moglie di maigret [...] Lui comunque non è simenon. Per esclusione / [...] / lui è il Bianco del circo [...] milena nicolini cavallerizza / giuliano della casa ai trapezi [...] giorgio celli magia-fuoco110.

Senza dimenticare “Gin”, il noto epiteto che l’autrice dà di sé, riconfermato durante più di un’occasione, a cominciare dalla poesia GIN- ginepro 111, dove è per così dire “ufficializzato”, e fa da chiusa alla raccolta di
Frisbees (Poesie da lanciare).

Sempre dalle analisi di Pagliaro, un’acquisizione che garantisce di individuare ulteriormente l’apparato formale dell’epos è la similitudine. Frequente, in effetti, nei testi omerici, è l’uso di questa figura retorica che
“allarga il dato sensitivo”, costituendo, di fatto, “una specie di piccolo μu`qo"”112. Anche qui, la Niccolai non lesina le possibilità di un linguaggio immaginifico e di somiglianze, che, più molto in generale, riguarda tutta la
sua poetica.

Eccone subito un caso, da Gli anni di Mulino, in Esoterico Biliardo: “Ancora oggi, quando penso ad Adriano, l’immagine che mi si presenta alla mente è quella di un Titano condannato a spingere un masso in salita. Il masso erano le sue opinioni, anche se e soprattutto quelle della sua poesia, da lui vista come unica possibile salvazione”113. E prosegue: “Solo, sentiva di non potersi staccare dal macigno e continuava a spingere per paura di rimanere stritolato. Egli sperava di raggiungere alfine la vetta della montagna, di vedere il masso che rotola giù per l’alto versante e di ritrovarsi libero”.

Il capitolo, come tutti, del resto, è denso di similitudini e metafore: “Mentalmente percepii il fluire dei granelli di sabbia: il senso dell’eternità. E per associazione capii allora che quella dura e compatta lastra di granito che si era appena spaccata a metà, andava, con fatica, con duro lavoro di macina, ridotta e frantumata in minuscoli granelli di sabbia. Questo è ciò che si riesce a fare solo con la meditazione. La lastra di granito corrisponde all’Ego[...]114.

Ci limitiamo a riportare da Esoterico Biliardo, solo un altro passaggio, pur ribadendo che il testo presenta questa figura retorica, praticamente in ogni suo periodo: “In quello che si può definire il ‘teatro della mente’,
Adriano mi è stato complice e antagonista, lo ‘sparring partner’ di un nostro metaforico e ininterrotto allenamento sul ring [...]
115.

Ma altrettanta abbondanza di artifici emerge anche nelle altre produzioni dell’autrice; King Clown, ad esempio, ne è saturo, e deve proprio la sua costruzione narrativa, seppur troncata al capitolo terzo, a un uso fiorente del paragone e ai gradi più articolati della comparazione.

Una similitudine, latamente omerica, è quella che ritroviamo in un Frisbees della vecchiaia, dove l’autrice parla delle “nostre menti / come cani alla catena: su e giù, su e giù / che abbaiano, ringhiano / avide, aggressive / sospettose, spaventate. Infelici”.

In alcuni Frisbees successivi, dove, con altrettanta similitudine, l’autrice scriverà: “E i cani abbaiano alla luna / (Vedi anche l’Arcano della luna nei tarocchi) / I cani si ammalano di rabbia. // Il tempo è denaro? / Il tempo
è una convenzione / come lo è la carta moneta. / In effetti, il tempo / è gli spiccioli dello spazio
116.

Così, da questa chiusa così epocale, ci sembra di avvertire la concezione di uno “spazio temporale” annullato, che l’epos sarebbe in grado di realizzare, mediante quel paradossale meccanismo di storicizzazione del mito.

Accertato come, e dovunque, intervenga nell’autrice, una possibile stratificazione epica di sostanze plurali, dalla più varia e antica origine (magari anche frutto di innumerevoli vite passate), crediamo di potere, persino in quest’ultimo caso, ritrovare una corrispondenza, fra quelle gare poetiche, celebrate in occasioni rituali, con l’aspetto delle performance, o più semplicemente delle letture di poesie, durante numerosi incontri pubblici.

(“Ogni tanto / qualcuno mi chiede / cosa penso / delle letture in pubblico. ‘È sempre il pubblico... / che legge!’, rispondo. / ‘Non è che le detti, però”’117).

Secondo le tesi di Pagliaro, “la materia epica”, proprio in ragione della sua spessa coltre stratificata, «nasce attraverso la molteplicità degli incontri agonali fra poeti, che hanno filtrato nella loro memoria gli elementi vivi negli ambienti regionali da cui provengono, un mondo unitario, che ha un livello alto di civiltà, una religione e un’etica propria e, insieme, vi nasce una lingua d’arte, composita nel tempo e nello spazio, che ne è testimonianza ed espressione».

La tesi di un registro epico nella Niccolai, convince ancora di più, dal momento che leggiamo alcuni passaggi di Cosmo Bar, dove l’autrice ricorda di Elena, sua coetanea e un tempo compagna di scuola. Racconta dei termini con i quali l’amica le avesse espresso il suo disagio, nel trovarsi in mezzo al frastuono di “mille frasi confuse e inconcludenti”, quasi fosse una naufraga “aggrappata a una zattera”, con intorno gli altri intenti a trascinarla al fondo.

In agosto, ricordando quella nostra conversazione, Elena mi aveva mandato dal mare una lunga lettera nella quale riscriveva l’episodio di Ulisse che costruisce la zattera sulla spiaggia di Calipso per poter partire e raggiungere finalmente Itaca. [...] quando il 19 settembre, meditando in camera mia, me la vidi di fronte, per un attimo, come in blue jeans e maglietta, con un gran sorriso sulle labbra e una palla in mano, non mi riuscì assolutamente di interpretare quell’immagine di lei sedicenne. Le raffiche di vento che alzavano mulinelli di polvere sopra il selciato di via S. Michele del Carso, le grosse nuvole gonfie, scure e minacciose di pioggia che si spostavano veloci nel cielo, i lampi e i tuoni mi aiutavano a correre per non perdere il treno. [... ] mi sentivo sempre più partecipe di quello spettacolo emozionante ed elettrizzante come la scenografia scaligera di un’opera romantica. Correvo verso il metrò e di colpo mi fu chiaro il significato di quell’Elena sedicenne col sorriso e la palla: Nausicaa. Compresi anche, con la certezza della rivelazione, che il gioco della palla tra Nausicaa e le ancelle significa comunicazione senza barriere, alla pari. Ma certo, il canto successivo a quello della costruzione della zattera! In quell’attimo di gioia totale, sentii di avere tremila anni di poesia nel palmo della mano”118.

Così anche la domanda che si sente affiorare l’autrice, sul “perché la poesia?”119, non può che trovare risposta nella possibilità di “trascendere il tempo”, di setacciare spiccioli fino a ridurli in una sabbia 120.

Così prosegue il passo: “Per Silvia, l’essenza della storia della letteratura può essere visivamente paragonata alla forma di un imbuto: all’imboccatura ampia corrisponderebbero gli inizi, i grandi poemi epici che man mano restringendosi per tema e per scopo, finiscono col trattare di esperienze sempre più individuali e interiori” (ossia la fine dell’epos e l’inizio della lirica). “Questa sua intuizione mi trova del tutto concorde. Si sa del resto che, più uno riesce ad avvicinarsi al proprio centro, alla propria “verità”, più questa, da soggettiva e personale, riesce a caricarsi di significati per tutti. Dai miei studi di filosofia buddista e della lingua tibetana, sono arrivata a comprendere che il concetto di «eternità» non esiste e viene tradotto con «spazio». Ma, sia l’«eternità» che lo «spazio» sono assenza di tempo. E se allora, invece di un imbuto si trattasse di una clessidra con la sua perfetta reversibilità di vasi comunicanti? A questo punto, ovviamente, imbuto e clessidra” – e aggiungiamo anche setaccio – “non valgono solo per la letteratura. Il concetto assume un valore cosmico. La letteratura, la poesia sono allora un veicolo121.

Pagliaro conclude in modo esemplare in relazione alla lettura della parola di Giulia Niccolai:

«L’epica greca si pone al livello di tutte le altre manifestazioni della creatività greca nei domini così dell’arte come del pensiero scientifico e filosofico», neutralizzando di fatto, nel nostro caso, ogni possibile crisi fra metodi di indagine del vero (più o meno leciti, o migliori di altri) e offrendoci questa chiusa, altrettanto, pienamente condivisibile per la scrittura della Niccolai: «Sì che ogni voce si identifica con il coro di cui è parte»122.

[...]


* Estratto dal cap.1 della tesi di laurea “L’itinerario poetico-esistenziale di Giulia Niccolai dalla poesia sperimentale alla poesia sperimentata” (Università degli Studi Carlo Bo di Urbino”, Anno 2010).
1 G. Ferri, La ragione poetica. Scrittura e nuove scienze, Mursia, Milano 1994, p. 5.
2 G. Ferri, op. cit., p. 12.
3 W. Jaeger, Paideia. La formazione dell’uomo greco, vol. 2, La Nuova Italia,Firenze 1978, p. 630.
4 W. Jaeger, op. cit., p. 632.
5 G. Ferri, op. cit., p. 12.
6 G. Ferri, op. cit., p. 13

7 G. Niccolai, Esoterico Biliardo, Archinto, Milano 2001, p. 41.
8 G. Niccolai, op. cit., p. 30.
9 G. Niccolai, op. cit., p. 42.
10 G. Ferri, op. cit., p. 13.
11 W. Jaeger, op. cit., p. 334.

12 W. Jaeger, op. cit., p. 634.
13 W. Jaeger, op. cit., p. 636.
14 W. Jaeger, op. cit., p. 633.
15 W. Jaeger, op. cit., p. 663

16 AA. VV., G. Garelli (a cura di), Filosofie del tragico. L’ambiguo destino della catarsi, Mondadori, Milano 2001, p. 142.
17 M. Cacciari, op. cit., in AA. VV., G. Garelli (a cura di), op. cit., p. 143.
18 Alla voce, in P. Corpu, Dizionario del Buddismo, Mondadori, Milano 2001.

19 N. Celli, Buddismo, Electa, Milano 2006, p. 224.
20 P. Corpu, op. cit., alla voce. p. 711
21 Alla voce, in N. Abbagnano, G. Fornero, Dizionario di filosofia, Utet, Torino 1998.
22 Alla voce, in N. Abbagnano, G. Fornero, op. cit.

23 C. Bello Minciacchi, Scrivere senza anestesia. La chiarezza di Giulia Niccolai, in «il verri», n. 25, maggio 2004, p. 141.
24 A. Tagliaferri, Delle radici come mito personale e come realtà, in G. Niccolai, La misura del respiro. Poesie scelte, Antere, Verona 2002, p. 11.

25 G. Niccolai, Frisbees ’88, in F. Cavallo e M. Lunetta (a cura di), Poesia italiana della contraddizione, Newton Compton, Roma 1989, pp. 183-184, ora in C. Bello Minciacchi, Scrivere senza anestesia. La chiarezza di Giulia Niccolai, in «il verri», n. 25, maggio 2004, p.139.
26 G. Niccolai, Frisbees (Poesie da lanciare), Campanotto, Udine 1994, p. 131

27 Alla voce, in A. Gabrielli, Grande Dizionario italiano, Hoepli, Milano 2008.
28 C. Bello Minciacchi, in op. cit., in «il verri», n. 25, maggio 2004, p. 140. Il riferimento dell’autrice all’altro Frisbee riguarda questi versi: “L’intelligenza è una freccia che centra il bersaglio. Ma / può anche ferire, può causare dolore a chi ce l’ha” (G. Niccolai, Frisbees ’88, op. cit., p. 184).
29 G. Ferri, op. cit., p. 13.
30 G. Niccolai, Frisbees (Poesie da lanciare), op. cit., p. 132.
31 G. Niccolai, Esoterico Biliardo, op. cit., p. 27.

32 H. Bergson, Il riso. Saggio sul significato del comico, a cura di F. Sossi, SE, Milano 2008, p. 18.
33 G. Manganelli, prefazione a G. Niccolai, Greenwich, Geiger ed.,Torino 1971.
34 Cfr. cap. Poema&Oggetto: Istruzioni per l’uso.

35 H. Bergson, op. cit., p. 34.
36 G. Niccolai, Frisbees (Poesie da lanciare), Campanotto, Udine 1994, p. 9.
37 M. Bachtin, L’opera di Rabelais e la cultura popolare. Riso, carnevale e festa nella tradizione medievale e rinascimentale, Einaudi, Torino 1979.
38 M. Bachtin, op. cit., p. 24.
39 M. Bachtin, op. cit., p. 24.
40 M. Bachtin, op. cit., p. 25.
41 M. Bachtin, op. cit., p. 26.
42 M. Bachtin, op. cit., p. 26.
43 M. Bachtin, op. cit., p. 26.
44 M. Bachtin, op. cit., pp. 26-27.
45 M. Bachtin, op. cit., p. 27.
46 H. Bergson, op. cit., pp. 42-43.
47 H. Bergson, op. cit., p. 59
48 G. Niccolai, Frisbees (Poesie da lanciare), op. cit., p. 9.
49 H. Bergson, op. cit., p. 76.
50 G. Niccolai, Frisbees (Poesie da lanciare), op. cit., p. 9.
51 G. Niccolai, Le due sponde. Spazio/Tempo - Oriente/Occidente, Archinto, Milano 2006, p. 141.
52 G. Niccolai, Esoterico Biliardo, op. cit., p. 108.
53 G. Niccolai, Esoterico Biliardo, op. cit., p. 138.
54 G. Niccolai, Meditazione VIII, in Meditazioni (1999-2003), inedito.
55 P. L. Berger, Homo ridens. La dimensione comica dell’esperienza umana, Il Mulino, Bologna 1999, p. 60.
56 P. L. Berger, op. cit., p. 60.
57 P. L. Berger, op. cit., p. 77.
58 P. L. Berger, op. cit., p. 78.
59 P. L. Berger, op. cit., p. 78.
60 “Joachim Ritter, il cui saggio sul riso apparve per la prima volta nel 1940, è citato a volte come colui che avrebbe demolito il concetto stesso di comico come incongruità. [...]. Il comico implica sì l’incongruo, ma ciò che viene percepito come tale è fortemente relativo e dipende da come viene avvertita la realtà in sé e per sé”, P. L. Berger, op. cit., p. 63.
61 P. L. Berger, op. cit., p. 63.
62 H. Bergson, op. cit., p. 18.
63 H. Bergson, op. cit., p. 18.
64 H. Bergson, op. cit., p. 108.
65 P. L. Berger, op. cit., p. 270.
66 P. L. Berger, op. cit., p. 270.
67 P.L.Berger, op.cit,, p.270
68 Dalai Lama, Gli insegnamenti essenziali, Perla Edizioni, Milano 1994, p. 44.
69 A proposito di Freud, autore del saggio Il motto di spirito e la sua relazione con l’inconscio (1905) è interessante riportare un Frisbee della Niccolai proprio su Freud, i sogni, il motto di spirito: “Chiamavo mio padre affettuosamente «Rinoceronte » [...] Anni dopo la sua morte / ho sognato un rinoceronte / che, con il lungo corno, / annusava un papavero in un campo. E si infuriava, / [...] perché con il corno (otturato) / non era in grado di sentirne il profumo. [...] Poi, per rabbia, per spregio, / pisciò sul papavero. / Ci fece sopra una lunga, poderosa pisciata. / PAPAVERO / PAPÀ VERO. / Ciao, Sigmund!”, G. Niccolai, Frisbees, op. cit., p. 29.
70 G. C. Ricci, Witz e soggettività nomade, in «aut aut», n. 282, novembredicembre 1997, p. 137.
71 G. Niccolai, Frisbees (Poesie da lanciare), op. cit., p. 50.
72 G. Niccolai, Frisbees (Poesie da lanciare), op. cit., p. 53.
73 G. C. Ricci, Witz e soggettività nomade, in «aut aut», n. 282, novembredicembre 1997, p. 138.
74 G. C. Ricci, op. cit., in op. cit., p. 138.
75 P. L. Berger, Homo ridens. La dimensione comica dell’esperienza umana, op. cit., p. 94.
76 P. L. Berger, op. cit., p. 95.
77 G. C. Ricci, Witz e soggettività nomade, in «aut aut», n. 282, novembredicembre 1997, p. 138.
78 G. C. Ricci, op. cit., in op. cit., p. 138.
79 G. Niccolai, Le due sponde. Spazio/Tempo - Oriente/Occidente, op. cit., p. 20.
80 G. Niccolai, Le due sponde. Spazio/Tempo – Oriente/Occidente, op. cit., pp. 18-19.
81 G. Niccolai, op. cit., p. 19.
82 G. Niccolai, Le due sponde. Spazio/Tempo-Oriente/Occidente, op. cit., p. 18.
83 G. Niccolai, op. cit., pp. 19-20.
84 P. Favari (a cura di), Oltre la parola, catalogo della mostra alla Galleria Il Salotto di Como (in collaborazione con la rivista «D’ARS»), maggio 1975.
85 C. G. Jung, La sincronicità, Boringhieri, Torino 1980, p. 32.
86 C. G. Jung, La sincronicità, op. cit., pp. 33-34.
87 C. G. Jung, La sincronicità, op. cit., p. 47.
88 M. Graffi, L’analogia come urgenza in Giulia Niccolai, in «il verri», n. 19, maggio 2002, p. 87.
89 C. G. Jung, op. cit., p. 45.
90 C. Izzo, introd. a E. Lear, Il libro dei nonsense, Einaudi, Torino 1982, p. VII.
91 C. Izzo, introd a E. Lear, op. cit., p. XVI.
92 G. Manganelli, pref., Harry’s bar e altre poesie 1969-1980, Feltrinelli, Milano 1981, p. 7.
93 G. Manganelli, pref., in op. cit., p. 10.
94 G. Manganelli, pref., in op. cit., p. 11.
95 A. Pagliaro, Origini liriche e formazione agonale dell’epica greca, in Atti del convegno internazionale sul tema: “La poesia epica e la sua formazione” (Roma, 28 marzo-3 aprile 1969), Accademia Nazionale dei Lincei, Quad. n. 139, anno CCCLXVII- 1970, p. 31.
96 A. Pagliaro, Origini liriche e formazione agonale dell’epica greca, in Atti del convegno internazionale sul tema: “La poesia epica e la sua formazione” (Roma, 28 marzo-3 aprile 1969), Accademia Nazionale dei Lincei, Quad. n. 139, anno CCCLXVII- 1970, p. 34.
97 G. Niccolai, Le due sponde. Spazio/Tempo – Oriente/Occidente, op. cit., pp. 46-47.
98 G. Niccolai, Orienti. Orients, Fondazione Franco Beltrametti, Josef e Weiss Edizioni, Ticino 2004, p. 14.
99 G. Niccolai, Le due sponde, op. cit., pp. 103-104.
100 G. Niccolai, Esoterico Biliardo, op. cit., p. 51.
101 Cfr. G. Niccolai, Cosmo Bar, in «il verri» n. 2-3- giugno 1997, pp. 122-128.
102 G. Niccolai, Esoterico Biliardo, op. cit., p. 136.
103 G. Niccolai, Esoterico Biliardo, op. cit., p. 138.
104 A. Pagliaro, Origini liriche e formazione agonale dell’epica greca, in op. cit., p. 47.
105 Lo stesso brano, praticamente identico, compare in un Frisbee del 1988, inedito.
106 G. Niccolai, Le due sponde, op. cit., pp. 218-220.
107 G. Niccolai, Harry’s Bar e altre poesie, op. cit., p. 121.
108 G. Niccolai, Frisbees (Poesie da lanciare), op. cit., p. 133.
109 G. Niccolai, Harry’s Bar e altre poesie, op. cit., p. 131.
110 G. Niccolai, op. cit., pp. 131-132.
111 G. Niccolai, Frisbees (Poesie da lanciare), op. cit., p. 146.
112 A. Pagliaro, Origini liriche e formazione agonale dell’epica greca, in op. cit., p. 48.
113 G. Niccolai, Esoterico Biliardo, op. cit., p. 84.
114 G. Niccolai, op. cit., p. 89.
115 G. Niccolai, op. cit., p. 89.
116 G. Niccolai, Frisbees (1988-1997), inedito.
117 G. Niccolai, Frisbees (Poesie da lanciare), op. cit., pp. 42-43.

118 G. Niccolai, Esoterico Biliardo, op. cit., p. 44.
119 G. Niccolai, op. cit., p. 44.
120 La sabbia che compone molti dei Mandala, di cui prima abbiamo scritto, a proposito di comico, al termine di molte celebrazioni (come quella di Kalachakra ne Le due sponde) viene dissipata, cancellando il laborioso e incantevole disegno tracciato dai monaci, per essere disperso nelle acque di un corso vicino. Questa“dispersione sacra”, ci fa pensare, una volta ancora, a quella schiuma inafferrabile dell’onda di cui parla H. Bergson, paragonandola al riso e alla sua comprensione.
121 G. Niccolai, Esoterico Biliardo, op. cit., pp. 44-45.
122 A. Pagliaro, Origini liriche e formazione agonale dell’epica greca, in op. cit., p. 58.