Gio Ferri
Letterale

 

Al Presidente e al Direttore della 54° Biennale di Venezia

Lesa sul Lago Maggiore, 27 luglio 2011

Gentilissimi prof. Baratta e prof.a Curiger,

il nostro periodico in forma di libro, TESTUALE, rivista di critica della poesia e delle arti contemporanee, è ben noto alla Fondazione “La Biennale di Venezia” che da quasi trent’anni riceve regolarmente i testi, dandocene cortese riscontro. I volumi sono pubblicati integralmente, oltre che in cartaceo, anche in internet al sito www.testualecritica.it.

In una rubrica dal titolo Letterale vengono pubblicate lettere aperte inviate per le diverse occasioni a scrittori e artisti. Ad ogni “Biennale d’Arte”, e sovente anche di Architettura, abbiamo sempre scritto ai direttori e curatori esprimendo le nostre osservazioni, utili alla promozione di dibattiti con i nostri lettori, con i poeti e gli artisti, e con gli stessi curatori delle diverse edizioni espositive e pubblicazioni. Sovente abbiamo ricevuto risposte dai curatori medesimi dell’Esposizione: in particolare rammentiamo fra gli altri un intervento prestigioso, e intelligentemente polemico, di Harald Szeemann, che, come si ricorda nell’attuale catalogo, ha dato il via nel 1999 alla ipotesi critica, per la verità un poco generica, di un aperto e «libero sguardo sul mondo». In quella occasione esprimemmo sommessamente un giudizio dubbioso in merito ad una certa mancanza di coerenza critica. Considerammo tuttavia la “Biennale” un’esperieza positiva non tanto per alcuni valori individuali (rari ma innegabili), quanto per il senso di una installazione complessiva, totalizzante. In cui, tutto sommato felicemente, potesse essere registrata una produttiva con-fusione (si noti il trattino), di (dis)misura estetica, e non solo, anche sociologica se non addirittura politica, soprattutto in senso culturale.

Purtroppo, ci spiace dirlo, la felicità di quegli incontri, per noi almeno,si è perduta quest’anno con la 54° edizione. La con-fusione è si è trasformata in vera e propria confusione (senza trattino!). Dopo le consuete maratone all’Arsenale, e il periplo del Padiglione centrale e dei Giardini siamo usciti, appunto, confusi, tristi, disperatamente stanchi... Per inciso per quale motivo (forse per favorire i luoghi interni di ristoro?) sono state eliminate dai Giardini e dallo spazio oltrecanale tutte le panchine?! Quest’ultima può sembrare una osservazione di poco conto, tuttavia non si possono godere a fondo le opere d’arte e i relativi spazi senza un minimo di meditante riposo. Ciò vale, ma non è una novità, anche per l’interno dei padiglioni nel catalogo osserviamo con invidia quella fotografia della sala Klimt alla “Biennale” 1910 in cui comode poltrone favorivano l’osservazione quieta e approfondita delle opere d’arte!

È vero che trattandosi (ormai) di una kermesse, tutto sommato di una fiera, siamo obbligati a viverla zizzagando... ossessivamente, ed è vero, perciò, come si nota in catalogo, che la «Biennale è come una macchina del vento...»: tuttavia il vento «scuote la foresta...» ma trascina anche cumuli di foglie morte... Quest’ultima è la verità che più ci rattrista. Foglie morte: il vento di questa 54° “Biennale” raramente «scopre verità nascoste». Ben poco di quella prolifica con-fusione è rimasto a sollecitare una nostra coinvolta sorpresa. Dovremmo chiamarla, e ancora ci spiace e ci scusiamo, la fiera delle banalità. A cominciare da talune giustificazioni espresse in catalogo.

Banalissimo è il titolo ILLUMINAZIONI . Un ingenuo melange di lemmi (illumina-azioni-nazioni) che fra l’altro richiama un più prevedibile disagio intellettivo: troppo facile il richiamo alle strutture al neon o simili - vecchie di cinquant’anni, come prova il buio spazio attraversato da fili fluorescenti di Gianni Colombo, o le cascate di acqua-luce-suono di Fabrizio Plessi, assai fascinose ma assolutamente negli anni ripetitive. Mentre utile sarebbe stata invece (a proposito di luce) una vasta retrospettiva dal grande valore storico delle ricerche luministico-cinetiche degli anni ’60, del “Gruppo T”, per l’appunto. A sua volta, troppo facile e ovvia è l’idea che l’arte illumini le menti e le coscienze. Cosa dovrebbe offrire, e cosa mai ha sempre offerto l’arte se non questo? Che la luce, inoltre sia un classico tema dell’arte è altrettanto risaputo: e perché Tintoretto e non Tiepolo, o Canaletto (visto che, come si afferma, il tema è «adeguato a Venezia»)? Ma non basta disturbare i grandi classici, a fronte di tanto disordine in-creativo invadente la meraviglia di opere che con questo moderno poco hanno a che vedere (forse ci voleva a titolo di confronto, ma non c’è, Vedova, che sul Tintoretto si è formato...). Ma si evocano anche... ad insaputa (!) di tanti fantasmatici creatori, le Illuminations di Rimbaud: «impetuosamente poetiche»... Che vuol dire? Forse si voleva dire impietosamente, considerato il detto di Rimbaud, Car depuis qu’ils se sont dissipés – oh les pierres précieuses s’enfuissant, et les fleurs ouvertes! – c’est un ennui!

Dissipazione e noia? Non vorremmo (ma fortemente temiamo) che queste condizioni dovessero anche per l’avvenire caratterizzare le esposizioni e le ricerche dell’arte e della critica.

Un esempio tragico, e non per un esagerato comune modo di dire, è il Padiglione dedicato all’Italia! Non è commentabile! Centinaia di opere ammassate senza criterio alcuno come in un deposito di rigattiere, illeggibili in quanto sovente tra di loro mischiate, sovrapposte, arrampicate sulle pareti e appese ai soffitti (!). Decisamente puerile è l’idea di far scegliere i manufatti da altrettante centinaia di cosiddetti, sovente sconosciuti, esperti di varie discipline, anche non artistiche. Non è lecito puntare sull’ammasso ovviamente disordinato di gusti individuali acriticamente soggettivi (e, per essere maliziosi, ma non troppo, dettati da personali amicizie...). L’insieme è chiaramente il prodotto di una acritica megalomania pseudointellettuale, degna purtroppo del regime a-culturale (e non solo) nel quale il nostro paese è precipitato. Anche l’altr’anno il criterio espositivo era stato promosso dal Ministero della Cultura (un novello “Minculpop”!). Se con questa iniziativa si è creduto di rappresentare il nostro attuale disastrato universo culturale e civile, si è perfettamente raggiunto lo scopo! Tuttavia qualcuno (pochi) sa che in giro c’è pure qualcosa di meglio, per l’arte e per l’impegno civile: e lo va dimostrando sovente con azioni volutamente ignorate, underground rispetto alle plateali e insincere e commerciali manifestazioni pubbliche (prive in realtà di pubblico cosciente).

Questa “Biennale” come le altre, lo abbiamo già ripetuto parafrasando dal catalogo, dovrebbe mettere allo scoperto «verità nascoste» e quidi assolutamente innovative nei contenuti e nelle forme.

Per verità non rimane che rivelare ai nostri lettori qualche esempio tratto dai residui frantumati di una civiltà in decadenza (e, ribadiamo, questo è, forse, per l’esposizione, l’unico utile risultato). Ciò senza distinzione fra i diversi padiglioni istituzionali italiani, e stranieri. In quanto, se può essere di consolazione, la disperante situazione è purtroppo assai generalizzata.

Maurizio Cattelan - forse rammentando per contrasto i famosi feroci uccelli di Hitchcock - con le sue centinaia di piccioni impagliati e mortalmente quieti, distribuiti ovunque, non ha dato certo il meglio di sé: desideravamo ancora una volta qualche sua inaspettata e conturbante invenzione. Tuttavia egli stesso in una recente intervista ha espressamente dichiarato di essere stanco di ‘giocare con i pupazzi’, proponendosi di dedicarsi per l’avvenire ad altro. Allora, perché è stato invitato? Non si doveva rimanere in attesa di quell’altro? Guy de Cointent, e parecchi altri, giocano invece con le scritture ripetendo modalità già ampiamente sperimentate dalla Visual Poetry, altra esperienza italiana e internazionale insistentemente ignorata dalla “Biennale”, salvo un casuale modesto spazio di molti anni fa. Peter Fischli e Asier Mendizabal con le loro strutture insistono noiosamente sulla ormai storicizzata “Arte minimale”. Luca Francesconi, e ancora parecchi altri, si divertono (loro!) a mettere insieme a caso gli oggetti più disparati: una bella novità! Sembra che poco ricordino del Dada e del Surrealismo, se non per pigro e stanco epigonismo... Ma questi sono solamente pochi
esempi. Così si potrebbe procedere, purtroppo senza coinvolgimenti... chiamiamoli pure poetico-estetico-emozionali.

E poi fotografie, fotografie, fotografie... più o meno documentaristiche e per lo più assai poco ‘ambiguamente’ creative. E poi l’ormai usuale dominio del Video-tape in stanze funzionalmente oscure. Potrebbe essere la grande novità di questi ultimi decenni (e tecnicamente lo è) se fosse sostenuta da nuove idee e da nuove sperimentazioni formali. Quando invece per ora altro non si vedono, salve rare eccezioni, che ripetitive e banali proiezioni elettroniche, che non fanno che ricordare vecchi filmati. Una interessante realizzazione ci può affascinare fuori dai confini della “Biennale” all’Abbazia S.Gregorio e al Mangili-Valmarana: si tratta dell’esposizione cinese “Future Pass” in cui si possono incontrare deformi e divertenti mimesi della vecchia Pop-art, ma soprattutto esperimenti elettronici tridimensionali con rappresentazioni spettacolari d’epopee mitiche conturbanti, in cui nascono e si sgretolano città e monumenti classicheggianti, e uomini, e naviganti verso l’ignoto, e naufraghi (con la citazione, fra l’altro, della Zattera della Medusa).

Non mancano tuttavia interessanti, seppur rare, installazioni anche entro i confini della “Biennale”. L’omaggio della Francia a Christian Boltanski, doveroso, con le metamorfosi fra nascita e morte in ritratti compositi proiettati dallo scorrere di una lunghissima pellicola mossa velocemente da un invadente castello di marchingegni metallici ruotanti. Tuttavia il visitatore più o meno ignaro non scopre qui il mondo fantasmatico del compianto maestro della Narrative Art. Peccato: a nostro avviso una occasione mancata.

Particolari interessi, anche lirici, sollecitano alcune installazioni d’interni distrutti, smangiati dal tempo, cadenti: resti di una architettura antica, dell’infanzia, nostalgica. Forse è, in parte, una novità sebbene derivi dall’estetica degli avanzi, dei cumuli di resti di cui anche recentemente si è riparlato. Siamo sempre grossomodo in ambiti DaDa, ma con l’arricchimento di una maggiore interiore emozione. Si distinguono alcuni ambienti indubbiamente suggestivi.

Per l’artista Song Dong di Pechino torna utile parafrasare la corretta descrizione del catalogo: «L’opera Enclosure Movement (2011) è una struttura con 100 ante di armadio [che formano un labirinto] recuperate da famiglie di Pechino [con] riferimento all’abitudine di portare in strada vecchi mobili [con tendine e specchi] facendone luoghi di deposito», e ancora riferibili a una povera abitabilità, percorribile, con nostalgia per un morto passato, di stanza in stanza. Così pure Song Dong «ha trasportato la sua centenaria casa di famiglia da Pechino a Venezia». È chiaro in seconda istanza l’intento sociale e anche protestatario, ma l’emozione è piuttosto paragonabile a quella che si prova visitando il mondo scomparso e insieme presente nella memoria di Boltanski.

Mike Nelson trasforma l’interno del padiglione della Gran Bretagna trasportandovi un intero appartamento del tutto inabitabile, stanze, studio, mobili e oggetti domestici semidistrutti e polverosi. Un luogo, anche questo, della morente memoria.

Altrettanto, in fatto di resti, propone l’India con Residue, film del Collettivo Desire Machine che perlustra le ammuffite pareti, e gli interni, di una casa del tutto decrepita e inabitata.

Christoph Schlingensief costruisce all’interno del padiglione della Germania una vera e propria antica cappella ecclesiastica cosparsa di icone pittoriche ed ex voto profani, con un altare che potrebbe intendersi come il tavolo consacrato ai ‘sacrifici’ estetico-memoriali. E con la fragorosa sonorità di brani wagneriani.

Lo statunitense Oscar Tuazon con Reped Land eleva un bunker semipericolante, con pareti composite ad incastro in cemento, che dalle crepe lascia filtrare in un buio cavernicolo conturbanti fasci di luce naturale.

Va ricordata a parte una delle opere sicuramente più straordinarie di questa esposizione: il Ratto delle Sabine, in grandezza naturale e in cera, dello svizzero Urs Fischer: la cera via via si scioglie e cola con un effetto
apocalittico e mostruso, sia con riferimento all’arte, sia in relazione alla nostra decadente civiltà. Utile memoria fornisce il catalogo, citando dello stesso straordinario artista, l’opera You (2007): il profondo ‘cratere’ scavato per lungo e pauroso tratto in una galleria di New York. Gli spazi della “Biennale” si sarebbero ottimamente prestati alla ripresa di quest’opera.

Ma finiamo in bellezza! Alle “Vergini” si scopre uno spazio che entusiasma grandi e sopprattutto piccini: Ho Tzu Nyen di Singapore propone bianche sculture di nuvole attorno alle quali, dal terreno erboso ed acquitrinoso, si sviluppano invadenti fumi anch’essi nuvolosi e nebbiosi. Spettacolare!

In conclusione, qualunque sia il giudizio che, a nostro modesto parere, può essere dato anche di questa 54° “Biennale”, va ovviamente riconosciuto a Lor Signori e a tutti i collaboratori il pregio di un’impresa che, proprio per la complessa e confusa situazione, richiede sicuramente gran fatica e grande sforzo organizzativo. Malgrado tutto, anche se per assurdo dovessimo dire che la “Biennale” è morta, dovremmo aggiungere, evviva la “Biennale”!

Lettera indirizzata al prof. Paolo Baratta e alla prof.a Bice Curiger, presidente e curatore della 54 Biennale Internazionale d’Arte di Venezia.



A Gilberto Isella

Lesa sul Lago Maggiore, 9 agosto 2011

Caro Isella,

sto rileggendo tre delle tue raccolte (Corridoio polare, Taglio di mondo e Wild contact) con l’intento di cogliere quel filo rosso che le accomuna e che ho intuito alle prime letture, riportandone suggestioni non certo sopite dal tempo trascorso. Se non volessi parere troppo audace e pretenzioso potrei dire che mi perito di cogliere i motivi essenziali della tua poetica. Ovviamente la concisa brevità di una lettera non potrà certo soddisfare del tutto la mia curiosità. E non potrà certo soddisfare la tua coscienza (forse, com’è della poesia, talvolta inconscia!) d’autore di raffinata qualità.

La prima più facile constatazione può senz’altro riferirsi ad una visione della poesia e (è la medesima cosa) del mondo, soggettivo e collettivo, tormentata dalla evidenza della contraddizione. In questo rilevi, con sofferenza... creativa, la misura (o dismisura) del tuo e del nostro tempo. Che, purtroppo, talvolta è solo il tempo di una pseudo-poesia la quale, di fronte allo stesso dramma pur vitale, evita la fatica della ricerca per assopirsi nella indigenza di un discorso (appunto cosiddetto ‘poetico’...) banale e falsamente consolatorio – come per altra via nota Giorgio Luzzi nella prefazione a Taglio di Mondo.

La tua condizione poetica affronta invece la realtà, indubbiamente ambigua (com’è naturale) della parola per cogliere la salvezza, se mai sia possibile, nella vicenda primigenia e biologica del dire come verità inspiegata dell’essere. Basti citare alcuni versi la cui coniugazione fra le tre raccolte (o meglio, per interna coerenza, poemetti) si esprime con convinzione di senso a fronte di una volontà appassionata alla rivelazione.

Da Corridoio polare, in “Corsia di resistenza” (titolo quanto mai significativo):

Il disordine è colpo di freddo polare nel polso. / È la grande stazione del nord, il corridoio magnetico. / Lontanissima sostiene un’ala / senza margine, senza riposo o moto. / Non sappiamo se avrà principio / nell’orizzonte che spiove, / spazza via i geli, annuncia / un crocicchio di passerelle.

Da Taglio di mondo, in “Giochi interdetti”:

Mascelle d’aria spolpano la sfinge / che mi ha offerto e in lunghe pompe / vuote va a sperdersi il mio io, / Signore, anche la manna prevedibile / ritorna rotta al suo cielo. // In un angolo d’io bisbiglia / la biscia, / contro maglie di sabbia / ha gli scatti dell’angelo / da non rivelare.

Da Wild contact, il viaggio a New York, con i caotici, gestuali, tragici segni tracciati da Renzo Ferrari, e le fotografie disperate e disperse di Dario Ghisletta: Gli spilli / esplosi in mille gialli riflessi / litigano e si scarmigliano / in Wal Street / come scheletrini di Haring // l’indecifrabile è grido che lacera / la bella lady Liberty / caduta in una pressa d’immagini / il contatto selvaggio / e il gorgo albuminoso [...] / nel vortice dentro un altro vortice [...] // spilli di fuoco gettati da una sponda / all’altra sponda del magnifico River

La trama del linguaggio registra il passaggio, naturalmente traumatico, dall’impressionismo dello sguardo all’espressionismo della constatazione – e in (dis)armonico connubio s’intrecciano, per l’appunto, le fotografie di Ghisletta e le pitture di Ferrari. Per parafrasare arbitrariamente il detto dei semiologi si può dire che prevale una funzione combinatoria, volta alla nascita di un unitario enunciato. La frantumazione disordinata degli oggetti (il freddo polare, la manna, la biscia, gli spilli, gli scheletrini...), l’apparente insensatezza delle loro nominazioni, prima si confondono in un colpo di freddo, in un gorgo albuminoso, poi attraversati i diabolici gironi (l’incertezza del principio, la minaccia della biscia, l’ambiguità dell’angelo, l’indecifrabile lacerante grido),
rivelano visioni complesse e complessive che si coagulano nell’unità... vorrei dire... di una catarsi, se non dovessi arrischiare un antico luogo comune. Così, infine, si gettano passerelle, si intuiscono, seppur non rivelabili, gli scatti dell’angelo, si guarda comunque all’altra sponda del magnifico River. Ma non voglio, ripeto, che mi si fraintenda attribuendo, già l’ho deprecato, all’incerta speranza una proposta consolatoria – nemmeno apparente, valutato il processo linguistico svolto in continue transizioni, di verso in verso, di enjambement in enjambement. Di simboli in totalizzanti simbologie.

Ma non voglio nemmeno arrendermi – affermando una mia convinzione comprovata dall’icasticità delle immagini in questi tuoi testi – alla concezione simbolica o metaforica della poesia: quelli che tu crei qui sono universi di parola tangibili, autonomamente conformantisi in presenze scenografiche che sovente si colorano di conturbante tragicità (Wild contact): [...] dieci dollari appesi al myosotis / a un metallico stellare scongiuro, // bestie da soma accorrenti / e sterminate ogive nello spazio, // oh, Broadway!

Le ogive nello spazio (al di là di un certo stile architettonico newyorkese) sono oggettivamente il disperante gotico dramma delle megalopoli in cui si rivela senza tregua l’ipocrita menzogna di una progressista modernità. Ogiva, per la verità, viene etimologicamente dall’arabo al giubb, che significa pozzo. Le bestie da soma accorrenti in dannati, profondi, oscuri, paurosi gironi danteschi?

Di grande coinvolgimento si dimostrano gli inserti in prosa di Corridoio polare. Ai quali più che mai appropriatamente si riferiscono le memorie di Vincenzo Guarracino nella postfazione: «[...] la dolente presa d’atto della complessità e dismisura di un “reale troppo reale”, prigioniero della propria ferrea e invincibile necessità “spinoziana”, da catturare e rappresentare per forza metonimica e visionaria di scrittura, nella drammatica ripetitività di una notturna battaglia con i propri fantasmi di inquieto Polifilo». Importante l’accenno alla figura della metonimia di contro a quella (che alla poesia ho prima negato) della semplice metafora come similitudo brevior: in questa tua materia poetica si dà non tanto un trasferimento bensì una contiguità materiale fra oggettività e traslazione. Il che vuol dire che la parola poetica, questa tua parola poetica, non trasferisce alcunché poiché è in sé, formalmente, l’unica realtà (o verità, per quanto possibile) costatabile. La sua forma è la sua verità: il veleggiare del tutto, il tutto-vela / E dove si annoda vela a vela. In “Capitoletti”, di Corridoio polare.

Ciò è garantito dalla verità del sogno. La visionarietà evoca i paesaggi e i personaggi di una mitologia personale e tuttavia universale quando al fiorire della leggenda [dei] miei avi si susseguono, secondo la tua accettazione delle contrapposizioni, i primi rintocchi del mio autunno nella campana, il rimboccarsi / di una basilica inghiottita... Tuttavia l’accettazione, secondo una legge del destino comune, non è spontanea come testimonia l’incipit di questo passo che racconta la vicenda onirica: oggi mi hanno di nuovo condotto fuori... Ti hanno portato alle acque che sgorgano da una genesi atavica, conducendoti ai bacini più sereni, oltre i quali tuttavia ci si approssima alla basilica inghiottita. Ti hanno portato a questo punto, ci hanno portati alla conclusione di una dialettica vitale senza riserve: Là dove sta, fitta d’ombre, la casa, / quel piccolo strapiombo / sotto la finestra / basta a inquadrare la fine [...]

“Giochi interdetti” in Taglio di mondo.

Certo, molte altre cose vanno dette leggendo questi tuoi testi, e in parte bene le hanno dette Guarracino e Luzzi. La mia modesta lettura altrettanto parziale, anzi parzialissima, ha semplicemente cercato di cogliere il senso più evidente del tuo discorso poetico: vale a dire l’interiore riconoscimento della parola come pietra di paragone e insieme di contraddizione.

[si veda anche Mappe in controluce uscito da poco]

Lettera inviata a Gilberto Isella con riferimento alle sue raccolte di poesia Corridoio polare, Book Editore, Castelmaggiore (BO) 2006; Taglio di mondo, Manni Ed., Lecce 2007; Gilberto Isella, Renzo Ferrari, Dario Ghisletta, Wild contact, Anaedizioni, Lugano 2007; Mappe in controluce, Book Editore, Casalmaggiore (BO) 2011.



A Silvio Aman

Lesa sul Lago Maggiore, 26 agosto 2011

Caro Silvio,
coinvolto come sono nella vicenda umana e poetica (la stessa cosa!) di Robert Walser, da te avvicinata con tanto amore e tanta sapienza, non posso sfuggire alla urgenza di rammentare Ariele, quei versi che già, con superficialità tuttavia convinta, definii in una precedente lettura “arcani per loro smisurata misura”. La medesima dismisura, arcana appunto, che segnala il passaggio dell’incantato e ambiguo (della preziosa ambiguità della poesia) pellegrino di Biel:

Se fossi un bosco, tu, / E nel suo folto un’anima, / I suoi fruscii pensosi... in cui si preannuncia lo sposalizio con la natura ombrosa, e l’aura fluente della lode “Rheindampfer”:

Vorrei lodarti, o fiume, / Tu che consumi la mia chiglia rossa / A cui fan peso queste varie scene, / Senso nutrito da più rami affluenti...

Mentre in “Aliénor” l’attenzione viene rapita dalle cose minime, dagli oggetti della memoria ritrovati sulla via del ritorno - un andare, un ritornare senza sosta, tuttavia nella quieta predisposizione al rapimento sottolineato da una metrica rigorosa e da una distensione ritmica, vitali in una fanciullesca smaniosa angoscia:

Tornavo nella casa in cui le stanze / Erano quiete e piene: / Dei mobili in ciliegio, / I vasi colmi d’acqua con le dalie, / I piatti azzurri appesi / E dentro l’aria argentea l’ombra / Di una smaniosa angoscia...

Quiete silente e smania amorosa e nostalgica, tuttavia nell’ansia di una avventurosa ricerca – ecco l’eterna giovinezza:

Non so perché, / Se sia per questa luce obliqua / O per gli specchi argentei... / Guardando il quadro del veliero / Che non scorgevo prima / Ormai perduto in fondo all’abitudine, / Quello che il nonno prese un giorno a Londra /... /... Andrò con lui, il nocchiero, / E a Delfi gusteremo sopra il vello / I nostri giorni d’oro...

Si coglie senza dubbio in Ariele, pur nella sua assoluta originalità estranea a qualsiasi epigonismo, la ragione raffinata, sottile in parte nascosta, del tuo appassionato amore per la scrittura e per la presenza errabonda, la sapienza innocente (tutta una vita come ossimoro) del poeta svizzero.

Il Robert Walser che tu ci doni con il tuo lungo saggio, insieme biografico e poetico, è infine ben più, come dire, ‘espressionista’ di quanto la sua disposizione fisica tout court e il suo eloquio narrativo, privo di ogni accidente esteriore, possano a prima vista far pensare. Ciò in quanto la vita e la scrittura di Walser vanno infine sotto il segno della (prolifica) contraddizione fra quiete boschiva e smaniosa angoscia... Nel culto perpetuo e quasi mistico dell’«istante», come ben precisi da qualche parte del lungo saggio. Un istante che si sposta senza sosta di luogo in luogo, di tempo in tempo. Fino al definitivo ultraventennale stanziale silenzio di Herisau. L’agognato e tormentato luogo della pace, infine? O della rinuncia? Avrà avuto intima coscienza che il tutto e il contrario di tutto conducano al deserto del nulla? Pervasi come sono il suo spirito e il suo corpo dalla stanchezza di una ricerca che, per l’appunto, si propone, sì pacificante – soprattutto nel matrimonio quasi panteistico con la natura –, mentre in verità è intimamente sempre turbata. Anche quando sia alleggerita da una felice (sorniona eppur giudicante) ironia: comunque, mai travolta dalla tragedia.

Ironia che trova, secondo quanto sottolinei, la maggior sottile evidenza, persino nelle sue incertezze ossessive nella scelta del vestiario, fra volontà di mascheramento, dandysmo e disposizione persin dionisiaca (citi a proposito un passo di Gianni Vattimo). Fino alla totale rinuncia, velata di indifferenza, nel dichiarare di sentirsi a suo agio solamente indossando l’uniforme, militare o di Commis.

Ed ecco un altro atteggiamento contraddittorio! L’uniforme lo acquieta, tuttavia non grazie alla sua... ‘uniformità’, bensì in quanto la posizione servile gli dà la possibilità di trasformarsi astutamente e di disobbedire, senza darlo a vedere esplicitamente, all’ordine padronale. Walser, seppure in giovinezza anche socialista, contrario comunque alla rivoluzione clamorosa, plateale, attiva un atteggiamento decisamente rivoluzionario. Eversivo. Fra sincerità e menzogna astuta. E i suoi personaggi, che sempre, seppur con abile distacco di scrittura, si rivelano autobiografici, fanno nascere una popolazione di (per altro incerti e tormentati) rivoltosi.

È interessante citare la conclusione della tua “Premessa”: «Nella mia ricerca ho cercato di interpretare l’andamento metamorfico che di volta in volta ci offrono i personaggi walseriani, le loro curiose pratiche di ringiovanimento, l’ambiguo rifiuto delle regole, il misticismo e una generale tendenza a “non agire”, che li avvicina al tao».

Ma infinite altre suggestioni nascono dalla acribia della tua analisi psicologica e testuale della vita, della scrittura e delle sue origini, e analogie letterarie di Walser.

Va innazitutto sottolineata la tua coltissima capacità di cogliere i rapporti storici e testuali con i protagonisti, più o meno coetanei di Walser, della letteratura e della poesia (nonché della critica) francesi e tedesche: da Baudelaire a Eliot, a Hofmannsthal, a Mächler, a Jean Paul, a Mann, a Musil, a Nietzsche, a Proust, a Rilke, a Seeling, e così via, per risalire a Goethe e a Rousseau, e privilegiare e discutere numerose ‘scoperte’ di Freud. A ciò si aggiungano gli studi puntuali su Walser di critici tedeschi e italiani e le tue appropriate e chiarificatrici citazioni. E l’apparato di note ricchissimo di particolari a sostegno del generale discorso.

La tua scrittura è fluente e appassionata, seppure nel rigore critico-storico. E felice è la tua intelligente scelta di non farti ingabbiare da cronologie biografiche che arrischierebbero di togliere fascino ai corsi e ricorsi della vita e della poesia di Walser. In questo senso sono peculiari la ricerca e la scrittura ai capitoli I (“Un calligrafo a passeggio”), V (“Il bosco”), VI (“La Natura”), VII (“Il culto dell’eterna giovinezza”): lo stile del tuo ‘racconto’ si appaia al nomadismo talvolta sonnambolico di Walser, coinvolto nelle luci e ombre del bosco inteso come luogo delle rivelazioni colloquiali, minimali e metafisiche, della natura. Quella natura, e i suoi fantasmi platonicamente amorosi, che stimola il continuo risvegliarsi della giovinezza e delle sue ingenuità altamente poetiche.

Molte altre cose si dovrebbero aggiungere: mi piace rilevare comunque che fra misurata creatività poetica e amorevole sapienza critica questa tua stagione fra il 2009 e il 2010 è quanto mai prolifica e appassionante per te e per i tuoi lettori.

Lettera scritta a Silvio Aman, in relazione ai suoi volumi Robert Walser, il culto dell’eterna giovinezza, Casagrande ed., Lugano-Milano 2009; Ariele, Moretti & Vitali, Bergamo 2010.





A Rosa Pierno

Lesa sul Lago Maggiore, 20 settembre 2011

Cara Rosa,

sto leggendo Musicale, Trasversale e Coppie improbabili. E non potrò fare a meno di rileggerli molte altre volte, ogni volta con la maggior acribia possibile, perché, sebbene si tratti di plaquettes non eccessivamente voluminose, racchiudono universi di idee e di visioni immisurabili. Se vogliamo riprendere il senso, ormai proverbiale, fors’anche di maniera, di opera aperta ne abbiamo ora un’occasione imprevedibile, perciò rarissima. Direi unica, almeno per me e per le mie più recenti occasioni di lettura.

Voglio scriverne qui in forma di lettera poiché confido che la rivista “Testuale” – delle cui attuali difficoltà ti ho forse già detto – riprenda al più presto il suo corso quasi trentennale, concedendomi l’opportunità di pubblicare queste mie – per ora necessariamente concise - considerazioni nella rubrica da me curata, Letterale.

Forse è troppo comodo e banale iniziare con due citazioni, in sé estranee (almeno in apparenza) alle tue tensioni creative (poesia? arte? filosofia? scienza?), ma per quanto riguarda la tua intrattenibile misura scritturale, almeno per le mie modeste conoscenze, del tutto pertinenti.

La continuità stilistica e aperta, per l’appunto, di queste tue coinvolgenti (e sovente sconvolgenti) proposizioni è paradossalmente sostenuta da una dizione fortemente cellulare, paratattica, gnomica, che va, in completezza definitoria di significato (proprio nella sua complessità e metamorfosi) dal particolare all’assoluto. Meglio, poiché metti in discussione propriamente gli assoluti, dalla parcellizzazione alla intrinseca totalità.

Quando enunci, solamente per fare un minuscolo esempio: ... La permutazione della sequenza non arricchisce il contenuto, perché, dico io, di per sé è totalmente ricco - esprimi un concetto circoscritto quanto aperto nella sua strabordante natura. E subito dopo, senza ricorrere (non ce n’è bisogno) ad un rapporto di subordinazione (ipotassi) esprimi un altro autonomo senso, direi teleologico: ... Le inevitabili minime equivalgono alle evitabili massime – concetto che può equivalere a sua volta al detto di Borges: «... nei giochi d’azzardo le cifre pari e le dispari tendono all’equilibrio...». Vale a dire al nulla. Allo zero. La raccolta Musicale suona come una serie di appunti, e per stare al tema appare propriamente seriale.

Ti avevo promesso una citazione – anche se tu non ne senti probabilente il bisogno. Mi riferisco a certe sequenze di Duchamp nelle note per La Sposa: «... Pittura di precisione, e bellezza d’indifferenza»... «Solidità di costruzione... »... «Uguaglianza di sovrapposizione: le dimensioni principali di assetto generale della sposa e della macchina celibe sono uguali». Ecc. E – perdonami - ancora ti tormento (!) con una impressione di André Weil: «... Osservando da lontano, al tramonto, i raggi del sole intersecarsi nelle valli, mi venne l’idea della composizione su più piani. Bisogna sforzarsi di scrivere – pensai – in modo tale che, dietro il soggetto immediato, in primo piano, la mente del lettore sia guidata verso un secondo piano, e di qui verso altre prospettive ancora più distanti...».

Grazie a questa tecnica (che non è solo uno strumento, bensì una sostanziale visione delle cose, dei mondi e dei tempi) si sviluppa in Trasversale la capacità di coordinare, senza illusoriamente superarla, una sempre viva congiunta contrapposizione tra filosofia, scienza e poesia.

Quando, per esempio, commentando Descartes osservi che ... unico sapere si dispiega dai libri e tutti i libri formano un unico mondo naturale... la vera filosofia dipende dall’intelletto e la vera matematica dall’immaginazione... Tanto che ... la matematica dischiude porte, mette in ordine gli scaffali, mostra che le cose sono fatte della medesima struttura a cui pure la poesia si accorda in virtù della forza dell’immaginazione.... E, per inciso, si può riprendere il pensiero di Weil sull’estetica dei numeri. Sebbene ... nessuna metafisica alligna nelle forme. E ciò è vero in quanto ... Amore è chimica colloidale e ... la durata dell’amore è data dalla volontà di rimanere in tale stato...

La tua capacità stilistica apre rigorosamente ad una valenza d’intima impressione (oltre ogni artificiosa pretesa saggistica di maniera) in Coppie improbabili. I paradossi, o gli ossimori che nascono dall’osservare, in coppia, gli autori e le loro opere denotano l’esperienza interpretativa di un viaggio avventuroso e rischioso fra le dismisure dei segni. Incontri e scontri. Convinzioni e, prese dal paragone, illusioni visive che trovano comunque le loro giustificazioni quando si guardi al di là delle materie segniche, per cogliere certe manifestazioni di unità fra gli universi apparentemente più lontani.

Mettere insieme in Luce e Ombra Giovanni Battista Piranesi e Francesco Guardi significa convincerci che, tra rovine e scritture architettoniche il misero figurante... l’uomo fuori di scala... fra le pietre a misura di gigante è schiacciato sotto la pesantezza petrosa, ombrosa, delle rovine di una storia che non è frutto di architravi e prospettive, bensì di sofferenze vissute nell’indifferenza - in Piranesi. Come in Guardi, di contro, la sommossa passione del vivere si risolve nei ciechi pensieri degli uomini che appaiono, certo inconsciamente, nei riflessi del paesaggio lagunare.

Viviamo quindi, fuori dagli ingannevoli resti della storia, in una verità incomprensibile nella sua ambigua specularità?

Così come fra Théophile-Alexandre Steinlen e Félix Vallotton l’evanescenza sentimentale e sensuale del disegno, fra amori e mutilazioni, sconsolatamente si consolida infine nel netto contrasto fra il bianco e il nero,
senza medietà... luce e ombra senza gradazioni. In cui la scoperta di una umana ospitalità offerta nella notte da Steinlen, si irrigidisce nel nero magma di Vallotton, dai fiori senza profumo.

Una sorta di conversazione tra le forme e i segni che le evidenziano, si contraddicono e, paradossalmente, si amalgamano: vale per Degas e De Pisis..., per Afro e De Staël..., e per altri ancora, antichi e moderni...

Impossibile, leggendoti e rileggendoti, confidare in una sintesi rassicurante: l’emozione mai priva di razionalità, condotta per mano – mano sapiente – attraverso i rigorosi, perciò sempre credibili, aforismi, seppure sovente contraddittori, ci riporta inesorabilmente alle dubbiose verità (ancora un ossimoro) del reale che viviamo... in sogno!

Scritta a Rosa Pierno in relazione a Musicale (ed. “Cierre Anterem”, Verona 1999); Trasversale (ed. “Anterem”, Verona 2006); Coppie improbabili (ed. “Pagine d’Arte”, Tesserete – Svizzera, 2007).