Rosa Pierno
Roland Barthes “La preparazione del romanzo” Vol. I, Mimesis, 2010

Roland Barthes ne La preparazione del romanzo, Vol. I, Mimesis, 2010, mette a punto una teoria per il rilancio del romanzo. Il fatto che lo faccia a partire dal trauma per la morte dell’amata madre, dalla volontà di scrivere personalmente un romanzo, dal progetto di darsi una nuova esistenza in quanto soggetto scrivente modifica le sue storiche preferenze: quei romanzi che hanno come oggetto centrale la memoria (La ricerca del tempo perduto di Proust, Guerra e pace di Tolstoj). Racconta di sentirsi affetto da una bruma che cancella il suo passato costringendolo in un immobile presente; inoltre, e non è zavorra di poco conto, non riesce a concepire alcunché di estetico che non sia strettamente connaturato all’etico. A partire da queste tendenze, indaga la sua passione per l’haiku, da esso cercando di trarre ulteriori passi definitori per scrivere il suo romanzo. Ma non ci si faccia troppo affascinare dalla biografia dell’autore, che nel frattempo con una certa crudeltà ha disseminato il tavolo da gioco di veri indizi:  si delinea la seguente questione capitale, la morte del romanzo. Dopo Proust, il genere parrebbe essere in disuso, non solo inviso agli addetti ai lavori, ma soprattutto non frequentato dai lettori. Ecco la vera posta in gioco: ridefinire nuovo regole per il genere romanzo al là della sua struttura classica. A tal fine, Barthes cita il testo di A. Compagnon, poiché «attua una scenografia che mette il testo in prospettiva, e l’autore ne è il centro”, e in cui “Note, tavole, bibliografie, ma anche prefazione, avant propos, introduzione, conclusione, appendici, annessi» sono le rubriche di una nuova dispositio.

Tutto il testo si configura, dunque, come uno studio sull’haiku, poiché abbiamo a questo punto compreso che sarà esso, pur se componimento brevissimo, a fornire le coordinate per la nuova forma del romanzo. L’haiku fotografa «un elemento trattenuto dalla vera “realtà». Vale in quanto metodo, nel senso in cui nessun soggetto vi si dichiara, ma nemmeno vi si censura: «congiunzione di una “verità” (non concettuale, ma dell’Istante) e di una forma». Forma come manifestazione di verità. Ciò è appunto il portato che l’haiku traghetta nella nostra cultura, «malgrado tutte le distanze della lingua e della struttura poetica (5+7+5)». La difficoltà infatti di traduzione e di comprensione della sua metrica («non vi è un ritmo in sé: tutto il ritmo è civilizzato») consente di concentrarsi sul fatto che l’haiku ci interessa «per la sua dimensione, la sua tenuità, cioè metonimicamente, per l’areazione che dona allo spazio del discorso».  Il componimento, «libero dalle divisioni superficiali del discorso corrente», divelle le partizioni, attuando «il rapporto della grafia e della pittura orientale, coi suoi particolari spazi vuoti.

Naturalmente, la lingua giapponese non conosce le categorie kantiane dello spazio e del tempo“, ma quelle  –  che le attraversano – dello Spaziamento e dell’Intervallo: “MA”, il quale implica ”anche una pratica del tempo spaziato”.  In ogni caso, l’haiku non è mai separabile dal mondo come dalla bellezza. L’impotenza o la difficoltà di spiegare il motivo del piacere che esso ci procura coincide con il grado zero del commento: l’indicibile è “«il non poter dir niente, che si oppone al niente da dire».  E, per inciso, che esso coinvolga tutti i giapponesi in una passione che non distingue i fruitori dai consumatori, come era, per noi occidentali, ancora la musica fino al Romanticismo, spinge Barthes a chiedersi perché non accade la medesima cosa in Francia, facendogliene individuare i motivi nell’assenza di una forma metrica («la poesia francese è stata costretta ad alleggerirsi, per mantenersi in vita, attraverso l’abbandono del metro, del codice»); e nel fatto che le parole-referenti usate nell’haiku in Francia sono divenute arcaiche, non poetiche (i passeri, le foglie, i fiori).

La raffinata analisi condotta sull’haiku prosegue senza tralasciare nessuno dei suoi aspetti. L’haiku «Non è un genere definito topicamente attraverso una tipologia  di soggetti, anzi vi agisce una “quintessenza della soggettività, ma non è “l’autore”». Esso si sottrae inoltre a qualsiasi classificazione: il libro che raccoglie gli haiku «è un libro che può essere aperto a caso, in tutti i sensi» e inoltre «non vi è nessun legame possibile tra due haiku». Anzi, nello stesso componimento o nell’accostamento di due, il senso vi appare non legato: c’è una «co-presenza ancora molto difficile da pensare»: non metonimica, non antitetica, non causale, in «una successione senza logica» e che tuttavia non significa distruzione della logica.  Questa neutralità del senso porta alla necessità di non dover spiegare l’haiku, forzandola, infatti, si mancherebbe in ogni caso il Desiderio (del Piacere), non essendoci un ultimo grado della spiegazione. In Barthes sono frequenti i riferimenti indiretti alla teoria freudiana che vede nell’opera artistica l’atto del velare, dell’occultare. Ancora a Freud, si riferirà nel parlare di «Indiretto» come della “via stessa di comunicazione, di manifestazione dell’Essenza».  Ecco, dunque, oramai pienamente definito il passaggio tra l’haiku come forma di vita alla forma che «la costituisce a posteriori in ricordo e che appartiene alla volontà scritturale di Barthes, al suo progetto di romanzo.  

Nell’haiku, in aggiunta, «si legge l’effetto, e non il paesaggio, pressoché inesistente: un grammo di referente, una diffusione potente dell’effetto». Lo studioso francese assume l’haiku come strumento con cui sfidare l’Occidente nel suo stesso cuore: vuole un soggetto che non sia screditato, ma afferrato nel suo attimo presente e già per questo perso, predisposto com’è ad essere ricoperto dal momento successivo.  È il soggetto preso nel suo momento particolare che se schiude al generale, non lo fa, in ogni caso, per sottoporsi al genere, ma per risiedere nella specie. Tale soggettività non viene mai ghermita come generalità, come cosa uguale a sé,  non essendo peraltro nemmeno la somma dei suoi stati particolari (di cui non si serba memoria). L’individuale sarà il Particolare, da qui l’insistenza di Barthes sulla meteorologia: istanti percepiti nella loro unicità (investimento individuale estetico  nella Stagione), ove la soggettività è definita come punto mobile, aprentesi all’ambivalenza o alla dialettica della individuazione. Ben si vede che per Barthes  questo è il punto focale dello scontro fra le due civiltà: l’Oriente e l’Occidente, mai direttamente nominate, ma chiamate in causa dal rifiuto della classificazione, delle specie schiacciate nel genere, dell’appiattimento delle forze di individuazione e delle differenze.   Un soggetto dunque che si disfa, che si polverizza nel susseguirsi degli istanti percepiti sotto l’egida del pensiero taoista, contrapposto alla metodologia della classificazione aristotelica.

Egli si appiglia al concetto di nuance «per designare una scienza delle sfumature e dei colori cangianti», in particolare nuance come differenza, in lotta contro ciò che la circonda, e che tuttavia possiede una sorta di spazio interno, intimo, tranquillo e uniforme, grazie al quale «tutto è come presente nella nullità». L’obiettivo è quello di «svuotare, estenuare, far morire lo shock (il suono) a beneficio del Timbro», chiamando in causa Mallarmé, Blanchot, Artuad e Cage, quest’ultimo per l’assimilazione tra suono dell’istante e haiku, e individuando solo nel raggiunto silenzio del linguaggio l’esistenza pura. Tant’è che Barthes tenta di istituire un’equivalenza tra haiku e silenzio.

Ma, ancora contro Aristotele, sembra levarsi la notazione che «Nessun haiku  tratta una generalità e, di conseguenza, il genere haiku è assolutamente purificato da qualsiasi processo di riduzione». Il critico francese rintuzza che da noi, in Occidente, persiste «una resistenza al Particolare, una tendenza al Generale: gusto delle leggi, delle generalizzazioni, gusto del Riducibile, voluttà di eguagliare i fenomeni invece di differenziarli all’estremo», mentre, l’haiku non generalizza. Sorvolando, poi, sul fatto che la correlazione istituita temporalmente tra due fenomeni, astrae dalla molteplicità della vita. In ogni caso, ci sembra mal riposta fiducia asserire che l’haiku contenga in misura maggiore l’effetto di realtà, registrando la contingenza. Che il soggetto, il quale «non esiste», «non può definirsi soggetto»,  venga poi legato per questa scorciatoia a ciò che della contingenza sopravvive in un haiku, a causa del «contorno fuggitivo e mobile», non fa che immolarlo alle circostanze, piuttosto che a dei referenti. Nulla di tetico dunque, soltanto “contorni”. In aggiunta, ancora cavalcando strumentalmente l’haiku, Barthes se ne serve per distruggere definitivamente la forma lunga del romanzo.

Riduzione che tocca anche alla percezione, poiché quest’ultima è parola usurata in Occidente, tanto che si profila necessario darle una verniciata di “stile zen”: “Qualche cosa cade. Non è niente altro” e la parola farebbe vedere proprio mentre svanisce. Barthes avverte che la forma lunga di Proust e la forma breve dell’haiku s’intersecano attraverso la sovradeterminazione dei piaceri e la moltiplicazione delle nuances sensuali, («ma nulla di fronte ad un hakuista») e si chiede perché la sua cultura non lo abbia preparato alla forma breve.  Debole appare anche la sola attribuzione all’haiku delle caratteristiche di tenue commozione, di desiderio, di Neutro: «vale a dire sospensione dell’Effetto, dell’Enfasi, dell’Arroganza». Sebbene l’haiku tratti con pudore il tema amoroso, «tacendo proprio l’amore», rifugga dallo stereotipico dell’importante e   dall’ideologico, restiamo in ogni caso sempre all’interno della scrittura, con tutto ciò che questo comporta, anche quando Barthes indica che l’haiku è «consenso a ciò che è», perché «il Neutro si dà in una posizione di quasi-assenza, con un effetto di non-effetto».

Ora l’«effetto di realtà», che sta a cuore a Barthes, e che viene raggiunto con «la sparizione del linguaggio in favore di una certezza di realtà» viene indagato confrontando il suo funzionamento con quanto accade nella fotografia, anche se si ha la forte sensazione che qui le pale del mulino girino a vuoto. Ammette che non siamo ancora in grado di «definire la specificità dell’immagine fotografica»,  per la quale lui propone il noema: «È stato!» attraverso il quale pensa di riuscire ad accostarla all’haiku. Così ciò che ha avuto luogo (contingenza) si congiunge a una trascendenza, e qui Barthes reintroduce ciò che malamente aveva escluso. Nell’haiku sarebbero ora presenti «l’effetto astratto e tuttavia vivente». Tuttavia, la trascendenza non si dà senza il generale, che era proprio ciò che l’autore voleva tenere fuori dalla finestra.

Questa deposizione del linguaggio, porta il critico a definire la poesia come «il linguaggio del Reale» nel momento in cui  il reale è espresso con precisione da un haiku: la metrica  vi «incontra una certa particella della realtà e l’arresta». L’haiku non è descrittivo, impedisce l’interpretazione, è contrario alla necessità «di dare un significato alle forme, non c’è istanza di verità»,  «non salta nel simbolo», nulla di metafisico. L’haiku propende a «Dire che non si può dire». L’interprete Barthes afferma che preferisce l’haiku perché azzera l’interpretazione: ecco qualcosa di veramente paradossale! Se «la verità è nella differenza, non nella riduzione» e non ci può essere una verità generale, allora da che cosa sarà data la differenza se non nell’interpretazione? La spirale vichiana presa in prestito dallo studioso d’oltralpe per significare allargamento comporta differenziazione e d’altronde come si potrebbe rilevare differenza senza commento e dunque interpretazione? Ricordiamocene: siamo all’interno del linguaggio! E se anche Barthes volesse ridurlo fino al silenzio, il dispositivo scelto (l’haiku) non gli consentirebbe di fare uso poi della differenza, legata a doppio filo sia al particolare che al linguaggio, evitando le secche dell’interpretazione.  Se per lui il superamento della metafora, il cogliere la naturalità della cosa è «l’accesso alla Differenza - cogliere, cioè, in ogni cosa ciò che differenzia ciascuna dall’altra», senza che vi sia una verità generale, conducendo più dalla parte dell’eternità, stabilità, ritorno, che dalla parte dell’attimo - ciò porta di nuovo sulla sponda del trascendentale, anche se lui contestualmente afferma che lo scopo dell’haiku «è d’imporre silenzio a qualunque forma di meta-linguaggio». Va da sé che Barthes ha come bersaglio anche le forme antitetiche all’haiku: il concetto, l’idea, l’essenza, la rappresentazione ideale di un rapporto nascosto. 

Alla fine di questo tour de force, Roland Barthes si ritrova a dover mettere a punto il trasbordo delle caratteristiche dell’haiku all’interno di una forma lunga e naturalmente passa per le forche caudine di un Joyce che aveva già sperimentato un’ineccepibile forma analoga, sebbene non approdando al romanzo. Avanzo, personalmente, un’ipotesi: che né in Occidente né in Oriente si siano mai sviluppate forme manichee, ma forme integranti anche gli aspetti che erroneamente attribuiamo a una sola delle due civiltà in maniera mutuamente esclusiva.