Sergio Noia Noseda
Origini della scrittura araba

 

Il prof. Sergio Noia Noseda è stato uno dei massimi arabisti italiani a livello internazionale. Conoscitore dell’arabo, dell’ebraico e di molte altre lingue antiche e moderne ha insegnato in particolare alla Università Cattolica di Milano.  Nato a Pola nel 1931 è morto nel 2008, in seguito all’investimento da parte di un furgone, a Lesa, davanti al cancello della sua villa. Quando per ricerche e conferenze  non si trovava all’estero (Arabia, Egitto, Siria, Iran, Iraq, Israele… e presso diverse Università europee e statunitensi) abitava appunto a Lesa nella ottocentesca villa Noseda che vanta uno dei più maestosi e spettacolari parchi della sponda piemontese del Lago Maggiore. Ebbi modo di conoscerlo, e di godere poi della sua amicizia, in occasione di una sua conferenza sulla scrittura araba. I contatti negli anni si moltiplicarono anche in relazione ad una mia pubblicazione (La ragione poetica, Mursia 1994) nella quale mi riferivo in generale alle ipotesi sulla nascita della scrittura tout court. Egli mi donò alcuni suoi appunti in bozza relativi alle origini della scrittura araba che dovevano far parte di una ben più ampia trattazione, documentata da una imponente bibliografia: Note esterne in margine al primo volume dei “Materiali per una edizione critica del Corano”. Non poté iniziare quella edizione critica, che doveva essere la sintesi e il punto di arrivo di tutta la sua vita – oltre ai numerosi volumi che aveva pubblicato sulla storia della letteratura degli arabi e sulla loro civiltà –, a causa della sua morte accidentale. Ho pensato che, a cinque anni dalla scomparsa, il breve stralcio che segue possa interessare i lettori di “Testuale”, ricordando con affetto l’autore tanto prestigioso e generoso.                                                                                                                                                                                                                          (Gio Ferri)

 

Sono note le due affemazioni di Abu Bakr e di Zayd il figlio di Tābit in risposta a chi propose di raccogliere per iscritto il Corano: «Come? – disse Abu Bakr a Omar – vuoi tu fare qualcosa che l’Inviato d’Iddio non ha fatto lui stesso!» e «Per Dio! Com’è che volete voi fare una cosa che l’Inviato d’Iddio egli stesso non ha fatto?». Alla luce dei nuovi studi è molto probabile che le due frasi non vadano lette come da 1500 anni si fa con pedissequa monotonia nell’ecumene mussulmana e nel nostro mondo, vale a dire un rifiuto o comunque una sorpresa focalizzata al testo della Rivelazione, bensì, più genericamente a mettere per iscritto un testo di tale importanza, di tale dimensione e soprattutto di tal genere.

L’esame del notevole materiale oggi a nostre mani rispetto a cent’anni fa, scritto in arabo nei tempi dell’’ignoranza’ e nei primi tempi dell’Islàm, mostra che gli arabi ‘sapevano’ indiscutibilmente scrivere. Ciò che appare, ed è ciò che a noi importa, è che ‘non volevano’ scrivere. Questo atteggiamento negativo non esisteva in generale ma era specificatamente diretto verso tutto ciò che potremmo definire un’’opera lettraria’. A volte, tuttavia, mi è capitato di paragonarla questa predisposizione, al disprezzo di ogni nobile o sovrano dei tempi passati nei confronti dei dettagli burocratici dell’amministrazione delle sue proprietà terriere!

Sul ‘saper scrivere’ non vi sono dubbi: per centinaia di volte il Corano usa la radice ‘scrivere’, ma è interessante notare qual è l’oggetto di questo ‘scrivere’. Da un lato la sfumata visione di «scritture celesti» come si legge nel Corano, ma nella realtà quotidiana esclusivamente ricevute e patti per così dire contrattuali.

Parrebbe quindi un rifiuto a voler ‘scrivere’ ogni opera letteraria, ovvero, questo è il punto, ciò che era immaginifico e vivo, in particolare la poesia.

Manifestando quel disprezzo si potevano psicologicamente seppellire, in realtà, con la scrittura gli odiati ‘attestati di debito e credito’. La tradizionale visione della ‘belle poesie’, appese sulla Caaba nell’età preislamica, è oggi sicuramente da cancellare.

È interessante notare a questo proposito che un tale atteggiamento lo troviamo ancor oggi quasi identico nelle popolazioni nomadi del deserto sudafricano, cosicché (senza risalire a mondi scomparsi come quello dei bardi nelle nebbie dei Celti), ci si può facilmente inoltrare in un mondo che è sopravvissuto sino a noi, e ben potrebbe rappresentare quali erano le abitudini e la mentalità degli arabi del nord preislamici. Le condizioni politiche e sociali sono sempre state tali che mai, per quanto ne sappiamo, i Berberi hanno sviluppato nella loro lingua una ‘civiltà della scrittura’.
Esiste comunque una scrittura berbera, d’origine tuttora sconosciuta, che ancor oggi
utilizzano solamente i Tuareg: la chiamano tifinay . Trascurando qualche missiva, a loro serve per tracciare brevi scritte sugli oggetti, come fibbie, braccialetti, o sulle rocce. Ovvero talvolta a conversare silenziosamente durante incontri galanti.

Anche questa scrittura, come quella araba, è consonantica. Le scritte sono sempre brevi e generalmente, più che ad errori di calligrafia di cui abbiamo esempi lampanti, è a questa assenza di spazio, per la piccolezza del supporto, che si debbono ricondurre le principali difficoltà di lettura. Peraltro i problemi che risalgono a  questo motivo sono compensati dalla brevità delle iscrizioni.

Tutto sommato si può dire comunque che i Tuareg facciano un uso relativo della scrittura: nelle serate in comune, caratteristiche della società tuareg, ragazze e ragazzi, in una specie di cour d’amour si intrattengono usando scrivere con il proprio dito sul palmo della mano dell’altro. Una scrittura ad andamento semplice e spaziato, oppure la composizione di un solo carattere sono specifici di questo modo di scrivere.

I testi di una certa ampiezza, le cronache, le genealogie sono tradizionalmente consegnati alla memoria. Alla scrittura tifinay sono affidati invece testi brevi, di utilità immediata: iscrizioni, lettere, dediche e nomi su oggetti, senza una preferenza per materiali scrittòri specifici come la pergamena, facendo tesoro di ogni superficie adatta: scrivono sulla sabbia per esempio, per se stessi, o per discutere la forma di una parola [ricordiamo che Cristo non scrisse alcunché, se non poche parole sulla sabbia che il mare ha cancellato, ndr.]

Ed è qui che si può cercare d’intravvedere questa repulsione degli Arabi del Nord d’allora e dei Tuareg ancor oggi a mettere per iscritto i frutti letterari. Lo storico Géza Róheim pensa a una ‘castrazione’ dei concetti espressi liberamente dalla parola ogni volta ch’essa viene sostituita dalla scrittura. Questa considerazione, sia pure in termini diversi, riguarda anche i Greci, secondo l’insegnameto di Platone: «Resta ora da parlare della convenienza dello scritto e della non convenienza, quando esso vada bene e quando sia invece non conveniente».

Certamente si può anche pensare in questa riluttanza, in questa resistenza delle civiltà del deserto, dagli Arabi del Nord a cavallo della nascita dell’Islam ai Tuareg, al timore che scrivere significhi praticare un ‘furto della fantasia’, ovvero un ‘furto dell’immaginario’.

Perché mai parlare di furto? Perché – senza neppure accennare al terzo elemento in gioco, l’immagine – riflettendo sul rapporto in atto tra la parola e lo scritto, si può constatare che, tutto considerato, è ancora la parola a mantenere il suo prestigio. Nella rigidità dello scritto c’è una mancanza di libertà, un avvizzimento della inizitiva immaginifica. In altre parole , la scrittura con la sua fissità finisce per ottundere quella volontà espressiva, quell’impulso a fantasticare, primo passo verso la formulazione di un «immaginario collettivo», e  tanto più di un proprio privato embrione immaginifico. Comunque va ribadita la preminenza della parola (diciamo pure il ‘logocentrismo’) di fronte a ogni altra forma comunicativa.  È grave non rendersi conto che proprio quello che sfugge al regno della parola, costituisce tuttavia il primo momento – appunto immaginifico – del nostro pensiero, ma d’un pensiero non concettualizzato, ma già carico di eventuali fattori estetici [va ricordata l’idea di Cesare Brandi secondo la quale alla triade saussuriana va aggiunto lo schema preconcettuale, quale principio della parola prima del suo principio n.d.r.].  Non si tratta ancora della parola, ma di quell’insieme di immagini (visive, auditive, ma  anche tattili, olfattive, cinestetiche…) che vivono al di fuori del linguaggio verbale e che, solo in un secondo tempo, possono tramutarsi in parole e in concetti. Perché non credere allora che anche il logos primigenio non fosse un linguaggio articolato, ma piuttosto un’immagine onnicomprensiva ricca di odori e sapori, luci e tenebre, forme e intervalli?  Tutto ciò in antitesi con l’idea di coloro che ritengono non possa esistere un pensiero senza parola, che soltanto attraverso la parola sia possibile una attività cogitativa, o che, addirittura – come sostiene Chomsky – esista un innatismo del linguaggio. Niente ci vieta di ritenere che ancor  prima della parola, e soprattutto della parola scritta, il pensiero fosse un principio non totalmente strutturato come avveniva nella società araba del Nord, ai tempi della gāhiliyyah.

La scrittura araba sembrerebbe iniziare secondo una aspirazione di libertà. Per quanto mi sforzi non riesco a vedere il massimo poeta Shànfara intento a scrivere correggendo e ricorreggendo i suoi versi. Le scritture erano un segno caratteristico dell’apparato societario e burocratico. Così si può pensare a un disprezzo per la scrittura nel paragonare di Labīd  in Il bandito del deserto (a cura di F.Gabrieli, traduzioni di Daniela Amaldi):
            … e a Rayyān fossati abbandonati e tracce
            consunte come scritti incisi su pietra…
            … I torrenti hanno portato alla luce rovine simili
            a righe scritte e ripassate da una penna.
si può pensare a un mutismo di quelle scritte:
            … Mi sono fermato a interrogarle, ma a che serve
            rivolgersi
            a ruderi sordi, le cui parole sono indecifrabili?

Poteva anche, il poeta, aver scritto questi versi per una vera e propria reazione di libertà contro le strutture degli Arabi del Sud, forse contro gli stessi Nabatei o i loro cugini di Hatra contrassegnati dalle iscrizioni monumentali, vale a dire una precisa pretesa di manipolare testi trasmessi ‘a memoria’.

Un senso di libertà accoppiato al rifiuto della scrittura istituzionalizzata deve essere innato nella natura umana, perché si ripete comunque e costantemente nella storia dell’uomo fino allo Slam Poetry [Lello Voce, L’avventura dello slam – per non dire delle parolibere futuriste e della Visual Poetry, n.d.r].  Poesia che non si deve scrivere secondo i criteri della scrittura utilitaristicamente strutturata, anche se qualche verso confermi l’idea pur finendo in uno scritto, tuttavia trasformato da Ugo Nespolo in un gigantesco monumento:
            Lavorare lavorare lavorare
            Preferisco il rumore del mare
            In una siffatta atmosfera potrebbe ben spiegarsi il Profeta dell’Islàm il quale non volle esser lui a scrivere o a far mettere per iscritto il testo della Rivelazione: mentre per altro ordinò frequentemente ai suoi segretari di scrivere missive e brevi trattati. Basti ricordare il patto con i Coreisciti e la risposta di Suhayl figlio di ‘Amr al momento di dettare per iscritto i termini dell’armistizio: «Se io testimoniassi che tu sei l’Apostolo d’Iddio non ti combatterei».

Quanto al ‘dettare’ si rientra storicamente nella normalità.  Il Corano ‘ordina’ di ‘dettare’ per scrivere le attestazioni di debito: il fatto che si trattasse di un ordine, o quanto meno di una raccomandazione, di ‘scrivere’ un documento relativo a pratici rapporti conferma l’idea che gli islamici non avessero l’abitudine e la voglia di rispettare quella prassi. Anche il ktb può essere interpretato nel senso di ‘dettare’, e quel comportamento non può certo sorprendere gli Occidentali, in quanto questa era la pratica diffusa nel mondo antico (famoso l’esempio di Plinio il Vecchio), e si suppone che San Gerolamo, alla fine del IV secolo, non abbia redatto di proprio pugno alcuna delle sue opere, come d’altronde lo stesso Sant’Agostino. Qualcosa di questa tradizione deve essere rimasta nei secoli successivi, almeno in Oriente, se un pittore del XV secolo ha voluto dipingere nella chiesa di Santa Paraskevi a Geroskipou, nell’isola di Cipro, l’Apostolo Paolo che in piedi si china sulla spalla del suo segretario per osservare ciò che questi scrive sotto dettatura.

Il Profeta dell’Islàm non ebbe nulla in contrario che brani della Rivelazione, quali quelli raccolti dalla sorella di Omar, venissero scritti. Infine tout proportion gardée, nella stessa atmosfera potrebbe essere nato il fenomeno del nāsih e del mansūh, che tanto ha tormentato e credo tormenti ancora anime pie dell’Islàm, frutto ancora una volta di quel vivo senso della libertà della parola e di conseguenza del rifiuto della scrittura.

Sì, la scrittura era pur praticata seppure non sempre, come abbiamo visto: ma, come recita il Corano, la «scrittura è custodita in una tavola in cielo».  E la parola ‘cielo’ mi ha sempre fatto pensare alle leggi dei sovrani subarabici scritte in enormi caratteri sulle pareti delle gigantesche spaccature dei wadi, come in una allucinante ‘gazzetta ufficiale’. Val solo la pena di notare che al confine delle due Coree ancora oggi vige questo costume. Non così totale fu l’opposizione al ‘libro’ come concetto e strumento  – i manoscritti più antichi del siriaco sono preislamici – dato che la parola kitāb figura nel verso di Zuhayr:
            … posta in un libro e conservata
Anche se questo verso si vuole che contenga “un’eco coranica che si coglie palesemente” (Daniela Amaldi). Un’eco che io personalmente non colgo.