Il gioco.


«Caro Ignazio, il gioco, il gioco, sì!»

Tommaso Landolfi


Tre sequenze compaiono, sostanzialmente identiche, in tre momenti cruciali del film di Robbe-Grillet e Resnais, L’année dernière à Marienbad, Si tratta di un gioco, del quale mutano soltanto gli strumenti: carte, pezzi di domino, fiammiferi, che vengono disposti su quattro righe di sette , cinque, tre, uno. Ciascuno dei due giocatori, a turno può prelevare il numero di carte, pezzi o fiammiferi che vuole, purché sempre dalla stessa riga ogni volta. Quello a cui resta l’ultima carta o tessera o fiammifero, ha perso.

«È un gioco in cui io non perdo mai», dichiara M ad a X (sono due personaggi nel film), «Se non potete perdere, non è un gioco»… «posso perdere ma vinco sempre».

Ciò che fa di un gioco un gioco è semplicemente la circostanza che si possa vincere o perdere? Nell’année dernière a Marienbad lo scontro fa M e X, ripetuto tre volte con risultato sempre sfavorevole a X, non produce nessun senso: non solo non influisce sulla storia, ma non ci dice nulla sul perché del gioco, qual gioco entri nel testo, cinematografico o linguistico che sia. Esso è totalmente opaco: assomiglia a uno scotoma. Neppure potremmo dire, se rimosso dal contesto, il gioco lasci un buco, una spaccatura o invece una superficie perfettamente liscia e continua, senza traccia dell’ablazione.

Almeno in questo caso, il carattere distintivo del gioco è l’enigmaticità del suo esser-lì, la sua non-negozialità come significato – che a poco a che fare con la natura gratuita che viene attribuita a ogni attività ludica. Esso non è riconducibile a valori di codice: forza, abilità, calcolo, astuzia, inganno, neppure alla fortuna. Siamo di fronte all’inscrizione di una lingua assolutamente altra.

Ha ragione Winnicott ad avvertire che il gioco è sempre sul punto di trasformarsi in spavento. Sono le pulsioni la grande minaccia per il gioco e il giocatore – per la stabilità dell’io. Paradossalmente il gioco è il rischio di sparizione che il soggetto corre e insieme la difesa ultima contro tale rischio. Questo è magari anche un modo di leggere un fumoso punto critico come il pari pascaliano.

Il gioco galleggia sulle pulsioni: che cosa può accadere se le pulsioni lo inghiottono?

È significativa, in proposito, la struttura binaria di uno dei giochi a buon diritto più famosi, quello inventato dal bravo bambino che Freud ha consegnato alla biblioteca analitica: il rocchetto scagliato via, sotto un mobile, e recuperato nella scansione del Fort, Da. Sparizione, riapparizione, rinuncia pulsionale – tutto ben netto. Ma in una aggiunta trascurata, Freud lega questa a un altro gioco analogo, che abbisogna di attrezzo, come dire?, lacaniano.: uno specchio mediante il quale il bambino abbassandosi, riesce ad andare via, a sparire dal riquadro, a dissipare se stesso.

Il gioco è il luogo dove il soggetto è in fading. Che tale fading sia provocato sembra indubbio; ma anche economicamente sfruttato? Mettere a rischio la propria dissipazione può legarsi a un piacere di tipo diverso: quale? Era la domanda avanzata da Freud in Al di là del principio di piacere…

La specularizzazione, lo sdoppiamento degli effetti è un altro dato su cui appoggiarsi. Il gioco del lancio e del recupero del rocchetto chiude in sé un secondo gioco, quello linguistico che pone Fort in opposizione con Da.

Tale iscrizione interna direi che abbia una rilevanza particolare: essa inserisce una pronuncia, nomina in un certo senso i gesti del buttare via e del ritrovare. Momento decisivo di nominazione, che lega il gioco all’essere in quanto parlante, all’essere-per-il-linguaggio.

C’è un altro gioco entro il gioco, che si connette alla scrittura. Ad apertura di Through the looking glass, Carroll propone un problema di scacchi, le cui mosse sono in rapporto con i successivi momenti ed episodi del racconto che sta per cominciare.

Il gioco del racconto (definizione per eccellenza calzante a Lewis Carroll) si sdoppia, e insieme si condensa, nel gioco della scacchiera – congiunzione che non dubito sarebbe piaciuta molto a Borges (anche se non so se nelle sue pagine compaia un accenno preciso a questa strizzatina d’occhio carrolliana…).

Ogni gioco ha le sue regole, a dispetto della gratuità eventuale o addirittura dell’assurdo, di cui si sostiene. Sono regole di doppia natura, che afferiscono al meccanico (intendo l’insieme di condizioni che fanno riuscire il gioco stesso), e alla tuche, alla fortuna, al caso.

È un sospetto tanto ovvio da produrre qualche imbarazzo nell’atto di enunciarlo una volta di più.

La questione si fa forse meno ovvia se si incroci alla diagonale meccanismo/ caso che congiunge i poli della memoria e della dimenticanza, e quest’ultima coppia venga ad agire sulla precedente.

Ciò che conta sarebbe dunque non di vincere, ma di portare il gioco fino al punto in cui le leggi che lo costituiscono possono smettere di sostenersi, in una parola si dimentichino. Che cosa garantisce che il gioco potrà continuare ad essere ripetuto semplicemente come gioco - dunque ad essere imperfetto? C’è un al di là del gioco come c’è un aldilà del principio di piacere. Si può ipotizzare che il punto di incrocio delle due diagonali indichi quella specie di vacillamento – l’attimo di sospensione di ogni gioco – che segnala tale al di là.


Ho parlato di gioco, senza preoccuparmi se esso implichi forza e pazienza, destrezza fisica o sveltezza mentale, processo combinatorio o eliminatorio. Il fatto è che cercavo di intravedere la struttura che sostiene forme innumerevoli. Del resto, come insegna una paginetta della Lettera rubata a proposito del giocatore di palline, e come testimonia anche l’eccitazione fisica che si impadronisce di noi quando giochiamo, ciò che entra in gioco nel gioco è quell’entità globale detta corpo. Sicché una definizione buona come qualsiasi altra reciterebbe così: il gioco è la percezione del caso nel proprio corpo.

Ma dopotutto, è gioco anche il pezzo che sto scrivendo, e non appena perché si tratta di maneggiare scelte lessicali, combinazioni sintattiche, di studiare la produzione di determinati effetti.

Il punto mi pare un altro. Qualcosa, seguendo un percorso di rimbalzi continui fra caso e necessità, si iscrive in uno spazio che comincia ad esistere soltanto al momento della scrittura. Ma forse esiste uno spazio del gioco prima del gioco? Teoria della letteratura e teoria del gioco ruoterebbero dunque entrambe intorno a una questione di posti.