Il romanzo poliziesco

La forma del delitto. Meccanismi e strutture del romanzo poliziesco.

Corso di aggiornamento presso il “Laboratorio di scrittura” dell’Università degli Studi di Urbino


Perché deve essere forzatamente regressivo l’atto di scrivere o leggere un romanzo poliziesco? Cominciare un discorso con una interrogazione anziché con l’affermazione tranquilla o una autorevole prescrizione , sarà anche poco pedagogico. Non importa. Del resto né chi parla ha l’ambizione-presunzione di pedagogizzare, né chi ascolta necessità di essere pedagogizzato. L’interrogativo di introduzione è per altro largamente retorico. Il repêchage dei generi, attuato da strutturalisti, semiologi e narratologi, va per fortuna esente da un protocollo di precedenze ed autorità. È sempre più screditata l’illazione che si diano livelli capaci di garantire, di per sé, il sublime. Liberata da questo tipo di superstizione, la letteratura può diguazzare con ragionevole libertà nel suo bagno di segni. Tuttavia certe renitenze sono dure a morire. Regressiva sarebbe quindi la confezione (e però anche l’utenza) di un’opera per sua natura diafana, se così si può dire, destinata a non offrire alcun attributo alla lettura, a restituire delle pure comunicazioni d’ordine enigmistico o edonistico. Il romanzo poliziesco si qualificherebbe come racconto assente: in luogo del récit un incastro più o meno virtuosistico di pezzi che nessuna voce raccontante assumerebbe in effetti nel proprio ordine-disordine formale. Non avviene qui, secondo tale punto di vista, nessuna di quelle trasformazioni metaboliche che caratterizzano la letteratura: persona-attante-azione- funzione, contiguità-relazione.

Lo statuto del poliziesco si porrebbe al massimo a livello di contenuti, non di funzionalità. o, all’estremo opposto, che è lo stesso, si identificherebbe con il mero congegno, o marchingegno, dell’indovinello, del riddle, separato ab origine da ogni attività espressiva (letteraria) come l’abilità manuale di fare canestri o un tipo altamente industrializzato di bricolage.

Narcejac, critico-storiografico del genere poliziesco e contemporaneamente autore, ha varato la formula del poliziesco come machine à lire, macchina da leggere, giocando sulla catena etimologica (o magari pseudocatena) riddle - to rede - to read ossia leggere formula che però sposta già il discorso . Tutto lo studio monografico di Narcejac sul romanzo poliziesco, stampato da Denoël, sia detto en passant, si spiega in questa direzione più ampia e penetrante.

Però macchina per leggere è anche, se è lecito, un sonetto di Petrarca o di Gongora, una cantica di Dante, la Recherche du tempe perdue, e Père Goriot: mi si perdoni tanta piattezza e ovvietà semplificatrice in vista della pervisività. Il congegno strutturale e linguistico che agisce in un poliziesco non si distingue categoricamente da qualsiasi altro congegno che entra in campo quando si parli di scrittura: la diversità qualificante sta semmai nel tipo di rotelline, di raccordi, di molle e di forme che costituiscono quel congegno specifico che chiamiamo romanzo poliziesco o romanzo a enigma, soprattutto se starà nei punti di applicazione del congegno stesso, nelle sue finalità. Ma qui comincia la parte ineliminabile dello smontaggio.


Converrà accennare di volo che il feticismo degli aficionados del genere ha giovato pochissimo alla causa. Come parvenus essi si sono mostrati troppo spesso solleciti di una cosa sola: esibire le carte di nobiltà della loro narrazione prediletta, grantire che qualche avo alle crociate l’aveva avuto anche il mistery nopvel. Per questi autori e lettori si trattava di respingere prima di tutto l’idea dell’artificio del meccanicismo, come estraneo a ogni rispettabile letteratura e a dimostrare, tasti alla mano, che il poliziesco sapeva anch’esso coinvolgere il cuore, dipingere la tempesta dell’anima, dar vita a personaggi a tutto tondo, operare insomma né più né meno i demoni, o, putacaso, Le due orfanelle. La confusione, non tanto delle lingue, , quanto delle idee non poteva essere maggiore né, criticamente parlando, più funesta. Finalmente, arrivarono i formalisti, i narratologi cominciando a divertirsi, a svitare tutte le macchinette e le macchinone narrative, senza pudore di sublime: riuscendo benissimo, cioè con effetti convincenti, specialmente con le fiabe, il romanzo d’avventure, quello poliziesco.

Come atto di gratitudine si cercherà nel corso di questa conversazione senza pretese, di applicare al poliziesco alcune delle tecniche di preparazione e di trattamento che la critica dei segni, la ricerca dei modelli, che le teorie del testo usano normalmente sulla teoria del testo senza aggettivi.

L’eventuale goffaggine, o rudimentalità dell’applicazione dovrà essere addebitata solo all’imperizia del preparatore-lettore che vi parla, e così l’approssimazione dei risultati; non da una ìndegnità dell’oggetto specillato, vale a dire del romanzo poliziesco. Questo avviso è autocautelativo: non presumendo di possedere il rigore e la dignità accademica dei più esperti coltivatori di tale tipo di analisi, verso i quali mi riconosco in debito, sia pure velleitario. Insomma, per dirla alla spiccia: questo non sarà un discorso scientifico quantunque volentorosamente modellato su qualche maggiore suggestione.


* * *

Il titolo che ho scelto: La forma del delitto, allude almeno, e ci tengo a sottolinearlo a due tecnicismi di diverso tipo. Il primo riguarda la natura dell’indagine, centrata quasi esclusivamente sui segni, sulle loro strutture, sui rapporti di forma e di funzione che operano dentro il testo di un poliziesco, anzi che ne costituiscono il testo medesimo.

Deliberatamente intendo mettere da parte, salvo accenni superficiali ogni considerazione vagamente sociologica del fenomeno romanzo poliziesco, come quella al suo significato storico-politico nell’ambito di una determinata civiltà, o delle funzioni extraletterarie che esso soddisfa, o della particolare posizione che occupa nel processo letterario come processo di produzione e consumo.

Innanzitutto il discorso in programma deve avere una estensione limitata, per mia e vostra ventura; una messa a fuoco, sia pure parziale, del suo soggetto, è indispensabile alla chiarezza reciproca. Alla fine indicare i limiti della propria ricerca è semplicemente onestà. D’altro canto non credo neppure che tutte quelle implicazioni il mio discorso, a suo modo le ignori: esso si attacca al testo, ed è nel testo, non altrove, che quelle forze esistono e si manifestano, ossia operano. Estrapolarle e isolarle può essere un particolare procedimento di indagine, ma non il solo che ne tenga conto. Il secondo tecnicismo è introdotto dall’altro membro del titolo: delitto, intendendolo nel significato più pregnante di delitto, ossia di omicidio – enigma, assassinio che rappresenta un mistero per quanto attiene all’autore e, spesso ai modi (caso canonico: delitto impossibile, delitto in una stanza chiusa). Il termine più calzante in questo caso sarebbe quello popolare inglese di whodunnit che centra il racconto e la sua finalità sulla descrizione del mistero, sulla scoperta dell’assassino: chi l’ha commesso? Come ha fatto? Perché? Ciò taglia fuori sia il romanzo thriller, dove non è il mistero ma l’emotività come paura, orrore, gratificazione del gusto per le sensazioni cosiddette forti – a costituire la vera molla della storia, e dove di fatti il chi è stato ha minore se non minima rilevanza., quando non manchi del tutto (si sa spesso in partenza chi ha ucciso e perché) ; sia il romanzo suspense dove il binomio investigatore-assassino, viene sostituito da un’unica polarità, quella della vittima designata, dell’uomo braccato da una concatenazione minacciosa che può essere tanto interna che esterna a lui, narrazione che nella sua forma esemplare si può condensare nella domanda: riuscirà a scampare o no? Thriller e suspense mi paiono dilazioni e stravolgimenti ambigui del canone poliziesco: ambigui, dico, in quanto sotto aspirano a conferirgli, quella dignità psicologica, quel malinteso spessore umano, insomma quella parità con il romanzo senza aggettivi, il romanzo nobile., il romanzo letterario, della quale il poliziesco non ha assolutamente bisogno. Resterà dunque inteso una volta per tutte che questo discorso tratterà solo la biologia, la morfologia e eventualente la patologia del romanzo-enigma.


* * *

«In qualche modo è come si riempissero la testa di idee…. Solo che non so di preciso quali! In ogni modo qualcuno ha ucciso qualcosa questo almeno è chiaro», esclama l’Alice di attraverso lo specchio, dopo aver letto Jabberwrvocky. Nel romanzo poliziesco fra la prima cosa chiara, cioè che qualcuno ha ucciso qualcuno., e la chiarezza definitiva, ossia la rivelazione di chi è stato, perché e come, c’è una confusione d’inferno, un chiasso, un blablabla, una sequenza traumatizzante di equivoci, false partenze, falsi arrivi, interpretazioni sbagliate, fatti che paiono fuori posto. La povera Alice ipotetica fruitrice di un romanzo poliziesco, con la sua costatazione sarebbe ancora rimasta alla buccia: il poliziesco non è un romanzo nel quale si racconta che qualcuno ha ucciso qualcuno, ma in cui si racconta come viene alla luce, come viene decifrato il fatto che qualcuno ucciso qualcuno. Insomma la sostanza tipica non è né il punto indispensabile di partenza, ossia il delitto, né quella altrettanto indispensabile di arrivo, ossia la rivelazione: è per dirla così l’entre-deux, cioè quel processo che li collega, quello spazio che li separa e congiunge nello stesso tempo – spazio mentale? logico? Meraviglioso? Si cercherà di vedere strada facendo quale aggettivo appropriato sistemare nella casella per ora lasciata vuota.

Intuisco ciò che, forse, a questo punto vorreste farmi osservare: la natura dell’aggettivo dipende dalla natura globale riconosciuta al romanzo poliziesco, la quale, a sua volta, sembra ricollegarsi all’origine storico sociale del genere letterario. Mi sembra disdicevole soffermarmi ancora sulla derivazione del poliziesco dal feuilleton, dal romanzo di sensazione a sensazione di ambiente cittadino, ventre o non ventre. Sue e magari magistrali storie della sfida dell’Antisocietà alla Società, sosta criticamente disdicevole, intendo, giacché contiene delle verità pacifiche da rappresentare, l’ovvio e il disgusto delle semplificazioni così grossolane da mettere in imbarazzo il ricercatore modesto ma scrupoloso. Sul rapporto poliziesco-feuilleton si ritornerà caso mai più avanti ma per motivi squisitamente strutturali di distribuzione narrativa. Gramsci dà in proposito indicazioni troppo sommarie: «Il romanzo poliziesco è nato ai margini della letteratura sulle cause celebri. E del testo delle cause celebri si riportano pure narrazioni come il Conte di Montecristo. Non si tratta neanche qui di cause celebri romanzate, colorite con l’ideologia popolare intorno all’amministrazione della giustizia, specialmente se ad essa si intreccia la passione politica?». Il passaggio avverrebbe attraverso la «schematizzazione del puro intrigo, depurato da ogni elemento di ideologia democratica…».

Ora sulla disideologizzazione dl poliziesco non sono d’accordo: esso in realtà continua a qualificarsi ideologicamente (ma non secondo la formula facile, facilona di ossequio dell’ordine capitalistico fondato sulla proprietà individuale). Una analisi un po’ meno corriva di certi romanzi apparentemente reazionari, come quelli della Cristie, potrebbero portare a scoprire più di quanto l’autore e il romanzo stesso credono di dire; solo che la strada d’approccio a questa sua realtà, passa, io credo, piuttosto attraverso la psicoanalisi. Gramsci arriva al punto chiedendosi: perché è diffusa la letteratura poliziesca? Ma sfugge subito dopo la risposta, allargandola all’infinito: «per ragioni pratiche e culturali (politiche e morali) indubbiamente». Che è indubbiamente dire un bel nulla. Poi propone la formula del romanzo popolaresco come fuga dall’avventura, dalla meccanicità e standardizzazione della vita moderna. Formula così il banale capace di abbracciare al poliziesco ogni attività fictional.

Gramsci si sente il dovere di respingerla e contrapporle la sottile nozione di «troppa avventurosità della vita quotidiana», cioè di troppa precarietà nell’esistenza in cui si trova esposta, nella società attuale, una larga fascia di classe media intellettuale: quindi il poliziesco gratificherebbe l’aspirazione all’avventura bella e interessante, perché dovuta alla propria iniziativa libera, contro l’avventura brutta e rivoltante, dovuta alle condizioni imposte da altri e non proposte, ossia socialmente, economicamente coatta.

Tutti questi discorsi in sé suggestivi, tendono a fare derivare ossia a spostare dalle sue oneste e limitate finalità questo mio piccolo intrattenimento. Così circa la sua presunta scientificità dl romanzo poliziesco, tanto cara nella formulazione più massiccia cade dallo spirito scientista ottocentesco (nel nostro canto, si pensi solo a Austin Freeman): il riferimento può interessarmi solo nella misura in cui determini in un modo o in un altro le leggi della struttura, i modi del formare il racconto: o se si preferisce somministri strumenti per un rilevamento meno approssimativo di quelle leggi e di quei modi.

Brecht, circostanziando le sue difese del romanzo poliziesco, lo presenta prima di tutto - mi pare osservazione molto acuta – come l’unica possibile incarnazione del romanzo d’avventura: «Nella nostra società le avventure costituiscono un delitto… Il romanzo poliziesco ha come argomento il pensiero logico ed esige che il lettore ragioni logicamente».

A questo punto vorrei mettervi in guardia contro quell’avverbio logicamente e in generale quello sperpero di logica che l’enunciato contiene: mi limiterò a dire, per autodifesa, che a mio parere si può accettare il rinvio all’arma semantica del termine logica, solo quando venga in gioco con molte correzioni e secondo un rapporto che direi metafisico.

Ora il presente carattere scientifico del poliziesco deriva dal fatto che nell’ambito di questa narrazione, colto più che in qualsiasi tipo narrativo «la casualità funziona in maniera soddisfacente», per dirla con Brecht. «Il pensare che ne risulta procura piacere». Il lavoro che, secondo Brecht, compie un lettore di giornali nella nostra epoca non è diverso da quello che svolge un lettore di lettori polizieschi: «È mediante il pensiero che dobbiamo ricavare la inside story della crisi, delle depressioni, delle rivoluzioni e delle guerre… Basta leggere i giornali… per accorgersi che qualcuno deve aver fatto qualcosa perché si sia verificata la catastrofe… Chi è dunque colui che ha fatto questo qualcosa?». La detection è un fatto (piacere) logico che diventa (o è contemporaneamente) un fatto. Una necessità politica.

Si è detto che nel poliziesco la causalità funziona senza disturbi, ossia funziona in vitro, conservando tutto il rigore dei passaggi (logici) che la vita reale si affretta a scompigliare. In realtà anche la storia poliziesca ha i suoi perturbanti, ha le sue deviazioni e alterazioni, sia pure temporanei: anzi, senza questi ostacoli che appunto conferiscono al racconto dell’indagine la sua tortuosità il suo eventuale piétinement , le sue stagnazioni prima dello scatto finale, il poliziesco non esisterebbe neppure: esso si consumerebbe, al limite, nell’attimo della esatta decrittazione, nell’attimo della verità. Ma la contraddizione è solo apparente: tutti questi ostacoli o disturbi sono a loro volta, scrupolosamente programmati. Dice ancora Brecht: «Viene di nuovo da pensare alla fisica moderna: l’oggetto sottoposto all’osservazione si modifica per il fatto stesso di venire osservato». A ragione, Narcejac, nel testo già citato, parla di simulatore : cioè un apparecchio che riproduce nella sua complessità una situazione identica a quella cui possiamo essere confrontati nella vita: situazione che deve essere sorpresa nei suoi particolari, interpretata, decodificata. Una buona realtà simulata contiene tutti gli elementi della realtà selvaggia, anche il disturbo, anche il caso. Ma tali elementi, caso compreso, si presentano per dir così, uno per uno allo stato puro, selezionati. Stato puro qui non vuol dire altro se non che questi elementi si inseriscono nella catena del linguaggio per obbedire esclusivamente alla sua logica. È dunque la logica del linguaggio che qualifica il romanzo poliziesco e liquida ogni equivoco circa la scientificità di questo tipo di narrazione. «Considerato dal punto di vista dell’invenzione – dice Narcejac – il poliziesco sta tutto dalla parte dell’arte; e considerato dal punto di vista della dimostrazione narrativa, si allinea tutto alla scienza. Il diritto appartiene all’artista, il rovescio allo scienziato». Ma i termini, anche per un amatore di definizioni come Narcejac, saltano continuamente: «Il veicolo per eccellenza del delitto è il ragionamento… - ma – il romanzo poliziesco, per ragioni profonde e oscure, aveva bisogno come punto di partenza di qualcosa di irrazionale e conturbante… del resto – cito sempre Narcejac – il poliziesco non è che un romanzo parascientifico e paraletterario». Certo il meraviglioso è la sua dimensione: esso produce il meraviglioso. Ma come, e di che tipo?


* * *

I due racconti.

A questo punto almeno grossolanamente, i preliminari possono considerarsi esauriti. La struttura del romanzo-enigma è a disposizione: procedendo da una stilizzazione del testo basilare, dell’Ur-Testo d’ogni romanzo o racconto poliziesco, sarà possibile definirne e ordinarne gli schemi costitutivi. Senza preoccuparci troppo di una uniformità di metodo, ora procederemo a generalizzazioni da verifica immediatamente sui testi particolari. Indurremo da ricorrenti e convergenti idiosincrasie testuali (voglio dire di testi storici) l’obbedienza a uno schema necessario.

Se sia lecito sfruttare ancora una volta il nome di Brecht, citerò dal suo scritto sulla «popolarità del romanzo poliziesco…: come il cruciverba anch’esso (il romanzo poliziesco) ha uno schema e rivela la sua forza nella variazione… Chi, constatando che il dieci per cento di tutti i delitti ha luogo in una canonica… sempre la stessa storia! Chi parla vuol dire che di romanzi polizieschi non ne capisce niente… Anzi questa è proprio la circostanza che la variazioni di elementi più o meno fissi costituisce una delle caratteristiche fondamentali dei romanzi polizieschi, a conferire livello estetico a tutto il genere. È questo uno degli elementi distintivi di un ramo della letteratura colta. C’è una infinità di schemi per i romanzi polizieschi, l’importante che sono degli schemi».

Si potrà intanto osservare che parecchi di questi schemi (rapporto autore-lettore, lettore-testo, detective-vittima, delitto inchiesta, etc.) sono di tipo binario. È anche vero che risulta subito chiaro che alcuni (autore-lettore, lettore-testo) non sono peculiari del romanzo poliziesco ma di ogni atto narrativo. Essi possono servire a integrare una descrizione del modi di formarsi e funzionare del poliziesco, ma non la determinano, come invece accade nel caso del rapporto delitto-inchiesta, ossia di quella che Todorov, in un suo saggio molto intelligente ancorché troppo breve (che non posso che raccomadare alla vostra attenzione ) denomina la struttura delle due storie.

Ogni poliziesco risulta dalla convivenza di due storie: la storia del delitto e la storia dell’inchiesta. Nella forma più pura del poliziesco, la storia del delitto è già terminata, chiusa quando comincia la seconda, ossia la storia dell’inchiesta. Todorov porta l’esempio della Canarina assassinata, di Van Dine, ma si potrebbero cumulare altri romanzi di Van Dine, gran parte dei racconti di Conan Doyle, lo stesso proto esempio di Poe. All’inizio della storia dell’inchiesta, ossia della storia seconda che forma la parte visibile del romanzo poliziesco, la storia prima si pone senza dimensioni, come un punto; come un punto è pressoché invisibile, non occupa spazio eppure c’è. Ma essa è un punto per un fenomeno di limitatezza ottica del lettore (voluta, s’intende, dall’autore): quel punto non è altro che il residuo di una macrofotografia. Secondo ci insegna la nostra esperienza dei trucchi spionistici, quel punto debitamente ingrandito, il numero necessario di volte una pagina o più pagine nelle quali la storia del delitto è ampiamente raccontata in tutti i particolari. Se è lecita la metafora, lo svolgersi dell’inchiesta, ossia del secondo, della seconda storia coincide con il processo di ingrandimento della microfotografia fino alla lettura chiara.

Ora, quali sono i caratteri distintivi di queste due storie? La prima è la storia del delitto, delitto che costituisce il punto (proprio anche nel significato più particolare che s’è visto) di partenza della seconda storia, ossia del romanzo effettivo. Mentre la prima storia, per altro praticamente invisibile, è una catena di azioni, la seconda, la storia dell’inchiesta è una catena di conoscenze. I personaggi di questa seconda storia «non agiscono, ma apprendono», sottolinea Todorov: questo, sebbene un po’ radicalizzato, è un carattere distintivo. Contrariamente al luogo comune il romanzo poliziesco non è il romanzo di un’azione ma il romanzo presa di conoscenza. Le tappe, le peripezie della seconda storia, ossia della storia dell’inchiesta, sono le tappe, le peripezie con le quali si istituisce la conoscenza (s’intende quella particolare conoscenza del delitto e della colpevolezza).

Le leggi che regolano il romanzo poliziesco sono dunque delle leggi euristiche, sono le leggi secondo le quali la conoscenza umana (sia pure in un simulatore) tende a realizzarsi. Mentre si occupa della più violenta delle azioni per definizioni, l’omicidio, il romanzo poliziesco si astrae di fatto anch’esso violentemente dall’azione: esso restituisce la conoscenza, ossia il pensiero a se stesso e alle sue proprie norme.

Il particolare statuto di cui gode, nel poliziesco, il portatore ufficiale dell’istanza conoscitiva dell’inchiesta vale a dire il detective, che non può essere raggiunto, vulnerato, e ancora meno ucciso non è un mero ossequio alle esigenze di Happy end della narrazione popolare, di consumo, ma è, per dir così una necessità narrativa. L’invulnerabilità, si badi bene, che non attiene solo al livello fisico: il detective è invulnerabile soprattutto mentalmente: gli inevitabili errori parziali nel corso dell’indagine non gli inibiscono mai il conseguimento finale della conoscenza completa, ossia la risoluzione dell’enigma. Se, come dice Todorov, da un certo punto di vista la seconda storia dell’inchiesta è presente ma insignificante, ossia in sé non articola null’altro che una serie di approssimazioni conoscitive, di gradus ad veritatem. Essa deriva la sua importanza da questo doppio fatto: che è unicamente attraverso di essa che la prima storia da invisibile, ridiventa visibile, e che il suo materiale accumularsi costituisce, fa sussistere il libro, che è quel particolare romanzo poliziesco.

Insomma: essa recupera la storia del delitto e scrive il libro. S’intende che solo per radicalizzazione esemplificativa si può affermare che le due storie del delitto e dell’inchiesta hanno un unico punto di contatto fondamentale e fuggevole, nel quale l’una finisce e l’altra incomincia. Nella pratica del romanzo poliziesco la prima storia proietta degli effetti particolari e concreti sulla storia dell’indagine: si pensi alla serie delle mosse che l’assassino può ancora compiere per far deviare le indagini, distruggere qualche prova, cancellare una traccia, o addirittura sopprimere un testimone pericoloso improvvisamente venuto alla ribalta. Sono tutti effetti secondari ma importanti al fine della struttura narrativa, che la prima storia irradia sulla seconda; ma non mutano la sostanziale giustapposizione fin qui indicata fra le due storie.

Voi sarete già pronti ad osservarmi che la contrapposizione fra storia del delitto e storia dell’inchiesta non fa altro che riprodurre , grosso modo, la copia ormai celebre dei formalisti russi (Sklovskij al primo posto), fabula-traccia, dove fabula è la successione reale dei fatti, trama è il nuovo ordine secondo il quale l’autore prende conoscenza di quei fatti e li esprime. A mio avviso ciò che rende tipica la struttura narrativa di un poliziesco e la differenza da ogni altro tipo di narrazione, è che le due storie, oltre ad essere contestualmente operanti, anche in absentia (la storia del delitto) risultano legate da una profonda necessità causale: la prima, il delitto, non esisterebbe se la seconda, l’inchiesta, non la riscrivesse parola per parola, frase per frase, attraverso errori o cancellature: la seconda non arriverebbe mai a costituirsi, se la prima non la stimolasse attimo per attimo, o meglio: non la sfidasse a dirsi. La prima riceve dalla seconda la forma ma a sua volta le somministra la sostanza. Le due storie, anche se in apparenza separate, interagiscono nel corso di tutto il libro, dalla prima pagina a l’ultima. Questa interazione definisce il poliziesco.


* * *

Narcejac ha bozzato un’altra struttura che, in fondo, finisce con combaciare con quella di Todorov. Egli parla di un envers e di un endroit: «La storia come viene architettata nella mente dell’autore, è la storia al diritto: come viene presentata agli occhi del lettore è la storia del rovescio». L’opposizione si avvale della metafora vulgata del tappeto o del lavoro a maglia, sposta l’accento dal livello teoretico delle strutture, a quello pratico del modo di raccontare e dell’altra coppia autore-lettore; ma differenze sostanziali non si danno. Rilevare che diritto e rovescio non corrispondono completamente a storia del delitto e storia dell’inchiesta ci porterebbe probabilmente alquanto lontano. E con quali mezzi? Mi chiedo. Fermiamoci qui.

Del resto il discorso investe in una certa direzione, il problema dell’istanza narrativa, ossia: come si racconta un romanzo poliziesco? Prima di passarvi converrà brevemente concludere la trattazione delle due storie. Il già usufruito Narcejac ribadisce: «L’abbiamo notato; il racconto presenta un coté lettore e un coté autore, un rovescio e un diritto. A rovescio, dalla parte del lettore, sta la logica in quanto distrazione che conduce alla prova che sarà poi sviluppata; ma al diritto, lato autore, sta la logica in quanto invenzione del dramma che deve essere utilizzato. In altri termini, la medesima logica ha un ruolo doppio da giocare simultaneamente: è in virtù sua che il lettore arriva alla soluzione, e sempre in virtù sua che l’autore può costruire la sua storia».

Sarà il caso a questo punto, se le citazioni non risultano esorbitanti, far parlare un teorico puramente immaginario: il personaggio George Burton, ossia J.C.Hamilton, autore di romanzi polizieschi, e particolarmente del Delitto di Bleston (si trova a pagina 146 e seguenti di L’emploi du temps di Butor: «Ogni romanzo poliziesco è costruito su due delitti:, il primo dei quali, commesso dall’assassino, è l’occasione del secondo, nel quale egli è vittima dell’uccisore puro e non punibile, cioè del detective, che lo mette a morte non però con uno di quei mezzi vili dei quali egli stesso era stato costretto a servirsi: veleno, pugnale, pistola con silenziatore, calza di seta per strangolare, ma con l’esplosione della verità. Ma sì, è lui il vero esecutore… e il boia, il procuratore generale, tutta l’organizzazione legale, gli ispettori di Scotland Yard, o del Quai des Orfévres, non sono che strumenti della sua opera, strumenti che sempre più o meno, gli portano rancore per essersi mescolato nei loro affari e di servirsi di essi per uno scopo così diverso dal loro (giacché essi sono in guardiani del vecchio ordine messo in pericolo, mentre lui, il detective, vuole agitare, turbare, frugare, mettere a nudo, cambiare, per farsi poi beffe di loro, qualche volta erigendosi a unici giudice e sottraendo loro la preda...). Gran parte delle relazioni fra i protagonisti del dramma non esistevano se non grazie a errori, ignoranze, menzogne che il detective distrugge; la costellazione degli attori si organizza allora secondo una nuova forma dalla quale viene escluso automaticamente uno dei membri dell’antica collettività… Il detective è il figlio dell’assassino, Edipo, non solo perché risolve l’enigma, ma anche perché uccide colui al quale deve il proprio titolo, colui senza il quale nemmeno esisterebbe qual è (senza delitti, senza delitti enigmatici, come potrebbe mai venire alla ribalta?), perché questo assassinio gli è stato predetto fin dalla nascita o, se preferite, è iscritto nella sua natura e solo in virtù di esso diventa sovrano e giudice, veramente se stesso, con un potere superiore a quello che concede la vita comune…».


* * *

Siamo di fronte a un altro sistema binario, o a un’altra coppia parzialmente sovrapponibile a quella delle delle storie e del diritto-rovescio, anche se visibilmente sposta il discorso della sintassi narrativa alla tematica. Tuttavia non sfuggirà anche il rapporto qui postulato fra i due omicidi (quello dell’assassino e quello dell’investigatore), risponde a una causalità che si radica non solo nelle motivazioni mitiche (il doppio assassinio è il mito stesso del poliziesco), ma nelle esigenze della logica strutturale del racconto. Un’altra sottolineatura appena per questo testo, che non essendo veramente né teorico né narrativo, o meglio partecipando ingannevolmente di entrambe le nature è ambiguo: in ennesima opposizione binaria esce dalla esistenza di due ordini alla cui realizzazione il romanzo poliziesco si impiega. Uno è l’ordine sociale, nel senso stesso del termine, fondato sulle leggi, sulla proprietà privata, sulla organizzazione capitalistica della società, del quale si fanno naturali portatori e rappresentanti di apparati ufficiali della polizia: ispettori o commissari di Scotland Yard, o del Quai des Orfévres, medici legali, vigili, giudici, carcerieri, boia, ossia, come dice il personaggio: «I guardiani del vecchio ordine messo in pericolo». L’altro, è l’ordine che si manifesta, o sarebbe meglio dire si sovrappone al vecchio ordine attraverso l’attività del detective, che vuole, per sua natura istituzionale agitare, turbare, frugare, mettere a nudo, cambiare…. Se anche in questo caso si usa il termine ordine, è in una accezione esattamente opposta alla prima: il detective, al termine della sua investigazione, produce disordine, ma è il disordine-di un mondo in cui è entrata in maniera irreparabile, cambiandolo, non dirò la Verità, grossa parola, ma la Logica. A dispetto del ripristino apparente della società offesa, niente potrà essere come prima. Questa mi sembra una buonissima ragione per non accettare almeno del tutto l’opinione che lega romanzo poliziesco e società capitalistica, vedendo nel primo uno strumento della seconda, e quindi assegnandogli un valore ideologico reazionario.

Il testo che ho appena citato parla anche della nuova forma secondo la quale si organizza la costellazione dei personaggi al termine dell’indagine, dopo la rivelazione, forma nuova dalla quale uno dei membri, ossia il colpevole, viene escluso automaticamente. Mi osserverete subito che questa visione riporta alla formula che Northrop Fry assegna al poliziesco: «Un cacciatore di uomini che individua un pharmakos, ossia un capro espiatorio e si sbarazza di lui». Partito come intensificazione del modo masso-mimetico, il poliziesco si avvia verso un dramma rituale intorno a un cadavere, in cui la condanna sociale si aggira come un esitante dito accusatore puntato sopra un gruppo di sospetti, finché finalmente ne indica uno (cito sempre da Fry): «Il lato puramente investigativo-deduttivo si fonde con il lato violento in una nuova forma di melodramma». Il detective è il figlio dell’assassino, il suo erede, diremo meglio, perché «uccide colui al quale deve il suo titolo». Come nelle leggi di successioni le mort saisit le vif.

Secondo insegna Frazer esiste un’antichissima procedura su cui sembra ricalcata quella dell’assassino e del detective nel poliziesco: è la procedura che reggeva la funzione e la vita del re del bosco, sacerdote e omicida, la cui carica è dignità poteva essere acquistata da chiunque lo uccidesse: secondo la regola solo mediante l’assassinio ci si impadroniva del sacerdozio, e il nuovo sacerdote restava in carica finché non fosse stato ucciso a sua volta da qualcuno più forte o più astuto di lui. L’analogia non vi può sfuggire: è solo attraverso un assassinio (il secondo omicidio, quello metaforico o reale, poco importa, inseparabile dalla risoluzione che il detective dà all’enigma), che il potere, la dignità di simbolo riassuntivo passa dall’assassino al detective.

Non insisterò troppo su accostamenti del genere che sfumano facilmente verso un certo tipo di mistica letteraria che mi è molto sgradita.

Ritorniamo alla costruzione dei testi, anche senza dimenticare che questo excursus non ci ha allontanati troppo dal testo del romanzo. Il rapporto fra romanzo popolare d’appendice (e dunque tecnica romanzesca) e mito l’ha fra l’altro garantito Lévi-Strauss: «Il romanzo d’appendice, quale ultimo stadio della degradazione romanzesca, si confonde con le forme più basse del mito, che a loro volta sono un abbozzo di creazione romanzesca nella sua prima e ordinale freschezza…».


* * *

Torniamo alle nostre due storie. La storia dell’inchiesta, come si è detto, è di per sé insignificante: presentandosi non come azione ma come conoscenza, essa ha quale unico fine di rintracciare, riordinare e rendere visibile la prima storia, ossia quella del delitto. Tale compito è in un certo senso contraddittorio, giacché il canone implica che la conoscenza avvenga per gradi, per passaggi tortuosi, errori, malintesi, valutazioni equivoche. La seconda storia deve dunque alternativamente mascherare la storia e rivelare la prima storia. Essa è portata a magnificare, ad accentuare il proprio carattere di fiction, se vogliamo intendere con questo termine lo spostamento che l’atto del racconto, l’atto letterario per eccellenza, fa sentire al referente, ossia ai dati della realtà. La seconda storia sarà una trama alla seconda potenza, dovrà cioè dichiarare in modo esplicito, perfino polemico, la propria letterarietà. Il proprio carattere libresco: in una parola, presentarsi come un libro, o forse sarebbe meglio dire, come la storia di un libro che si sta scrivendo.

Si tocca in questo modo la più coerente spiegazione del fatto che una grandissima parte dei romanzi polizieschi si presentino come relazioni, testimonianze, memoriali scritti da qualcuno che assiste all’indagine; ne segue il brancolamento e il progresso, ne storicizza la rivelazione finale. Si tratta per lo più di un amicus curiae, di un compagno di un ammiratore, contubernale del detective, colui, insomma, che in gergo teatrale si chiamerebbe una spalla. Dal sodale innominato di Dupin al dottor Watson, al capitano Hastings, al signor SS, Van Dine, allo Jeff Marler di Bencolin, ad Archie Goodwin (che costituisce tuttavia un caso particolare). Se vogliamo usare le classificazioni di Gérard Genette sui livelli e sulle relazioni narrative, il romanzo poliziesco è normalmente omodiegetico, ossia il narratore vi è presente come uno dei personaggi della storia raccontata: ma, si noti bene, non quale protagonista bensì quale semplice osservatore o testimone (appunto il dottor Watson).

Si dà una doppia motivazione di questo statuto narrativo: un personaggio che assume in proprio l’atto dello scrivere il libro, ossia dello stendere in carta, del dare forma letteraria alla relazione, alla testimonianza, e nello stesso tempo sia compreso nella storia. È condizione indispensabile perché appunto il secondo racconto, il racconto dell’indagine, che rende visibile il delitto, possa materialmente svolgersi. L’amico-testimone-scrittore è il luogo di risonanza del racconto, o per dir meglio è il luogo in cui il racconto, in quanto ricostruzione rivelativa, diventa tale, ossia si fa appunto racconto. Ma è altrettanto indispensabile che il testimone-scrittore non coincida con un personaggio principale, ossia l’assassino o il detective, giacché questo distruggerebbe l’essenza stessa del secondo racconto, che vive sull’errore, sul malinteso, non meno che sulla verità, e che risulta dunque inconciliabile, se non al suo punto estremo quando si estingue l’onniscienza.

La questione dell’istanza narrativa nel poliziesco non si esaurisce naturalmente con questi accenni sommari. Per esempio, si danno narrazioni poliziesche che sono scritte, come si suole dire alla terza persona, cioè che presuppongono un narratore estraneo e onnisciente (ma l’ampiezza dell’onniscienza, almeno che non si bari data la natura particolare della storia, poliziesca, sarà sempre relativa).

Un discorso su questo punto porterebbe però troppo lontano, troppo fuori, cioè, del tempo e dell’argomento che mi sono stati concessi. Per chiudere al momento il dibattito dei livelli, annoterò solo che una parte del poliziesco può essere metadiegetica, può cioè presentarsi come racconto al secondo grado, ossia come racconto nel racconto, un racconto messo in bocca a un personaggio della narrazione principale. Una manifestazione tipica di questo livello metadiegetico – tipica dico del poliziesco – è offerta dal racconto di spiegazione che ogni detective fa obbligatoriamente alla fine del romanzo per illustrare come si svolsero realmente i fatti, come agì l’assassino e come egli stesso pervenne alla verità: racconto che per forza deve essere definito a un personaggio del racconto principale, e a quel solo personaggio. Altri esempi sono forniti dalle informazioni più lunghe (talvolta fallaci), sono gestite da testimoni e infine dalla esposizione dei casi delittuosi, o comunque enigmatici che fa il cliente o la persona minacciata ricorrendo ai buoni uffici del detective. Particolare questo che si riscontra nella maggior parte dei racconti di Conan Doyle. Da notare che in alcuni romanzi polizieschi, specie agli inizi dell’evoluzione del genere, quando i legami di derivazione dal feuilleton sono ancora visibili, certi racconti di testimoni, certe enunciazioni di antefatti sono così vasti e autosufficienti da separarsi materialmente dal romanzo principale, istituendosi, almeno in apparenza, come racconti primari, a sé (senza che però venga meno sostanzialmente la loro qualità metadiegetica): valga l’esempio di tutta la storia di Jefferson Hope, nel Paese dei santi, che addirittura riporta indietro nel tempo, come spesso accade, nel primo romanzo poliziesco di Conan Doyle, uno studio in rosso.

Altri esempi addirittura macroscopici fornisce Gaboriau (Monsieur Decoq, e altri testi).


* * *

Il protoschema: Poe

Chiamiamo archetipo del racconto poliziesco Gli assassinii della rue Morgue di Edgar Allan Poe. Non è appena una questione di date: aprile 1841 sul Graham’s Magazine. Il fatto è che l’inchiesta del cavaliere Auguste Dupin si presenta come un ideale trattato di narratologia: ossia semplifica, direi in vitro, i temi le strutture fondamentali, le idiosincrasie stilistiche, le polarità figurative che caratterizzeranno da allora in poi il racconto e il romanzo poliziesco. Gli assassinii della rue Morgue contiene debitamente miniaturizzato, l’intero apparato di questa narrativa.

Nell’operazione di smontaggio il lettore si trova fra le mani praticamente tutti gli schemi essenziali. Accennerò appena al fatto di rilevanza perfino ovvia, che il racconto di Poe istituisce, con tutte le sue idiosincrasie il personaggio chiave (vorrei dire il personaggio eponimo): il detective, ossia l’investigatore dilettante, e ne fissa una volta per tutte lo statuto. Fornito di una cultura eccentrica e di una sensibilità abnorme, quasi morbose, è insieme rigorosamente logico e sognatore. Di costumi bizzarri e comunque scarsamente sociale nel senso corrivo del termine (pessimismo e misoginia rientrano nel suo carattere); quasi continuamente in antitesi con la polizia ufficiale e in genere con l’istituzione legale; con il potere (il prefetto di polizia che entra nei racconti di Poe non è altro che il capostipite di tutti i Lestrade e i Gregson conandoyleschi, degli infiniti ispettori e sopraintendenti ai quali viene riservato il compito di comprimari alquanto sprovveduti). Fragile in apparenza ma al bisogno dotato di una insospettabile forma fisica e di nervi d’acciaio. Tale è C.Auguste Dupin, di cui vengono raccontati gli exploits negli Assassinii della rue Morgue: nella Lettera rubata, nel Mistero di Marie Roget, sempre per bocca di un anonimo narratore. Ed ecco dunque già varata qui la tecnica del racconto attribuito a un amicus curiae, a un testimone secondario ma non insignificante. Infine Gli assassinii della rue Morgue, offre fin dall’esordio quello che è il clou dell’enigma, poliziesco, la trouvaille più preziosa del genere: il delitto impossibile, ossia il delitto nella stanza chiusa.

Questo carattere deve essere per forza ricollegato a un altro tratto costitutivo del poliziesco. Vale a dire l’importanza determinante, sia dal punto di vista della costruzione della vicenda, sia dal punto di vista delle scelte sintattico-narrative, sia, infine, dal punto di vista di una ideologia (o sociologia?) del romanzo poliziesco, dell’Interno, ossia l’opposizione intérieur-extérieur. Insomma il racconto poliziesco ha le sue radici in un interno, prendendo il termine nel senso più letterale: ambiente delimitato, stanza chiusa, appartamento naturalmente con tutti i suoi annessi, mobili, tendaggi, bibelots, addobbi particolari, senso del privato, difesa, rifugio, raccoglimento in contrapposizione al rischio, alla dispersione, alla socialità, magari minacciosa che è rappresentata dall’esterno. Una stanza, un interno è innanzitutto il luogo deputato del detective, dove egli sta e può venire reperito, dove esercita il suo ministero soteriologico o professionale che sia. Questo luogo è subito, per necessità, caratterizzato non meno del suo abitatore.

Nel racconto di Poe l’appartamentino di Dupin e del suo amico-narratore è «una bizzarra casetta tutta guasta dal tempo e dagli anni, abbandonata per certe superstizioni», dove la coppia vive rovesciando esattamente gli usi comuni: facendo di notte giorno, sbarrando le finestre al sole, conversando, leggendo, scrivendo alla luce di «fiaccole fortemente profumate». La troppo facile ipoteca romantica di tale sistemazione è in realtà sopraffatta, nel racconto, da forti e precise istanze di tecnica narrativa; vale a dire legate alle esigenze di un certo tipo di racconto.

Se l’omicidio è una rottura della norma, e l’omicida è per definizione meglio, un eccentrico, altrettale, dovrà essere simmetricamente, direi specularmente, il suo competitore, il detective e così l’habitat di costui.

Il racconto si scatena fra due polarità di segno opposto, fra due rotture: il luogo del delitto e il luogo della rivelazione sono per forza due luoghi del meraviglioso, due luoghi d’eccezione.

In uno studio di Loriss Rambelli, comparso sulla rivista Lingua e stile, intitolato, Acculturazione di un genere letterario: il dectetive. L’analista italiano, che fin d’ora si segnala per molte preziose intuizioni, si sottolinea, giustamente, l’importanza dell’intérieur fra l’altro qualificando il poliziotto paladino dell’interieur, in quanto restauratore dell’ordine e difensore del patrimonio privato.

Si determina così una ideologia dell’interno non meno che una filosofia dell’arredamento per quanto riguarda tale interno. La tana, per dir così, di Auguste Dupin, abbiamo già visto si connota in maniera rilevante: e nessun buon lettore di Conan Doyle ignora il particolare aspetto del famoso appartamentino di Baker Street, con tutte le sue idiosincrasie, dal tavolo per le ricerche chimiche di Holmes alla pantofola porta tabacco, alle iniziali della Regina Vittoria disegnate a colpi di pistola su una parete. Anche la casa Philo Vance è una pertinenza, un prolungamento caratteriale del suo abitatore; per non parlare poi della sistemazione Nero Wolfe nel suo vecchio palazzo di arenaria.

Quasi tutti i grandi detective sono topici, ossia sono legati un topos, a un luogo che li prolunga, ne riflette e insieme ne determina la particolarità e le funzioni. L’importanza del luogo chiuso, tipicizzato, funzionalizzato ad apertura del racconto poliziesco non può certo venire ridotta: l’interno si inserisce, con il suo correlativo esterno, in quella catena di polarità da cui sembra comandato, nel suo schema fondamentale, il genere: interno-esterno, razionale-irrazionale, ordine-disordine, colpa-innocenza. Non può dunque meravigliare se l’enigma per eccellenza sia altrettanto topico: l’assassinio nella stanza chiusa.

Ma proseguiamo l’analisi morfologica degli Assassinii della Rue Morgue. Non vi farò il torto di supporre che ignorate il testo di questo piccolo e citatissimo capolavoro. Una prima superficiale ricognizione della sua struttura mostra come Poe vi inauguri quello che sarà poi il montaggio classico del racconto. In apertura enunciazione di teorie sulle facoltà analitiche, sui modi dell’osservazione, sulla facoltà combinatoria, etc., che fondano per dir così la base teoretica della quale il racconto che segue sarà la dimostrazione. Poe adotta quella architettura pseudoscientica, pseudomatematica, da dimostrazione di teorema che il genere tenderà a privilegiare.

Segue poi la presentazione del detective, di cui si enunciano le facoltà eccezionali: e immediatamente dopo, la famosa sequenza, del ragionamento ricostruito da Dupin a spese del suo compagno ab assurdo-mirato, in cui si dà il primo esempio (nella storia del poliziesco) di meraviglioso logico, di salto per cui di una certa catena di pensiero vengono esibiti al lettore solo due anelli debitamente distanti e incongrui, facendo così deflagare l’enigma nella sua forma più squisita e astratta, direi quasi l’enigma linguistico. Apparizione soprannaturale nell’ambito del pensato, subito ricondotto a norma dall’enunciazione dei passaggi logici intermedi: se tale catena sia poi realmente logica o non piuttosto paralogica come inclinano a ritenere molti, non è questione da dibattere.

Infine, ecco l’esposizione del delitto che costituisce il nocciolo del racconto; l’investigazione, la scoperta, la cattura del colpevole, etc.

Ma a livello più generale, di schemi narrativi, il racconto di Poe mette in luce quella che è destinata a diventare la sequenza tipica di ogni poliziesco: enunciazione dell’enigma, spiegazione di alcuni aspetti, primo albeggiare della verità, fra confusione, stupore, incredulità, nella mente del testimone-narratore; spiegazione completa dell’enigma, stato finale di chiarezza. Ossia se si vuole formalizzare ancora di più: posizione dell’enigma (ostacolo), tentativo di rimozione dell’ostacolo, nuovi ostacoli (secondo delitto), malintesi, errori, eliminazione totale dell’ostacolo (o enigma). Fra i primi due momenti (posizione dell’ostacolo – tentativo di rimozione), e l’ultimo (rimozione definitiva dell’enigma), lo schema può contenere un numero variabile a volontà di ostacoli aggiuntivi, destinati a deviare, e dunque, a rallentare il processo verso la rimozione totale dell’enigma, ossia verso la chiarezza.

Generalmente, come si disse, questi ostacoli supplementari sono rappresentati da uno o più nuovi omicidi che diremo subordinati nel senso che servono al primo delitto, che pone l’enigma, giacché tendono a eliminare un testimone pericoloso, o un complice infido dell’assassino, o un ricattatore che si è inserito nel gioco, o talvolta un investigatore secondario, che è riuscito a scoprire qualcosa. Va da sé che negli Assassinii della rue Morgue, data l’economia ridotta propria del racconto, questi elementi intermedi di disturbo e devianza sono ridotti al minimo, per non dire eliminati: essi divengono indispensabili invece in un romanzo che ha obbligatoriamente passo lungo, la necessità di non lasciare mai scendere la tensione narrativa al di sotto di un certo livello.

Negli Assassinii della rue Morgue, questa tensione emotiva viene intrattenuta con strumenti squisitamente verbali, retorici: del resto si è già detto che il poliziesco è il racconto non tanto di una azione, ma di una conoscenza. Il punto focale è rappresentato dall’esame che Dupin fa delle varie deposizioni di quanti arrivarono per primi sul luogo del delitto, e udirono, per qualche istante le voci dei due presunti assassini. Il fatto curioso, sottolinea Dupin: sta in ciò che provandosi a descrivere una delle due voci, un italiano, un inglese, uno spagnolo, un olandese ne parlano come della voce d’uno straniero… «Ognuno la paragona non già alla voce di un individuo la cui lingua gli sia familiare, ma proprio al contrario». Il francese suppone che sia la voce di uno spagnolo, ma non conosce lo spagnolo… l’olandese afferma che era la voce di un francese ma non conosce il francese… l’inglese la crede la voce di un tedesco ma non capisce il tedesco… etc. Ognuna di queste frasi, costruite attraverso una affermativa subito implicitamente denegata da una avversativa (ma non sa il francese, ma non conosce l’inglese…), rappresenta una tappa o passaggio di un processo in crescendo, che mira a portare l’enunciazione dell’enigma al suo climax, massimo, ossia all’assurdo. Quella voce che sembrerebbe parlare a turno tutte le principali lingue d’Europa e che alla prova dei fatti non ne parla nessuna, è davvero una voce: appartiene all’ordine logico, alle relazioni umane, o è già al di fuori, nella dimensione non diciamo del soprannaturale, ma dell’innaturale, del meraviglioso.

Il lettore si trova qui confrontato con ciò che si potrebbe chiamare un enigma, ossia con l’unità di enigma, la specifica cellula, o lo specifico elemento, significante del racconto poliziesco.

Importa individuare nelle pagine prese a partito, un crescendo che assume la figura retorica della gradatio: ogni negazione successiva accresce il tasso di assurdo, ossia di mistero, contenuto dalla situazione fino a portarlo a una tensione di rottura: di là non vi potrà essere che la caduta nell’impossibile, nel razionalmente impossibile, o l’improvvisa virata imposta dal detective che riconduce la storia a una spiegazione logica.

Se si vuole applicare a questa analisi una certa terminologia usufruita felicemente da Barthes nel suo S/Z, si dirà che la sequenza citata si mette sotto il segno di un codice particolare, il codice della contraddizione: un assassino parla una lingua che non è in nessuna lingua. Questo codice è abbastanza attiguo a un altro che ha larga applicazione, nel racconto di Poe: il codice del bizzarro. Sotto questo codice si allineano tutti i dati che riguardano il detective, la sua persona, le sue abitudini di vita, i suoi processi mentali. Chi si prende la briga di una ricognizione anche superficiale delle pagine iniziali del racconto, scoprirà come l’aggettivo bizzarro ricorra con inequivocabile frequenza a proposito di Dupin (rilievo che naturalmente ha valore non soltanto in Poe costruttore di storie poliziesche) . Il codice del bizzarro copre, anche, s’intende, buona parte delle sequenze che riguardano il delitto attraverso l’uso dei sinonimi o quasi sinonimi, singolare, insolito, straordinario, outré – quest’ultima eccentrica sottolineatura, dal ricorso a una lingua straniera, prediletto anche per la sua forte rilevanza. Outré occorre sempre in caratteri corsivi, come significante caricato di un valore d’irradiazione che non è semplicemente quello certificato dal vocabolario.

L’uso del corsivo è un’altra idiosincrasia destinata a diventare quasi obbligatoria nei racconti e nei romanzi polizieschi: il corsivo funziona come una marca d’attenzione, un segnale che il carico intellettuale o emotivo del racconto sta aumentando: può essere anche il momento dell’inganno o/e del dépistage, oltre che quello immediatamente precedente la rivelazione. L’impiego che Poe fa in questo racconto del corsivo è talmente numeroso che non può essere scambiato per un tic o una civetteria occasionali: siamo alla presenza di ciò che si potrebbe chiamare un tratto soprasegmentale, di un valore della narrazione che non è né grammaticale, né semantico. Praticamente tutti gli autori di polizieschi successivi a Poe l’hanno seguito nello sfruttamento di questa risorsa, in apparenza solo grafica.

L’elenco dei codici che si alternano e magari si sovrappongono nel racconto potrebbe continuare. C’è il codice pseudoscientifico dell’analisi, nel quale s’inscrivono tutte le frasi e profondità inutili. C’ è il codice del grottesco-orribile. Il codice ermeneutico, ossia, quello che comprende tutti i discorsi esplicativi dell’enigma. Il codice dell’antitesi rispetto alle istituzioni legali, al Potere, che è quello che regola gli enunciati ironici di Dupin riguardo le risorse della polizia e le qualità intellettuali del prefetto…

Una disponibilità di tempo maggiore consentirebbe di circostanziare testualmente con le pezze di appoggio dei testi, affermazioni e indicazioni che qui sono solo enunciate.

Valga appena, per concludere di exemplum del racconto di Poe, che esso viola per prima anche una delle leggi del poliziesco, una di quelle poi direttamente o implicitamente codificate da Van Dine, con qualche pedanteria: assassino, in definitiva, non è un assassinato, cioè qualcuno che abbia premeditato, architettato e deliberatamente condotto a termine il delitto: difatti non è un uomo ma un animale!


* * *

Sherlock Holmes ossia il canone

Ciò che Poe ha creato o per dir meglio ha presentato allo stato esemplare, optimum, si istituzionalizza nei racconti di Arthur Conan Doyle del ciclo di Sherlcok Holmes, fino al punto di diventare proverbiale: Holmes rende giustizia alla massima créer un poncif c’est du génie. Discorrere di Sherlock Holmes e delle sue avventure ha questo vantaggio: che si può procedere per meri accenni, quasi per strizzatine d’occhio, per sottintesi, a tal punto il suo mito è diventato patrimonio comune, insieme di riferimenti posseduti dalla generalità, insomma dalla cultura.

Il punto di partenza più ovvio è quello messo in luce da Juri K.Scéglov nei suoi suggerimenti per la costruzione di un modello strutturale delle novelle holmesiane: la situazione S-D, Security-Danger. Si tratta della contrapposizione costante fra l’intimità domestica, il vivere civile, la sicurezza, il confort (l’appartamento di Holmes, la presenza di Holmes, le robuste pareti, il camino, la pipa e così via), e il mondo pauroso e misterioso che contorna questa cittadella.

«Tutta l’azione consiste – dice Sceglov, nello scontro, nella mutua penetrazione e nella lotta di questi due principi». Non si fa certo fatica a vedere questa polarità S/D coincide con quella intérior-extérior della quale si è trattato poco fa e che le motivazioni narrative e metanarrative con le quali ho rozzamente accompagnato quella prima esposizione calzano benissimo anche qui.

Che la situazione S-D sia fondamentale nella saga holmesiana è provato dal fascino di certe immagini, di certi standard narrativi (la carrozza che si fema alla porta, scaricando il personaggio in difficoltà, rumori dei passi sulla scala: «Ecco il nostro cliente, Watson…» - et similia – dei quali non si riuscirebbe altrimenti a giustificare il valore strutturale e la rilevanza emotiva, se non li si riconducesse a quella contrapposizione capitale.

«Questo schema – continua Sceglov – assume forme diverse ma senza mutare di sostanza, e viene riconosciuto in una serie di motivi, sia sul piano soggettuale che su quello descrittivo; fra essi possiamo, ad esempio indicare la lettura del giornale vicino al caminetto da parte di Holmes e di Watson; il guardare dalla finestra la nebbia e il maltempo nelle vie cittadine; il viaggiare in diligenza, cab o scompartimento ferroviario immancabilmente accompagnato dalla lettura dei giornali e dall’uso di guardar fuori dal finestrino,,, ». Aggiungerò che la situazione S-D rende ragione anche dell’importanza delle condizioni metereologiche, la cui indicazione è rilevante assai spesso nei racconti di Conan Doyle, sia dal punto di vista dell’aiuto o dell’ostacolo, che pioggia, neve, vento, fango, nebbia possono rappresentare per le indagini, sia dal punto di vista dell’impatto emotivo del racconto sul lettore (il caso dei Cinque semi d’arancia si apre mentre su Londra si scatena una terribile tempesta equinozionale: la furia naturale vale a sottolineare la furia indecifrabile ma umana della minaccia che investe l’infelice cliente John Openshaw e insieme fornisce ai sicari del KKK la miglior possibilità per eliminare il disgraziato).

A questo punto, giacché il testo chiamato in causa è quello dei Cinque semi d’arancia; osserverò che in questo racconto compare una formula d’apertura che si ripeterà in altri racconti della serie e che consiste nel sottolineare, la stranezza, la singolarità, la drammaticità unica del caso che il narratore si accinge a riferire, singolarità che viene accentuata dal paragone con altri casi di Holmes. Caratteristico è che, in generale, di tali casi-paragone non si troverà altra traccia, nel corpus narrativo fuori da questa sommaria apparizione: nell’esempio dei Cinque semi si accenna all’avventura della Paradol Chamber, alcaso della Società degli Accattoni Dilettanti, alla perdita del brigantino Sophy Anderson, alle singolari vicende dei Grice Paterson nell’isola di Uffa, al veneficio di Camberwell, delitti o inchieste di cui i lettori di Conan Doyle non saprano più nulla. Ma questa particolare formula, e altre equivalenti non sono affatto gratuite: da un lato esse creano una continuità fra i vari racconti, una sorta di indefinito intertesto che lega i vari exploits holmesiani narrati a tutta una catena di altri casi appena allusi, altrettanto o forse più clamorosi trasformando ogni racconto in un significante di un discorso assai più vasto: dall’altro, per dir così, iniettano nei tessuti attigui al racconto una dose supplementare di enigma, attraverso l’accenno ai casi che non verranno narrati, ma potrebbero esserlo, enigma il cui potere di stupefazione e quindi di emozione è accresciuto dal fatto che non metterà mai capo a una spiegazione (e si sa che la spiegazione logica finale depotenzia fatalmente il racconto per un fenomeno di entropia).

Lo sviluppo dell’azione e la tensione emozionale delle novelle sono dati dal radicalizzarsi della situazione S-D. Tipico dei racconti di Holmes è che ciò che si colloca sull’asse emotivo-tematico (ossia l’opposizione fra interno difeso ed esterno minaccioso, fra chiuso e aperto, fra pericolo e ricerca di aiuto, etc.) viene poi proiettato dallo svolgersi del racconto sull’asse della realtà effettuale, del movimento: dalla situazione si passa al referente. Così Holmes esce dall’appartamentino di Baker Street per andare a combattere all’esterno la minaccia: lo spostamento implica sovente il passaggio da un luogo civile, borghese, domestico a un luogo esotico o fortemente bizzarro. Spesso provoca una proiezione nel passato, alla scoperta delle radici lontane del male e della minaccia.

A volte, come osserva acutamente Sceglov, la casa del cliente vittima si divide in una parte moderna dove egli vive, e in un’altra antica, dimenticata dove si nasconde il criminale o il segno del delitto, o lo strumento delittuoso (si pensi alla cassaforte che rinchiuda il serpente usato dal dottor Roylott nel racconto La banda maculata).

La polarità S-D opera anche più sottilmente in certe avventure che poggiano sul fatto che la vittima di minacce abbia vissuto in passato una esistenza tutta diversa, delittuosa che ha poi cercato di dimenticare trasferendosi in altri Paesi e cambiando nome e identità, e alle cui conseguenze credeva ormai essere sfuggito (un esempio: oltre ai Cinque semi, il Gloria Scott, il Mistero di Valle Bosconde). Nel Gloria Scott, prima esibizione investigativa di Holmes, Conan Doyle usufruisce anche di un’altra trouvaille, già gloriosamente collaudata da Poe: la decrittazione di un cifrario segreto. Aggiungerò che nella persistenza di uno schema di base i racconti di Conan Doyle godono di una certa libertà di varianti: per esempio nel Cerimoniale del Mussgrave, a dare l’avvio non è il sempiterno cliente che bussa alla porta di Holmes ma le cose stesse a parlare, i reperti di antiche inchieste (un pezzo di carta spiegazzata, una chiave di bronzo, un cavicchio di legno, tre vecchi dischi di metallo rugginoso), che escono da un baule del detective a iniziare il discorso come l’orso che canta della favola.

Ma niente forse potrà contribuire alla nostra piccola inchiesta, meno di una rapidissima anatomia di uno dei racconti più tipici del corpus holmesiano: Il pollice dell’ingegnere.


* * *

Il pollice dell’ingegnere

L’ho sempre riguardato come un exemplum, una cartina di tornasole per la riabilitazione strutturale del racconto poliziesco; una delizia di abilità-ingenuità conandoylesca, reperto di Baker Street da consegnare aux scoliastes futurs, per esercitazioni di seminario. Come avviene sulla contrapposizione S-D security-danger, sicurezza-pericolo. È il Pericolo ossia il racconto del Pericolo, rappresentato dall’ingegnere che va a introdursi nella sede della sicurezza. Ma questa volta, elemento rilevante, il narratore non coincide più inizialmente con tale sede (Watson ha lasciato Baket Street dopo il matrimonio). Il movimento preliminare indispensabile sarà dunque di riportare minacciato e narratore nel luogo deputato della Sicurezza e della Ragione, la stanza di Holmes.

Da notare poi che in questo racconto il danno o minaccia o pericolo è stato già patito da colui che chiede soccorso: l’ingegnere ha perso il pollice e l’ingaggio, sicché tutto il successivo svolgimento non sarà affatto un agire, anche se vi realizzerà un altro inevitabile topos, il viaggio in treno, ma un’escursione meramente mentale su fatti già accaduti e quindi ormai eliminati, in quanto fatti, in quanto produttori di energia, di movimento e usufruiti unicamente come significanti cui occorre far coincidere un senso, perché il Racconto, in quanto Segno Globale, si completi e si chiuda.

La narrazione appare pertanto dominata da un massimo d’atarassia; è sempre in diretta dal resoconto dell’ingegnere fino ai sopralluoghi e ai dialoghi e alle spiegazioni di Holmes con l’amico e i poliziotti, giacché essi non generano nessuna possibilità cinetico-drammatica ulteriore, ma valgono solo a riordinare in un disegno finallora invisibile il già accaduto: qualità tipica del Racconto in quanto realtà di narrazione non realtà del referente.

Il grimaldello di questa storia holmesiana è profferto in limine con il debito orrore anatomico: la mutilazione dell’ingegnere il cui pollice è stato reciso «da qualcosa che somiglia a una mannaia. Non ci vuole molto a riconoscere qui la raffigurazione tipica di castrazione subordinatamente confermata dalla forma alta di phallus propria della parte ghigliottinata (l’autonomia deferita nell’ordine del racconto al dito tagliato e perduto, autonomia altamente significante, si trova ribadita se ce ne fosse bisogno dal ritrovamento che i pompieri fanno di tale reperto nella casa in fiamme).

Il pollice reciso, assente continua ad essere in sé totem o prolungamento di una minaccia paterna: l’orfano temporaneo, ossia Watson senza Holmes, e la vittima della castrazione riparano insieme ad una istanza che è anch’essa, seppur in diverso modo paterna, il famoso appartamento di Baker Street è la fase indispensabile introduttiva, cui tiene dietro il racconto della vittima che provvede il lettore in successione delle seguenti figure-guida:


A sua volta la spiegazione di Sherlock Holmes si articola così:

- il mantello asciutto del cavallo

- il cerchio di dieci miglia di raggio tracciato intorno ad Eyford sulla carta topografica

- «avete tutti torto» e il punto indicato da Holmes al centro del cerchio; il processo mentale di Holmes nel saltare oltre la trappola del viaggio simulato dell’ingegnere, rimanda all’affermazione di Dupin secondo la quale i nomi meno visibili su una mappa non sono quelli scritti in carattere più piccolo, ma quelli in carattere cubitale - vedi Lacan nel suo seminario della Lettera rubata.


Riassumendo e semplificando la serie tematica che regge come una spina dorsale il racconto sarà dunque: segreto-viaggio-notte-lanterna-carrozza-finestra-luna-mannaia-pollice-fuoco. Sono evidentemente temi che hanno svolgimenti, ampiezze ineguali e ineguale peso (uno solo di essi il Pollice, è l’anello chiave, la nota sulla quale si intonano tutte le altre), ma funzione analoga: costituiscono difatti una catena di Significanti il percorso della quale dà appunto né più, né meno che il Racconto.

Come in ogni narrazione poliziesca il delitto lascia dietro di sé dei sintomi, delle tracce che vanno interpretati, cioè dotati, di un univoco significato dal detective; e il compimento di questa operazione, che diremo di attribuzione di senso, coincide con la scoperta del colpevole e con la fine del racconto; così questi significanti sfilano attraverso il racconto in una ricerca di significato.

Ma a differenza di quanto avviene nell’ordine aneddotico per l’investigatore l’incontro di ciascuno di tali significanti con un significato non è unico, né garantito. Ecco perché nessuna narrazione poliziesca è mai semplice: dentro di essa il vero Racconto è dato dall’insorgenza di questa catena aperta di significanti. Ma il modo di procedere tipico del racconto poliziesco è metafora di ogni Racconto. Non per niente, Edipo, presiede en maître tanto alla tragedia classica, quanto all’indagine criminale.


* * *

Enigma, rebus e lapsus

Un racconto poliziesco è un racconto ossia un fatto linguistico come ogni racconto. Ma la natura linguistica di un racconto poliziesco è per così dire raddoppiata. Mi spiego: mentre in una storia qualunque per convenzione narrativa gli eventi e le soluzioni si producono nel referente, nella realtà – beninteso fra virgolette – cioè in uno spazio che è dato come extralinguistico, extraletterario, nella storia poliziesca, che pure si vanta di pescare nel reale più concreto e crudo (assassinio, violenza, avidità di denaro e di beni, etc.), la sostanza del racconto stesso, vale a dire l’enigma e la sua soluzione, è di solito di natura squisitamente verbale, è insomma un gioco di parole. Tale sostanza non differisce molto da un rebus, da un anagramma, da un cambio di vocale o di consonante, e così via. Il riferimento a tutte queste istituzioni enigmistiche, che spesso viene portato avanti come prova del carattere inferiore della narrativa poliziesca (non è né letteratura; non è arte, è semplicemente un gioco arido e meccanico… etc.) mi pare invece costituire una pezza d’appoggio in favore della qualità esasperatamente linguistica, letteraria del racconto medesimo.

Ogni buon lettore sa per esperienza che molto spesso la scoperta dell’assassino e lo scioglimento del mistero nascono da una frase pronunciata da un testimone, o della vittima al momento di morire, o magari dallo stesso colpevole: frase che solo alla fine viene interpretata nel suo vero significato; oppure nasce dallo scontro di due deposizioni (di due racconti, di due strutture verbali) inconciliabili; da una metafora che prima non era stata individuata; da una sequenza logico-verbale della quale viene finalmente rintracciato l’anello mancante; frequentemente da una sviata, da un cedimento linguistico del colpevole, ossia da un suo lapsus. Del resto lo strumento privilegiato dall’inchiesta è l’interrogatorio, ovvero uno scontro di discorsi, fra il Discorso-che si-nasconde e il Discorso decrittatore. Farò qualche esempio.

Uno dei casi più semplici di impiego della ambiguità è offerto da un romanzo , di Dickson Carr della serie Patrick Butler, in cui la vittima morente può esalare solo due parole in apparenza insensate: «i guanti» sono dunque «les gants», ossia l’omofono del nome di uno dei personaggi, Legrand, che è appunto l’assassino. Ma la vittima è francese e parla francese: i guanti sono dunque les gants. Quei guanti diventano la denuncia aperta del colpevole, una volta che si sia saputo trattare il materiale verbale in maniera adeguata (la menzogna metonimica di Barthes).

Un caso ancora più complesso ed elegante per la catena di implicazioni simboliche cui dà luogo, si ha nel romanzo di Ellery Queen La lettera scarlatta. Uno dei personaggi, morendo impallinato, traccia sul muro una doppia croce con il proprio sangue. Ovviamente una indicazione in extremis, una denuncia disperata secondo il canone poliziesco. Ma per interpretarla bisogna prenderla esattamente alla lettera: sempre, s’intende, nel sistema linguistico inglese in cui è scritto il libro (double cross significa doppia croce, ma vale anche to double-cross, vale a dire tradire). La vittima è stata tradita da una complessa messinscena dell’assassino che si è servito di essa come di una marionetta: una volta così interpretata la lettera del messaggio, l’indicazione dell’assassino diventa agevole. Nel libro il gioco di parole che è alla radice dell’enigma viene, secondo il costume barocco di Queen, sottolineato, arricchito, sofisticato da una serie di connotazioni e iperdeterminazioni: le lettere del titolo costituiscono una anfibologia, valendo come lettere tracciate dalla vittima sul muro, e lettere, ossia missive di ricatto spedite dal colpevole a una donna per architettare una sua trappola mistificatoria; e sono scarlatte non solo perché tracciate con il sangue sul muro, ma perché, più modestamente, scritte in inchiostro rosso. Il mistero, l’ambiguità di senso, e dunque il piacere, la gratificazione del lettore, sono determinati da questo continuo andirivieni fra campi semantici insieme continui e diversi.

Il principio di identità è pertanto sostituito dal principio di somiglianza, che lega (come dice molto bene Narcejac) «una immagine a un’altra immagine».

Non sarà nemmeno necessario che, a illuminare con qualche nobile antecedente, tale processo narrativo. Possiamo ricordare Raymond Roussel e le sue spiegazioni sulla genesi di certi suoi libri, e in particolare Impressioni d’Africa. Quel testo rousseliano emerge fra due frasi letteralmente identiche (a parte una b sostituita da una p), ma di significato divergente: Les lettres du blanc sur la bandes du vieux billard / Les lettres du blanc sur la bandes du vieux pillard… E il gioco sul significante lettere è quello medesimo usufruito da Queen. Il quale poi, con il suo libro, rimanda anche a un riferimento culturale: La lettera scarlatta di Hawthorne: dopo tutto anche il poliziesco di Queen è imperniato su un adulterio. Ha ragione Nercejac di definire Queen, a suo modo, l’ultimo dei grandi retori!

Serviamoci anche noi per qualche sondaggio critico del pied-de-lettre, assumiamo certe espressioni del linguaggio comune nel loro valore letterale. Un apprezzamento comune (denigratorio, solitamente) è che il poliziesco si fonda su un indovinello, su un rebus. Rebus, dice il vocabolario, è un gioco enigmistico nel quale determinate lettere, poste su figure di persone, animali o cose di una scenetta disegnata, permettono di comporre una parola o una frase: aggiungono un significato diverso da quello letterale, apparente della scenetta.


* * *

Apro L’interpretazione dei sogni di Freud all’inizio del VI capitolo: «I pensieri del sogno diventano immediatamente comprensibili appena li abbiamo scoperti. Il contenuto del sogno è invece espresso in una specie di scrittura figurata, i cui caratteri debbono essere tradotti singolarmente nella lingua dei pensieri del sogno. Se cercassimo di leggere questi caratteri secondo il loro valore raffigurativo, e non secondo il loro rapporto simbolico saremmo certamente tratti in errore. Supponiamo che io abbia davanti a me un rebus: si vede una casa con una barca sul tetto, una lettera dell’alfabeto isolata, un uomo che corre la cui testa è stata fatta sparire, e così via. Ora potrei sbagliare e sollevare obiezioni affermando che l’immagine nell’insieme e nelle singole componenti è assurda… Ma ovviamente possiamo formarci un giudizio adeguato del rebus, se mettiamo da parte questo genere di critiche su tutta la composizione e sulle sue parti, e cerchiamo invece di sostituire ogni singolo elemento con una sillaba o una parola in qualche modo connessa a quell’elemento. Le parole messe insieme in questo modo non sono più assurde…».

Il delitto, ossia la trama architettata dall’assassino è l’equivalente dei pensieri del sogno: appena si riesce a raggiungerla, appare chiara e perfettamente comprensibile; ma essa, per astuzia del colpevole o per concorso del caso è stata ritrascritta nelle cose, negli eventi usando un altro linguaggio, il linguaggio del rebus e il risultato di questa riscrittura, che il detective e il lettore si trovano davanti e che sono chiamati a decifrare, è appunto un rebus. Compito del detective è di passare da questa rappresentazione pittorica degli avvenimenti al senso che vi è infrascritto. Se vogliamo parlare di rebus per il poliziesco, facciamolo pure, ma accettandone un valore molto più ampio e suggestivo di quello convenzionale, nell’intenzione della famosa frase lacaniana: «Rebus, c’est par vous que je communique» (cfr. Delitto alla rovescia).

Siccome siamo arrivati alla porta di papà Freud (rebus, lapsus) andiamo pure avanti, si capisce senza pretendere rigore scientifico, con Ellery Queen Dieci incredibili giorni, ossia Ten days wonder è uno dei romanzi più elaborati (nel senso fin qui illustrato) e capziosi del nostro autore. Tutto il meccanismo degli impulsi che comanda il delitto e il suo aspetto eccentrico e incredibile è imprestato, certo con qualche superficialità, da Freud: complesso edipico, complesso di castrazione, figura del Padre, etc. Quanto discutibile l’impiego psicologico, o meglio psicoanalitico di tale materiale, non è il caso di indagare: sta invece il fatto che la proiezione strettamente narrativa, ossia la costruzione (sintassi) di tale materiale è impeccabile e rivela un gusto sottilissimo e perfino ironico. Fa qui la comparsa un altro strumento tipico insieme della psicoanalisi e della linguistica, un artificio che rimanda a Freud come a Saussure: l’anagramma. È attraverso la ricomposizione anagrammatica del soprannome che il grande Dietrich van Horn ha dato alla moglie giovane (Salomina) che il detective arriva non solo a identificare l’assassino, ma ciò che più importa, il perché di tutta una costruzione complessa e assurda che ha trasformato una vendetta in un rebus. Qui Ellery Queen convoca a dar man forte a psicoanalisi e linguistica anche all’ipoteca teologica, Il vecchio Testamento, le Tavole mosaiche, i dieci comandamenti. Certo l’identificazione del Padre con Dio è ovvia, ma la serie dei passaggi di identificazione e disgiunzione, ciascuno dei quali comporta un aumento d’assurdo ossia di fantastico nella storia avviene lungo una catena significante altamente siggestiva nella sua ingegnosità. Nessun lettore, alla fine del libro, può dirsi logicamente persuaso: ma fantasticamente persuaso sì.

Citiamo ancora il prezioso Narcejac: «L’anagramma è ciò che conferisce al romanzo poliziesco la sua terza dimensione». Con il meraviglioso linguistico si passa dall’altra parte dello specchio. Di questa rincorsa al meraviglioso verbale, all’ircofantasia logica, sono reperibili esempi sempre più complessi e persino esorbitanti. Carter Dickson, ossia Dickson Carr, ed Ellery Queen ne sono i somministratori più eleganti e inesauribili: si pensi a L’origine del male e a The finishing stroke, di Queen. Nel primo addirittura Darwin e la scala dell’evoluzione comandano la struttura del delitto ossia del mistero. Nel secondo, l’alfabeto fenicio nella sua successione è lo schema ideale sul quale è stato organizzato e ritmato il crimine, e secondo il quale sono esplose le sue manifestazioni più assurde. Forse poche altre volte il carattere verbale, addirittura tipografico dell’enigma poliziesco è stato denunciato in maniera più clamorosa e con maggior virtuosismo.


* * *

A questo punto vorrei proporre un piccolo accertamento di tipo metodologico. L’enigma, il mistero o comunque lo si voglia chiamare è idealmente al centro del poliziesco. Nella pratica la dose, o il tasso di mistero, si ripartisce inegualmente attraverso la narrazione: a una dose massiccia iniziale seguono altre dosi minori, rafforzate, di solito, a metà racconto, quando la tensione narrativa sembra flettere da una nuova somministrazione consistente; poi nel suo secondo arco il racconto riduce sempre più il margine di mistero man mano che aumenta l’elemento della decriptazione, ossia della scoperta (lavoro del detective) fino alla conclusione in cui il mistero è ridotto a zero e la conoscenza raggiunge il suo massimo.

Ma ecco la domanda: è possibile isolare, nell’insieme della quantità di mistero, un elemento qualitativo di base, cioè la più piccola unità enigmatica, ciò che in un racconto, o in un romanzo, rappresenta la specificità del mistero sul quale il racconto stesso poggia? Si tratta di determinare il tratto che contiene l’elemento minimo ma sufficiente e necessario per iniettare al testo la sua carica enigmatica: insomma la prima articolazione dell’enigma. Quando si dice unità s’intende il termine in modo relativo. Questo elemento di base può essere un oggetto, una parola, una persona, un fatto, ma generalmente è un rapporto: una relazione fra fatti, fra oggetti, fra parole, una situazione; è una unità di base in quanto non è possibile frazionarla in elementi minori senza che l’effetto d’enigma si disperda e senza che gli elementi inferiori, in cui viene ripartita perdano ogni carica misteriosa. Non è un significato, ma un segno. È il segno dell’insorgenza di una ambiguità o assurdità o inspiegabilità: una insufficienza non della forma, ma del senso; è il sintomo, o simbolo, di una malattia della significazione (Narcejac). Costruendo un termine per analogia su altri termini familiari ai linguisti e agli etnologi lo potremmo chiamare enigmema.

Così, tanto per esemplificare, nel racconto conandoyliano I cinque semi d’arancia, l’enigmema sarà costituito appunto dai semi dell’arancia che le vittime ricevono come annuncio di morte: essi sono in effetti, anche nel valore linguistico, i semi di una storia lontana di sopraffazioni e complicità, le radici del delitto (perché? come?) il segno obiettivo di uno stato di pericolo, l’elemento ripetitivo, ossessivo del discorso.

Nel già citato di Queen Delitto alla rovescia l’enigma è costituito dall’elemento, iterato fino all’assurdo, dal rovesciato. Nel racconto di Poe, Gli assassinii della rue Morgue è, come già si disse la voce che parla una lingua che non è nessuna lingua. In un recente romanzo di P.D.James, Unnatural causes, è una mutilazione, le mani, assurdamente recise alla vittima e scomparse. Inutile aggiungere che l’enigmema si definisce piuttosto in rapporto alla narrazione, che in rapporto al referente, ossia alla supposta vicenda reale che costituisce il racconto o romanzo: la sua efficacia si determina nell’economia del racconto, non nell’economia della fabula. Esso dunque è un elemento letterario.


* * *

Logica del meraviglioso, codificazione.

A questo punto del discorso credo appaia già largamente dimostrato come il poliziesco sia ben altro che un semplice gioco enigmistico, un meccanismo a indovinello che non va oltre la messa in opera di certe regole, secondo l’opinione di una certa parte di lettori (e magari di autori) e secondo la convinzione di quanti lo respingono fuori dei recinti letterari. In effetti la finalità di un romanzo poliziesco non è semplicemente di fare uscire dal cappello di una comunità di sospetti il coniglio del colpevole meno prevedibile, gesto che definirei di mera aritmetica, evidentemente anticipabile dal lettore medio con un po’ di esperienza, e in ogni modo rapidamente esauribile proprio sul piano matematico delle combinazioni possibili. Il piacere che ricaviamo dalla lettura di un buon testo poliziesco (posto che dopo Barthes si sia riautorizzati a parlare di piacere riguardo alla letteratura, senza accedere a una imperdonabile leggerezza teoretica), questo piacere dunque nasce come in qualsiasi altro testo senza etichetta, dalle attese, soddisfatte o contraddette di certe strutture, di certi enunciati, insomma, di certe forme, sia lessicali sia sintattiche; dallo svolgersi dei momenti, preveduti o inaspettati, di una particolare grammatica narrativa.

Non c’è dubbio che in un romanzo poliziesco le parti che chiamerò di gratificazione da attesa rispettata e quelle di gratificazione da aspettativa negata, ossia violazione deliberata di alcune regole si equilibrino fifty-fifty. Vale a dire che il rispetto del canone va di pari passo con la sua trasgressione. La vera sorpresa non è tanto quella convenzionale dell’ultimo (anzi penultimo capitolo, l’ultimo essendo riferito alla spiegazione), ma quella che si costituisce via via attraverso tutto il racconto, mediante le violazioni delle quali si parlava prima.

Si è accennato già al connotato tipico del poliziesco: il fantastico come malattia della significazione. Non si tratta già dell’impegno, secco, arido, ridotto di costituire un colpevole alla fine di una setacciatura meccanica dei possibili candidati a tale ruolo. Il poliziesco aspira a qualcosa di più: esso mette in atto, o almeno vorrebbe mettere in atto, una sorta di oscillazione crescente dei sensi, dei significati, una distorsione della lettura delle cose e dei gesti; una deliziosa instabilità logica dentro una sequenza incalzante e concreta di comportamenti. Il romanzo poliziesco è, sotto un certo riguardo, un romanzo behaviourista, comportamentale, ma dall’altra parte è fondato sul principio che questi comportamenti non sono altro che la scrittura, il linguaggio di un senso globale che deve rivelarsi al termine del racconto. Si può parlare del romanzo poliziesco come di un romanzo d’avventure se ci si affretti a precisare che qui l’avventura è per eccellenza l’avventura della significazione.

Il lettore si può chiedere legittimamente: chi è stato? Come è avvenuto? Cioè: interrogarsi sul senso e attendersene la finale gratificazione, proprio perché nel racconto poliziesco i Significanti sono stati liberati dalla connessione univoca con un senso, cioè è stato interrotto almeno temporaneamente, il classico nodo del segno secondo Saussure.

Tale dislocazione del significato costituisce il meraviglioso del poliziesco, che si diversifica da quello della favola, della storia sovrannaturale, del racconto dell’orrore, etc., perché si articola e dispone secondo una logica rigorosa che è, almeno in apparenza, la logica delle realtà naturali, umane senza nessuna trascendenza; al limite, la logica scientifica. In effetti questa logica che guida il meraviglioso, ossia il sorprendente è a sua volta meravigliosa: vale a dire essa si serve sì degli strumenti accettati dal principio di causalità a quello di identità di contraddizione, al principio del terzo escluso, etc., ma impiegandoli per dir così metaforicamente, simbolicamente, facendo cioè subire loro, nel rispetto di una impeccabilità formale, una tipica curvatura fantastica. E appendendo queste catene logiche a chiodi di eccezione.

Il regno del poliziesco non è dunque quello del probabile, del plausibile, ma quello del logico dentro l’eccezionale. Le capacità logiche del lettore vengono insieme soddisfatte dal testo, secondo quel doppio regime che abbiamo delineato più sopra. Siamo, si dirà, piuttosto nel regno del paralogismo (?): non ho nessun imbarazzo ad ammetterlo.

L’importanza del meraviglioso e della sua logica trova il suo trionfo nel romanzo poliziesco, con il ricorso alla forma del Delitto nella stanza chiusa che si enuncia così: nessuno è entrato, nessuno è uscito, eppure un delitto è stato commesso. Naturalmente il lettore, sa, sappiamo tutti che l’enunciato formalmente impeccabile è nella realtà inesatto: qualcuno è entrato e uscito, prima dopo che la stanza venisse chiusa; è una distorsione semantica dei termini chiuso, nessuno, che rende possibile l’enigma e dunque il racconto. Sappiamo tutti, come lettori, che l’inganno, è diciamo così, di tipo linguistico, che nessun elemento soprannaturale può essere consentito dal canone. E tuttavia accettiamo alla lettera l’enunciato perché esso in tal modo crea una zona indefinita di meraviglioso.

Uno dei migliori autori di polizieschi, Carter Dickson, ossia Dickson Carr ha intuito benissimo che il ricorso alla Stanza chiusa non è un semplice artificio per complicare le cose, una specie di virtuosismo gratuito in più, ma investe e soddisfa le attese di fondo del lettore (e prima ancora del racconto). E di fatti si possono contare sulla dita della mano i suoi libri che ne facciano a meno (quando manchi tale forza è rimpiazzata da una invenzione analoga, sostitutiva). Occorrerà appena sottolineare poi che la formula delitto nella stanza chiusa, risponde anche a quell’elemento fondamentale del luogo determinato di cui si parlò accennando alla condizione S/D: salvo che qui il luogo chiuso non è più il luogo della sicurezza, ma quello del pericolo, anzi della morte.

Chesterton ha avuto una esatta intuizione del valore del meraviglioso logico nell’ambito del romanzo o racconto-enigma, quando ha pensato di allargarlo verso il fantastico, ovvero il meraviglioso metafisico. Se la forma ideale di un poliziesco è quella di un quadrato, ossia di uno spazio chiuso definito da rette uguali che si rimandano l’un l’altra, Chesterton con le inchieste di Padre Brown, ha smussato uno degli angoli, dando vita a una nuova figura: un quinto lato asimmetrico si apre su una dimensione indefinibile, la narrazione non si determina più solo rispetto alle regole dell’organizzazione sociale (capitalistica) e alle regole della costruzione letteraria (genere poliziesco), ma, per dir così, anche rispetto alle regole della teologia. È vero che questa quinta dimensione chestertoniana è in effetti una apparenza, un gioco di specchi, dico sempre a livello del racconto, che non altera le esigenze narratologiche, ma con quella che è essenzialmente una moltiplicazione del meraviglioso, aggiunge una risorsa in più. Proprio un racconto della saga browniana, intitolato La forma sbagliata, viene a taglio per finire di illuminare le funzioni del poliziesco.

The wrong shape, la forma sbagliata è quella del foglio lasciato dal defunto Quinton e che contiene apparentemente la confessione di suicidio. Ma la forma sbagliata è anche quella di un coltello indiano raccolto da Padre Brown fra l’erba; quella dei geroglifici tracciati dal sigaro acceso di Padre Brown, ed è, percorrendo la catena dei simboli, la magia, forma sbagliata dello straordinario religioso, etc. Tutto il racconto è costruito su un accavallarsi di forme: a cominciare dalla forma a T della casa del delitto, che ha una importanza non trascurabile nella meccanica del delitto. Qui il vero, vorrei dire esemplare enigmema, non è se Quinton sia stato ucciso, o se si sia tolto la vita, oppure chi l’abbia ucciso, e perché; è un foglio di carta al quale è stato tagliato via un angolino determinando appunto una forma sbagliata.

Con la sua dimostrazione Padre Brown enuncia una verità che va benissimo anche per il poliziesco: «La mente moderna confonde sempre fra loro due idee diverse: mistero nel senso di ciò che è meraviglioso, e mistero nel senso di ciò che è complesso…». Nel suo perseguire il meraviglioso il romanzo poliziesco rischia sempre di dare nel complesso gratuito nel macchinoso: il suo optimum è dunque un mistero così semplice, così ingegnosamente meraviglioso, da sfidare la spiegazione.

Se mi consentite di usare per l’ultima volta la struttura binaria che ha fatto le spese di una gran parte di questa chiacchierata, dirò che il racconto poliziesco è il prodotto della sovrapposizione di una forma sbagliata, a una preordinata forma giusta che resta di imbonimento, ma operante e che affiora solo alla fine: quando le due forme, come i due fogli nel racconto chestertoniano, saranno fatte simbolicamente combaciare e verrà resa piena ragione dell’errore, ovvero del mistero.


* * *

Come credo sia risultato chiaramente da tutto l’excursus il romanzo poliziesco è soggetto a una codificazione molto più numerosa di quella alle quali sottostanno altre forme narrative. Una delle regole tipiche del poliziesco nella sua fase più matura, quando cioè ha preso chiaramente coscienza della propria essenza e funzione, è quella che esprimerei (ancora imprestando la terminologia di Genette) con l’etichetta di prolessi, vale a dire l’anticipazione di fatti o meglio di intere sequenze, che, secondo il processo lineare della narrazione, dovrebbero venire più tardi, addirittura alla fine. Un tipo di prolessi l’abbiamo già veduto parlando dei racconto holmesiani e consiste nel dare un giudizio dell’avventura che ci si appresta a narrare. È in limine che il narratore-Watson segnala al lettore-postumo: il caso che si prepara ad esporre è il più bizzarro, il più drammatico, il più sorprendente della carriera del detective. Gli aggettivi in questo caso coprono un campo semantico abbastanza ristretto; e non ha nessuna importanza, che poi obbiettivamente, il caso non si riveli così straordinario e conturbante. La motivazione di tale tipo di prolessi, motivazione che non è semplicemente retorica bensì funzionale, come s’è detto.

Ma la prolessi può avere struttura più ampia, meno accidentale: per esempio nella forma prediletta da uno scrittore come Carter Dickson, Dickson Carr. Qui la prolessi (si veda il capitolo iniziale delle Tre bare) assume il carattere di una vera micronarrazione anticipata, cioè di una esposizione brusca, con fortissime contrapposizioni intimidatorie, degli shock logici ed emotivi del romanzo. Anticipando talune svolte particolarmente assurde della storia che il lettore incontrerà poi leggendo il libro, sottolineando il lato oltranzistico, dal punto di vista della credibilità, della vicenda che si deve ancora srotolare (nel romanzo citato subito si allude all’«assassino invisibile… più leggero dell’aria», l’impossibilità fisica di due omicidi in certe circostanze) l’autore non ottiene semplicemente lo scopo ovvio di stimolare l’interesse del lettore, di complicare l’enigma, ma ribadisce visibilmente il carattere inverso di ogni racconto poliziesco (dalla fine si va al principio, il suo affascinante e frustrante procedimento retrogrado. Esaspera così il tasso di meraviglioso che la storia contiene («Siamo in un racconto…».

Il codice del poliziesco, come ovvio, contiene molteplici varianti e ogni scrittore può aggiungervi la sua. Questo codice, come sostiene qualcuno, (si veda anche il recente scritto di Giorgio Melchiori su Rinascita n.4, del 23 gennaio 1976, in occasione della morte di Agatha Christie), è poi davvero così strettamente determinato da una certa organizzazione sociale ed economica, da non potere più presentare risorse, da essersi completamente inaridito parallelamente allo scadere di vitalità e credibilità, di quel certo sistema? Insomma il poliziesco è ossificato dal fatto di presentarsi come «accettazione della classe dominante, la borghesia, di un codice di comportamento inteso a far coincidere valori morali, religiosi ed economici con gli interessi della stessa e con i privilegi da essa conquistati, identificando la Verità assoluta con la giustizia amministrata dagli uomini e con il trionfo di un razionalismo positivista che non ammette deroghe o dubbi»? Il romanzo poliziesco muore perché muore, grazie al cielo, il privilegio borghese?

Quel po’ di discorso fin qui abbozzato dimostra, io credo, che tale identificazione assoluta non sia esatta. È vero che la struttura consueta del poliziesco si giustifica dentro la struttura amministrativo-giudiziaria, di uno Stato capitalistico moderno (un romanzo poliziesco di frontiera, cioè ambientato alla nascita di tali strutture, è stato tentato da Dickson Carr con Fire, burn!, ma è altrettanto vero che pure al di fuori delle forme socio-economiche capitalistiche, e dai clichés letterari corrispondenti, è concepibile una storia di detection, di delitto-indagine-soluzione.

Forse una prova pratica, ancorché abbastanza ingenua, del tipo «provare il moto camminando» la diede Richard Matheson con le storie poliziesche uscite in Italia sotto il titolo Il genio indaga, ambientato in ogni epoca con detective d’eccezione (uno di essi, se ben ricordo, era Leonardo da Vinci).


* * *

La questione dei rapporti fra organizzazione sociale e poliziesco non è naturalmente tanto semplice, da spacciarla comme ça. Basti qui avervi accennato, ricordando, contro ogni eventuale accusa che la relativamente breve indagine, ormai alla fine, proponeva un campo di ricerca ben determinato, che solo occasionalmente poteva incontrarsi con quello di una analisi sociologica.

Accettata la doppia formula della logica del meraviglioso e del meraviglioso della logica, non solo si modifica la valutazione della natura e delle funzioni del romanzo poliziesco, ma la stessa ipotesi di un fatale esaurimento del genere. Lo spazio in cui operano le invenzioni del poliziesco, è lo spazio dell’immaginario, nel significato lacaniano del termine. Sciascia in un saggio molto acuto ha messo in rilievo l’ambiguità tipica del racconto di delitti e detection: l’esigenza della rivelazione e il timore della scoperta, per inconfessata solidarietà con l’assassino, come colui che ha infranto la regola; e dunque conflitto fra orrore della trasgressione e piacere della trasgressione.

Sul carattere finale deludente o almeno non gratificante dello scioglimento dell’enigma, cui accenna lo stesso Sciascia (e che Narcejac qualifica con termine imprestato dalla fisica, di fenomeno fatale d’entropia): non ci si potrà soffermare, ahimé, oltre questo fuggevole accenno. Solo di volo accennerò, per confortare la mia convinzione che il genere narrativo del quale si è parlato finora non sia irrimediabilmente chiuso a esempi sia pure d’eccezione, che paiono andare di là del canone, pure rispettandolo. È il caso della Promessa di Dürrematt, ingannevolmente sottotitolata Requiem per il romanzo poliziesco; delle Gomme di Robbe-Grillet; del racconto borghesiano La morte e la bussola. Nella Promessa la inevitabile coincidenza finale fra la storia dell’inchiesta e la storia del delitto manca, perché qui il Caso prevarica sulla logica per uno scarto o clinamen infinitesimo ma fatale. Nelle Gomme, come mi capitò di dire, si dà al lettore enigma senza soluzione ossia un enigma aperto a infinite soluzioni (ma Fabius di cui si accenna nelle pagine di Robbe-Grillet, «ha smesso di credere all’esistenza di una soluzione purchessia»). La morte e la bussola è un racconto poliziesco impeccabile secondo le regole; eppure è tutt’altro, per via di una straordinaria distorsione simbolica che dimostra quanto possa essere ancora ricco il genere.

Non si chiude dunque su nessun requiem, come non si chiude su nessun proclama provocatorio. Il detective, ossia il lettore, del racconto poliziesco è Edipo?

Se lo è, lo è in un significato molto più complesso e sfumato di quanto non importi l’ovvio richiamo classico. Dopotutto, per ascoltare ancora Barthes, l’Edipo, insieme con la frase è una invenzione coeva del racconto.