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Silvio Aman



Lesa sul Lago Maggiore, 3 marzo 2014

Caro Silvio,

sto sfogliando giorno per giorno L’orifiamma nella bella edizione di “Nomos” e con la puntuale e raffinata introduzione dell’amico Vincenzo Guarracino. Dico, sto sfogliando con calma perché un testo tanto vasto e a suo modo complesso non può essere certo letto come quelle banali raccolte di cosiddette “poesie” che a centinaia in un anno arrivano alla redazione di “Testuale”.

Prima di entrare nel merito di qualche osservazione, per l’appunto testuale, poiché, se non avrai nulla in contrario, “Testuale” (è in lavorazione in web il n.53/2014 – www.testualecritica.it) , pubblicherà questa breve missiva nella rubrica “Letterale”, inizio fornendo una notizia certo non secondaria ai lettori del nostro periodico.

Le sezioni della raccolta sono otto:

Nursery (i floreali sogni dell’infanzia), Germogli (le primavere della natura e della psiche), Piccolo diario della neve (il canto delle vette), Orli notturni (il segno dell’l’eros e i fantasmi della notte), Variazioni (le dinamiche visioni inintuibili della mente e della memoria), Le stanze dell’apolide (la dismisura della terra e il riparo dalle delusioni fra le gentili immagini), La giovane straniera (le rivelazioni degli amori non riconosciuti, ma intrisi di parola sensuale ), Consigli per la semina (bucolico invito a spargere i semi con allegria – poetare con felicità).

Non è possibile cogliere l’interno e l’esterno (ora e oltre) di questa tua poesia, fra le tue più ricche, prescindendo, almeno ‘alla buona’ (Vincenzo mi perdonerà la vaga parafrasi), da alcune indicazioni dello stesso Guarracino: «… l’interpretante… Cos’è un interpretante? È il referente testuale che dice molto più di quello che apparentemente sa, possedendo la matrice della poesia in presentia, cioè letteralmente esposta, ossia fuori e in capo stesso al testo… Qualcosa che almeno nel sogno, nell’immaginazione, intervenga e modifichi il flusso anonimo delle cose… ». Aman avverte « questa illusione, e questa coscienza della fuga … In ogni caso, è una poetica, una dichiarazione di poetica… un modo di porsi di fronte al mondo… a un vissuto di incontri… da una vita di confine…».

Potremmo permetterci di dire che questa condizione è comunque tipica della poesia, quando sia poesia. Ma ci sono molti modi autentici di fare poesia: ora tu, in questa tua più recente prova, per ridirla con Guarracino dai la misura (smisurata…) «evocata su scenari iperdeterminati con meticolosa (…) esattezza, in un linguaggio di squisita inattualità».

Ecco: è il momento (oggettivamente imprendibile…?) di questi versi, detti in pacata, calma nostalgia, mai evocata drammaticamente: bensì con serena, seppur interiormente, nascostamente turbata, vibrante coscienza della natura delle cose, dell’essere. Oltre, di fuga in fuga, a una sottintesa fine nella eternità del verde.


Se viaggio fra le pagine (ma, ripeto, molte altre soste dovrò fare), ora, a prima vista – forse mi sbaglio? –, trovo assolutamente pertinente quel titolo: L’orifiamma, il gonfalone, lo stendardo di parata, dietro il quale per lunghissimo tratto s’avanza lentamente e silenziosamente (la tua parola è nell’insieme paradossalmente, ma non molto, sommessa e dolcemente silente) una processione di pensieri, una sequela di ‘ambigue’ proposte, di canti a bocca chiusa, di mormorii. Segue con estrema ordinata coerenza un folla in cui, nell’andare per la lunga via, ogni segno si manifesta per confondersi con il segno successivo, fino ad una visibilità complessiva sovrapposta, coinvolta in una ‘nebbiosa’, sognante prospettiva. Voglio dire per esempio, prelevando un tratto qualsiasi, che (cito da Feur): Formavano ghirlande e aiuole / in tinte spesso irreali… e mi figuro, per fare un facile paragone, una visione impressionista che da un primo piano relativamente chiaro e contrastato va via via in lontananza sfumando verso un indistinto confondersi di tinte, appunto, irreali, come dici, quasi fra loro non distinguibili... Ormai fermate nello spazio, a dispetto del tempo che ormai trascorre senza farsi riconoscere. Tanto che lo stesso orifiamma non si distingue più, sebbene sempre lo si immagini presente, in testa alla parata.

Voglio leggere qui Fortuna:


Non puoi far niente / o accogliere felice il suo bel sì: // lei lo pronuncia a bassa voce / e subito è accettato dallo spazio, / dall’orlo risonante del bicchiere / ai più lontani anelli. // È rapida la strada al suo messaggio / e lì non c’è progresso, / ricorda un regno fermo / a strane leggi ataviche. // Una tremante sillaba… / e la sa già anche il mare.


Raramente un attimo di amorevole, ma intima, nascosta, indichiarabile felicità, infine impotente, viene offerto con tanta verità inesprimibile, benché vibrante nell’incontro con il suono sillabico attraente – -, con una eco spaziale e cristallina fra gli oggetti, il bicchiere, i suoi orli e i suoi anelli. Ma è un attimo: in quanto poi tutto si ferma, si cristallizza, tutto appare antico, superato, già detto ma non ripetibile… se il mare stesso nella sua infinitezza spaziale, e ossessivamente ritmica, già tutto conosce, e nulla può restituire. Sorprendente – secondo certe poetiche abitudini formali – è la linearità dell’eloquio, che in realtà è solo un pensiero che si illude di sentire quella sillaba troppo sommessa per essere infine compresa e serenamente accettata. Non si danno particolari figure retoriche, salva qualche raffinata similitudine, offerta soprattutto dagli aggettivi (bassa voce, orlo risonante, rapida la strada, strane leggi ataviche, tremante…). Tutto pare detto, al lettore superficiale, nell’ordine di quella convenzionale (grammaticale e sintattica) lingua esterna, come la definisce Noam Chomky. Ma non è così semplice, malgrado l’apparenza, questo testo: domina un ritmo spaziale di silenzi, di illusioni foniche, di tremori. E sono questi a fare la poesia, il suo misterioso inconscio, la sua imprevedibile profondità… Vogliamo dire, paradossalmente, fatta di Nulla/dal Nulla? Di un Nulla che comunque è udibile e visibile. Un silenzio fantasmatico.

Mi piace fare, almeno solo per ora qui, un altro esempio, La sconosciuta (che è appunto la poesia stessa):


Dove hai formato la tua casa / e torni a riveder l’insieme / si fa d’un tratto buio / e viene una lontana sconosciuta. / Allora nel tormento la respingi, / eppure è lei – non dubiti – / la luce che ad un tratto appare / e senza avvisi è spenta… / ma quando torna – e a volte accade - / è come se tu fossi in ombra un bosco / e lui ascoltasse lepre e veltro / intrattenersi in un bisbiglio. / Altrove, e in fondo estranee, / quelle che hai amate un giorno / e che pian piano si allontanano.


La particolarità, rispetto alla composizione precedente, va osservata nella condizione simile di una linearità formale che rispetta senza eccezioni la tua poetica che già grossolanamente ho citato. Tuttavia qui l’evento linguistico e stilistico manifesta, con meraviglia per il lettore, una componente di turbamento, che potrebbe anche riferirsi al dolore, alla tragicità della perdita dei ricordi, delle parole dette e ormai silenti: il buio, la luce che improvvisamente si spegne, la sconosciuta poesia che dal buio esce e si vede appena come un oscuro fantasma, il tormento della perdita passata, che te la fa respingere, forse per un inconscio timore di verità, il bisbiglio poco rassicurante dei rumori indistinti del bosco…

Eppure il testo fa sentire solamente il soffio delle storie vissute in un passato che ormai pian piano si si dimentica.

Finisce la raccolta con la poesia Ragazze, quelle ragazze che beatamente compensano quella vita in fuga, / il suo passare d’arco in arco invano:

……

sul viale in fianco al lago / dove la luce esalta assottigliata / i suoi più timidi trattini / godono quiete in gruppo / la loro voglia d’essere, / i dolci contributi della sera, / e il tuo pensiero orlato incongruamente / da un’inconsulta spuma / esalta il loro tempo giovane, / l’eternità del verde.


Ma, forse, purtroppo (la vita in fuga…), quel tempo verde non è affatto eterno, o forse eterna è solamente sublimando, per noi e per loro, una giovinezza di scritture comunque caduca. Ho anch’io, abbiamo tutti noi, tanti nostalgici ricordi - guardiamo l’album fotografico, i poemi scritti e forse da nessuno letti, con le immagini sbiadite e vediamo quelle solari vergini di senso che, dopo tant’anni, non sono più. Sono, crediamo e speriamo, ma certo più non è il loro tempo giovane.

Sebbene la tua pacata scrittura abbia il pregio di donarci ancora l’illusione di piccole/grandi visioni primigenie.


Scritta a Silvio Aman in relazione alla sua recente raccolta di poesie L’orifiamma (Nomos edizioni, Busto Arsizio, Milano 2013)