Il romanzo familiare


Per il mio intervento ho pensato di ritagliare, dentro il campo tanto rigoglioso di sensi che sta sotto l’etichetta del romanzo familiare, un piccolo spazio secondo il punto di vista che mi è più congeniale: quello dello scrittore.

Che cosa significa, come strumento, per un romanziere, il romanzo familiare, quale lo ha istituito una volta per tutte Freud?

A tale fine mi permetterò di attraversare liberamente la nozione psicoanalitica, mettendo con arbitrio apparente, l’accento su alcuni punti: per esempio su quanto dice Freud agli inizi del suo testo circa la necessità della opposizione fra generazioni; e sulla radice sessuale di questo romanzo, proprio perché lo scrittore è il primo a sapere che corre un legame strettissimo fra sesso e immaginazione scrittoria.

Il punto d’aggancio lo trovo nell’avvicinamento che il testo freudiano fa tra elaborazione del romanzo familiare e sogni a occhi aperti. La spinta ad utilizzare nel campo dell’attività di scrittura quel fantasma specifico che è il romanzo familiare, la condenserei così: che nel romanzo familiare si opera una riscrittura fantasmatica della genealogia.

Se si ammette che qui stia una delle spinte maggiori dalle quali è agito il romanziere quando si mette a scrivere un romanzo, quali che siano poi i mascheramenti attraverso i quali il libro si realizzerà, la fenomenologia del romanzo familiare in letteratura, nella narrativa di tutti i tempi, dal romanzo alessandrino a Joyce, apparirà estremamente ricca, elastica suggestiva e rivelatrice.

Appunto la genealogia, il romanzo delle affiliazioni, è sostanza ineliminabile dell’Ulyssea, non meno che il Finnegans Wake; e mettiamo, anche se, a prima vista sembri dubbio, del Robinson Crusoe.

Questo indice a guardare anche alla biografia che forma, più o meno schermata, di elaborazioni affabulatoria della genealogia – soprattutto per quanto riguarda i nomi.

E si capisce: prima ancora che per rapporti biologici, noi ci inseriamo, o meglio siamo inseriti nella catena parentale per effetto della nominazione: abbiamo una genealogia, una costellazione familiare in quanto siamo chiamati dagli altri con un certo nome. È questo gesto verbale che ci costituisce soggetti di una famiglia. Perciò ogni modificazione del nome in senso lato – proprio, patronimico, tribale, ma anche nome di un luogo connesso all’emergere di una società, etc. - , configura l’attuarsi di un microromanzo (familiare).

Non trovo niente di più rivelatore, anzi: di più affascinante e romanzesco, nel senso corrente di questo aggettivo, che certe notizie della vita di Freud. Per esempio il mutamento del nome di Sigismund a quello di Sigmund, con la caduta del diagramma is, quasi residuo rimosso – che secondo un’ipotesi di Guy Rosolato non sarebbe altro che l’inizio di un altro nome, Israel, portato dal padre di Freud, Joseph. Mentre poi Freud allineava, accanto a Sigmund, il nome derivatogli dal nonno paterno Schlom, ossia Salomon, cui inserisce il radicale Sch-l-m con valore di pienezza, integralità. Sono cose che si sanno.

Siamo a questioni di etimologia. Ma l’etimologia, in una certa misura, è operata secondo una certa intenzione, è qualcosa che ha a che fare con il romanzo: è la ricerca dell’origine, dico dell’origine di un parola, e rischia a sua volta di diventare fantasmatica, perché, a dispetto di ogni pretesa rigorosamente scientifica, è impulsa dal desiderio.

Del resto, che si parli di etimologia, di ricerca dell’origine, di ciò che è vero, reale, a proposito dello scrivere romanzi, risulta, nonché naturale, fatale.

Compio in altro passo. Quando uno scrittore si mette a scrivere – non importa se si metta a scrivere proprio una storia di agnizioni, di discendenze – si trova automaticamente confrontato con quella che Granoff chiama question du maître, ma che si può etichettare: la questione (ma pure la domanda) del padre. Scrivere è rivendicare o respingere una paternità, latente o esplicita: magari inventarsene una.

L’atto di scrivere è una penetrazione dell’amnesia dell’origine – secondo i casi per sigillarla definitivamente o per portarla alla luce. Verrebbe da dire, in forma più corretta: per fare le due cose insieme.

Anche le formule più vulgate, che ci fanno un po’ allegare i denti, inglobano un frammento di verità riconoscibile: per esempio la formula che definisce il romanziere come “creatore di personaggi”. La si può salvare e riattivarla, se si veda un accenno alla questione della filiazione, da cui il romanziere (lo scrittore) non può chiamarsi fuori.

Superfluo dire che tale questione è capitale anche per lo psicanalista; non meno di quella del changement de père (cito ancora Granoff).

Ma ecco la domanda: si può cambiare padre?

Ci si trova riportati al romanzo familiare – ma anche al nome e alla etimologia. In proposito mi pare di potere avanzare, molto brevemente, l’esempio di una narrazione famosa già citata, e anche ripeto sembra a prima vista scarsamente pertinente: intendo il Robinson Crusoe.

M’è capitato di condurre una lettura del romanzo di Defoe mettendo in rapporto i due nomi di Robinson: quello familiare, quasi occulto, se ne parla nella prima pagina, di Krutznaer; e quello dirò così universale, passato al mito letterario, di Crusoe, Robinson Crusoe. E di intendere tutta la storia come di un processo di trasformazione della origini, di sostituzione di un nome all’altro, quasi che il romanzo fosse romanzo dell’instaurarsi della autenticità del soggetto, destinato a culminare nel proclama: tu non sarai mai Krutznaer, tu sarai Robinson Crusoe! Dunque a suo modo romanzo familiare, di ripudio implicito della famiglia biologica e legale, del padre (si pensi al discorso di Robinson senior, quando condanna con anatema biblico la smania di Robinson di partire sul mare), e di costituzione di sé in quanto padre di sé stesso, Robinson! Nella sua seconda nascita nell’isola deserta, e insieme padre di Venerdì.

Ecco come la lente particolare del romanzo familiare soccorre, può soccorrere, al lettore.

Ma ancora, per la domanda: si può cambiare di padre? Un indice viene dal sogno, così strutturalmente omologo al romanzo – e mi rifaccio a Ferenczi, del resto chiamato in causa, in proposito, dal già citato Granoff, nello scritto sui sogni che possono essere diretti dal sognatore. Un analizzante che ha fatto strada in società sogna di partecipare a una elegante riunione mondana, quando ecco comparire suo padre, vestito in modo miserabile. Grande vergogna: occorre cambiare la direzione del sogno. L’uomo partecipa ad una riunione elegante e suo padre vi compare vestito suntuosamente.

Ma, ancora: un altro padre oppure un altro del padre? Le diverse articolazioni del linguaggio trasformano profondamente la domanda e anche la possibile risposta.

L’adozione da parte del narratore, dello schema del romanzo familiare nella sua forma più immediata, non voglio dire rozza, che potremmo chiamare dell’agnizione, della scoperta che l’errore ha origine, non infima, come pareva, ma nobile e addirittura legale, e dunque la produzione di una serie vistosa di déplacements a un tempo affettivi, sociali, economici, etc. – tutto sommato è solo un aspetto superficiale di quanto viene messo in moto nel racconto, ma anche in chi organizza e conduce il racconto, nello scrittore.

Inventare come si dice una storia, un personaggio non vuol dire soltanto entrare in comunicazione con la combinatoria dei possibili, ma aprire un rapporto essenziale, e il più delle volte nascosto, con il proprio nome, come segno dell’origine, con tutti i nomi fittizi della storia romanzesca. Vuol dire, naturalmente, anche chiedersi che cosa significhi distinguere fra vero e inventato. In proposito, tanto per fare un esempio, il cumularsi, lo schermarsi reciproco, il confondersi dell’eteronimo Fernando Pessoa e dei proliferanti eteronimi Alvaro de Campos, Bernardo Soares, Ricardo Reis-Alberto Caerio, etc,, possono dirla lunga.

Mi è ricapitato sottocchio quel documento sorprendente di Gérard de Nerval, che non a caso si indica come Généalogie fantastique. È come sapete più che una pagina una mappa, un albero araldico, in cui si aggrovigliano – collegati da scritte, segni, radici, tentacoli – nomi di luoghi, di persone, blasoni, croci, corone, schizzi elementari di paesaggi – materiale dentro il quale gioca l’omonimia e la paronomasia, la condensazione e lo spostamento, l’anagramma, l’informazione biografica e la trasformazione fantasmatica.

Una sorta di macchina che mostra il funzionamento linguistico, tematico, psicologico di ciò che chiameremo nel senso più largo genealogia: potremmo arrivare a definirlo, anche questo un romanzo familiare rappresentato nelle sue linee di forza, nelle strutture essenziali.

Nerval vi rende attivi non solo i nomi propri che riguardano la sua famiglia, quelli dei luoghi legati in un modo o nell’altro alla sua biografia (da Mortefontaine alla Dordogne…) ma anche i segni centrali della sua poesia, da torre a regina, a oro, etc. Non siamo in presenza di un semplice condensato autobiografico, ma di una cifra che raccoglie la fila delle spinte profonde, irrinunciabili, di Nerval uomo e scrittore.

Siccome non ho un tema preciso per questo mio intervento, non credo di essere andato… fuori tema. Anzi sono convinto che anche quanto ho appena detto porti a illuminare una incarnazione, nel campo della scrittura, di quel Proteo che è il romanzo familiare.

Diciamo la cosa in questo modo: che il romanzo familiare è l’affabulazione per eccellenza, giacché attiene all’origine del soggetto e del nome.

Se immagino di non essere nato entro una certa catena parentale, è il punto dove ex-sisto in quanto soggetto che viene rimesso in gioco, ed io non mi identifico più nel nome che la tribù mi ha dato. Si può arrivare al punto di sostenere che così si producono effetti politici: immaginare di avere un altro padre significa riconoscere o sovvertire l’ordine sociale?

Nel Romeo e Giulietta, che è immediatamente un romanzo familiare nel senso convenzionale del termine, giacché due famiglie vi si contrappongono in guerra e scatenano gli eventi, una battuta, peraltro famosa, di Giulietta entra nell’ambito di quanto si è detto a proposito del nome e del suo valore, anche se pare capovolgerlo: “Romeo, doff thy; / and for that name, wich is no part of thee,/ take all myself”.

In realtà, quel nome Romeo è parte di Romeo, inseparabile dal fatto di essere Romeo; e la catastrofe del dramma lo prova ad abbondanza.

Scrivere un romanzo è mettere in opera un doppio processo parallelo e complementare, di genealogia e di etimologia. Anche il lettore di romanzi è indotto ad avvicinare l’occhio a questa lente diffrattiva.

In una quantità di romanzi del Settecento, ma anche dell’Ottocento, la fabula s’impernia su una serie di peripezie che conducono l’eroe trovatello a scoprirsi una origine nobile o comunque rispettabile e agiata. Non parlo del più famoso libro di Fielding, Tom Jones, ma di un altro romanzo, il Joseph Andrews. Si ricorderà che in una delle ultime pagine del libro, c’è un doppio colpo di scena che fa prima supporre ai due innamorati Joseph e Fanny di essere fratello e sorella, poi cancella l’ipotesi di incesto, assegnando ciascuno a famiglie diverse, a quella degli Andress Fanny, e Joseph a quella dei Wilson.

Il climax della situazione, quello in cui due si suppongono, per breve tempo fratello e sorella, sembra di poterlo leggere in filigrana a un passaggio del testo freudiano sul romanzo familiare, che riguarda appunto il tornaconto connesso a tale fantasticheria inventiva: «In questo modo, per esempio, il giovane costruttore di fantasticherie può sbarazzarsi dell’impedimento della consanguineità nei confronti della sorella, nel caso che si senta sessualmente attratto da lei…».

Il succo di quanto ho cercato di dire fin qui molto corrivamente, può essere questo: che dietro a quasi ogni storia che leggiamo, ad ogni testo della letteratura, finisce per fare capolino quel romanzo di estraneazione, come lo ribattezza Freud nella Minuta M, o di compensazione, di cui si è tanto parlato. Quando non lo si debba chiamare, piuttosto, il romanzo del romanzesco, essenza radice nervo di qualunque escogitazione romanzesca.

Non vorrei esagerare in questo senso. Tuttavia anche un libro come America di Kafka, orientato su tutt’altre costanti, può rivelare se scrutinato con attenzione, magari con prevenzione, qualche aggancio al nostro schema. Il candido Carl Rossmann è spedito in America in un mondo sconosciuto, perché una serva lo aveva sedotto e aveva avuto un bambino da lui. Il testo dice letteralmente e significativamente: i suoi poveri genitori avevano dovuto mandarlo in America… Al suo sbarco, attraverso un piccolo incidente, Carl si trova confrontato con lo zio Jakob, anzi con il senatore Edward Jakob, che ha evidentemente lasciato cadere il nome familiare di Bendelmayer. Ripeto non intendo forzare la mano, ma non mi sembra secondario che all’avvio del racconto concorrano due elementi caratteristici, che sono toccati più volte nel mio discorso: il sesso, ossia la generazione, la catena parentale, e il nome. Basta per richiamare il fantasma del romanzo familiare?

Non si dimentichi, poi, che a un certo punto il romanzo familiare, come di Freud, si trova a fare i conti con la conoscenza che il bambino ha acquistato delle differenti funzioni sostenute dal padre e dalla madre in quanto partners sessuali. Dunque il romanzo familiare è anche un romanzo della meccanica erotica, di come ci si accoppia, di come si fanno i bambini, che è la grande domanda infantile. Siamo dentro la materia privilegiata del romanzo tout court.

A chiudere l’anello, compare anche la questione del potere, connessa al sesso. Quel cripto romanzo familiare che può essere la Vita è sogno di Calderón de la Barca, articola finzioni e vicende intorno a una relazione di questo tipo fra Basilio e il figlio Sigismondo…

Dove non va mai a rintoccare un’eco, magari immaginaria, del nostro così citato romanzo! Mi è sembrato di intenderla persino in una inversione sintattica di Mallarmé, nel sonetto Surgi de la croupe et du bond, precisamente nell’enunciato ni son amant ni ma mère / jamais à la même Chimère…Chi parla è l’enigmatico sylph de noir plafond, vale a dire, insomma, un figlio – e sia pure nella scorporata, negativa versione…

Producendosi dentro il lampo di una situazione parentale, la sorprendente prolessi di son amant rispetto a ma mêre – quando la grammatica, a non dire la logica, ci farebbe attendere una successione inversa – questa prolessi gratuita (ma c’è mai qualcosa di gratuito in Mallarmé?) scompiglia l’ordine della coppia, della generazione, nell’istante in cui sovverte quello del discorso. Si mostra qui il capo traumatizzante, poeticamente traumatizzante, del nostro romanzo familiare? Anche solo sospettarlo, basterà per il momento.