Gio Ferri

Gilberto Finzi e la nascita di una rivista della critica contemporanea.


Tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80 l’onda lunga (burrascosa – necessaria?) del Gruppo 63 e delle Neoavanguardie si era in buona parte ritirata dalla battigia, lasciando tuttavia sulla sabbia segni ora profondi, ora superficiali che avrebbero influenzato comunque bene o male le ricerche poetiche e critiche dei periodi successivi – fino ai nostri giorni. Una sorta di “ritorno all’ordine” (ma chi poteva pensare in buona fede che quella esperienza “rivoluzionaria”, rinnovatrice, fosse indice di disordine?), tuttavia un ritorno raramente post-montaliano.

Di questa condizione presero atto tre poeti e critici che avviarono una esperienza prammatica di un certo rilievo: Giuliano Gramigna, Gilberto Finzi, e il sottoscritto. Non poteva darsi gruppo tanto differenziato (anche per intrinseco valore culturale e creativo): lo scopo della fondazione nel 1983 di “Testuale, critica della poesia contemporanea” (ancor oggi attiva dopo oltre trent’anni di in-arrestata ricerca in particolare sulla poesia più recente - fin’anche all’eventuale opera prima di un autore) nasceva da una constatazione, niente affatto cancellata o cancellabile: la critica della poesia in fieri era, ed è, quasi assolutamente inesistente, salvo modeste e mai ben documentate recensioni giornalistiche, attente soprattutto alla assai poco interessante soggettività, storica e personale, degli autori.

I tre fondatori, fra tante differenze prammatiche poetiche e critiche avevano infine esclusivamente in comune la volontà di affrontare il testo secondo metodologie critiche diverse ma approfondite – espresse, per esempio più avanti (ma altrove ovviamente se ne scrisse sovente) in questo numero della rivista e in tante altre occasioni – da un saggio di allora (“Critica della critica”) sapientemente redatto da Gilberto Finzi.

Al di fuori di questa fondativa e obbligata unità d’intenti le singole posizioni creative e di ricerca dei tre fondatori non potevano – riferite alla disponibilità di ciascuno - essere più diverse: ma questa circostanza non inficiava mai il comune progetto.

Giuliano Gramigna guardava sorretto dal valore notevolissimo della sua cultura e delle sue conoscenze soprattutto alla psicoanalisi da Freud a Lacan, nonché alla poesia simbolista francese che tanto aveva influenzato, e ancora influenzava, il fare poetico europeo e internazionale. La sua ricerca critica, per sostanza e invenzione e scoperta, era comprovata e in buona parte indiscutibile. Di qui la sua prassi poetica che esplorava l’inconscio fino alle radici più profonde dell’essere e del conoscere l’inconoscibile. La sua meditazione sfuggiva ad ogni spunto polemico e i suoi versi si dipanavano, e si dipanano, con misura estrema, e, perché no, anche con una comprensiva e tollerate grazia di scrittura.

La poesia del sottoscritto, trascorsi i tempi barricadieri delle aspre rivolte morali (e politiche), cercava ormai la via della conoscenza sensitiva. Guardava solo di sottecchi l’orizzonte della Storia e si contrappose, come si contrappone, al suo finalismo utilitaristico. Voleva e vuole penetrare in profondità (anche oltre le scoperte psicoanalitiche, verso la nascita albale della parola, del segno, del suono) il piacere dell’inutile come riscatto dei valori fondativi della forma. Si è fatta così strada la pessimistica visione del Nulla della Storia. Ripetitiva e irreversibile. Sempre uguale. Sempre riconoscibile (di contro a una inattesa parola epifanica).

In Gilberto Finzi il problema della Storia era, ed è nella sua poesia, mai metafisico, bensì concreto, materico, utilitaristico (fra prese d’atto e disposizioni sovente polemiche, soprattutto nell’esercizio storico-critico). Ma da questa contraddizione nasce una creatività poetica assai originale, che non trascura mai la forma, ma la manipola in vista di un giudizio accogliente e insieme estremamente severo.

Può bastare forse un breve esempio dalla ricca raccolta delle Poesie laghiste (“All’insegna de il Pesce d’oro”, ed.Scheiwiller, Milano 1958/1997): la guerra, la morte, la Resistenza colgono il segno greve ma mai rabbioso (se non nel cuore), piuttosto triste e nostalgico, di una battaglia, ahinoi, probabilmente sostenuta e vinta (o persa?) invano. C’è dolcezza nel cantare la tragedia:

……………………………….

Caddero i Martiri fanatici eroi,

sulle scarpe si videro il cervello,

omicidi Buckenwald rinnova

impassibile selva fu come la cicala

la formica piena di fame,

Giunge anche qui da lungi la bufera.

Strappano i bimbi

Lo stelo ai fior di loto,

ridono al pesce straziato dall’amo:

le piatte barche, isole del sole,

ballonzolanti sotto il peso tedesco

ferme in riva al pantano

dove vissute erano felici

cento generazioni

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Così forte spezzava la guerra

I fili teneri della speranza

Di antiche terre fortunate.

………………………………

…………… poi

il capitano degli inglesi venuto per l’aria

circondato e battuto, fu sospinto contro lo steccato,

fucilato da biondi occhi cilestri.

Cadde – ja woh elle – la notte (indipendente il cielo

da patrie glorie), le silohuettes

in copia finivano il bacio contro i portoni.

Al metallico riflesso degli elementi.

Ragazzi impacciati nei movimenti, nei prati

fuggivano a balzi come caprioli.

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Morte del partigiano, pochi colpi.

Chiusi nel calice di un fosso

come fiori d’un attimo,

e la luna già pende

insopportabile macigno

sul cuore di nuvole del cielo.

Come una vecchia madre

La terra trema e si sfoglia.

………………………………………

Non la tua casa degli avi, partigiano,

abbandonata oltre Po,

una tela di Penelope ogni notte sfacevi

Era il mitra ogni tuo focolare.

Sei morto tormentato come allora

Che, bimbo, nel fossato,

un pesce per la cena cercavi dei tuoi familiari.

………………………………………

O partigiani nella misteriosa officina

Nel ventre della terra

La patria alla radice si misura

Del grano ora già verde.

……………………………………...

Ma già scomparsi voi siete,

il vento e la mimosa di montagna

a gara sui tumuli e sui vermi

di questa un tempo Italia.



Questa è la capacità di Finzi di “cantare” il principio e la fine della Storia. Dalla Storia non si sfugge, dirà più avanti Rosa Pierno, ma infine si tratta di una Storia fatta di Nulla, di sempre, sempre uguale, di Nulla senza speranza.