Rosa Pierno

Gilberto Finzi, “Morire di pace. Autobiografia” , Dedalus edizioni

 Prima ancora che una valutazione dei modi in cui Gilberto Finzi ha impiegato i generi e ha intersecato la tradizione con l’innovazione, Morire di pace issa il vessillo d’una questione più radicale: come rispondere alla storia umana, la quale c’inchioda anche ai nostri più orribili misfatti, con la cultura maturata al fine di ottenere un possibile dialogo, un’interazione fattiva, che serva d’indicazione e monito. E senza peritare, per assicurarsi una funzione critica, di mettere a coltura i materiali incongrui, facendoli stridere persino, e, in ultimo, rispondere al problema formale, alla resa espressiva, senza la quale non si consegue elaborazione.

«O non è più tempo. Non qui. Non la stolida nostalgia. Non l’òmaso- abomaso del bove. Il figlio dell’Uomo è il figlio della Storia.

(Ma quale storia?

degli Stati, dei Re?

degli individui?

dei popoli?- quella?)»

Riflettere sulle complesse questioni della dimensione collettiva, dei problemi politici, sociali ed economici – e in generale dell’uomo nel mondo – vuol dire esprimere la propria posizione in una forma altrettanto composita e non semplificabile, tant’è che tutti gli ingredienti differenziali dello stile cospirano qui a un medesimo fine di performatività espressiva. Il rimaneggiamento dello strumento linguistico resta volutamente problematico in relazione all'assurdo di tradurre ciò che accade in rappresentazioni. D’altronde, la traduzione dei fatti si attua con strumenti culturali e ideologici. Il nesso fra cultura e poesia è in Gilberto Finzi centrale e riguarda anche la storicizzazione dell'ideologia. Non sarà arbitrario leggere i suoi versi anche come analisi critica e autocritica rispetto alla lettura da lui stesso effettuata.

Così come non è possibile separare, in Finzi, il passato dal presente: vi è una reversibilità dei tempi, per cui si considera l’oggi come ciò che non ha conseguito nessun cambio di rotta o miglioramento nel comportamento umano rispetto a quello in essere nel passato: “già (perpetuamente) intravisto e raggiunto da / infinite generazioni prima di noi / giocavano”. Si può tornare indietro: il passato, inestricabilmente intrecciato al presente, ci abita, ci precede sulla via futura. Anzi, si può dire che il tempo collassi nella medesima buca, mentre si spala sotto il sole, e si riduca al “cibo-sonno”, si barcameni tra atti eroici e atti meschini, tra gesta esemplari e banalità quotidiane.

Sarà questa una delle caratteristiche più salienti di Morire di pace. Autobiografia scritta nel 1966 e ripubblicata, senza ripensamenti, nel 1990, descrivente, appunto, l’autobiografia di un giovane fra il 1943 e il 1957. Proprio la ripubblicazione a vent’anni di distanza dell’opera, testimonia di questa non significatività delle paratie temporali, orpelli che nulla svelano del passato e niente fanno predire sul futuro. È invece il loro impastarsi nel medesimo contenitore a rendere possibili i confronti, a istituire la continuità, a farci vedere che se cambiano i nomi non cambia la sostanza o viceversa. In questo senso, è l’uso della lingua, poiché essa è sempre stratificata in senso storico, a garantire la possibilità del confronto come pure l’istituzione delle differenze. A delineare soluzioni, anche se solo ipotetiche o utopiche. Così, se crolla il luogo comune della divisione temporale, la lingua assume un ruolo egemone nella progettazione, dove la realtà è solo il gradiente della perfezione dell’espressione. Non crediamo, infatti, che il confronto che Finzi cerca sia quello attuato con la realtà, ma sia qualcosa d’interno alla conoscenza accumulata.

Il genere diaristico e quello autobiografico vengono ibridati o elusi: vanno tenuti presenti come schemi mentali che poi vengono trascesi e trasformati, in una sorta di inclusione ed esclusione in cui si colloca ogni opera rispetto al genere che evoca. Finita l'epoca in cui erano insiemi di norme, o categorie ideali o filosofiche, i generi rinascono come tracciati deboli e precari per mappare i discorsi polimorfici dell'immaginario collettivo. La compenetrazione fra scrittura critica e scrittura creativa, fra teoria e prassi determina l'autonomia dell'arte, sistema che è sottoposto a dinamici sviluppi, in quanto comprende anche il rapporto con la realtà e con la storia. L'opera si trasforma secondo leggi del tutto autonome, ma va posta in relazione con le serie linguistiche, sociali, culturali e politiche, così come avveniva nel formalismo russo. Componente di ulteriore concomitanza è, a nostro avviso, il concetto di estraniamento, coincidente con uno sguardo capace di denudare e di estraniare, tramite distanza, l'oggetto osservato. E l'Io è anche oggetto di racconto.

Naturalmente l’Io è per definizione insieme agli altri. Anche se ogni uomo è un’isola. Per quei giovani che volevano per sé il ruolo d’intellettuale, c’era l’odio degli operai, a rendere ancora più solitario il loro percorso esistenziale. Intellettuali, come bloccati da un bozzolo, discutevano per “alzata di mano” mentre “Hiroshima passò non veduta”. E in questo frangente espressivo, più forte e manifesto è il ricorso a forme della tradizione, alla preghiera, ad esempio, o al linguaggio scientifico, quasi un aderire del pensiero alle forme che diventano una divisa. Si usano citazioni perché si ha la sensazione che un concetto non possa essere espresso meglio se non in quella forma, che anzi abbia il suo massimo valore semantico proprio perché ivi la forma coincide col contenuto in maniera paradigmatica. Ciò accade non solo per il fatto che utilizziamo concetti ereditati, ma anche perché essi coincidono con le persone vissute prima di noi, reali o irreali che siano, che possiamo introiettare grazie al nostro amore per la letteratura. Quindi, lingua anche come mediazione tra generazioni.

Non risuonano forse durante la lettura del testo poetico di Finzi, le voci di Ariosto, Dante, Virgilio, Petrarca e Ovidio? Se ne sente la presenza a ogni passo. E qui, in Gilberto Finzi, non si poteva credere, per uno che accetti il meraviglioso lascito e fardello della tradizione, che vi potesse essere qualcosa di diverso. Il linguaggio non è fatto solo di parole, ma è anche corpo. Gli atti e le parole diventano familiari, usuali, conducono gli uomini lungo le contrade della vita come se non fossero più figuranti, ma come spettatori trascinati dagli altri. Li sostanziano, da che sarebbero simulacri. Finzi non fa che estremizzare un tratto comune della vita psichica di tutti che si alimenta di proiezioni di parti del sé verso l'esterno e delle assimilazioni dell'altro in noi. Lacan ha evidenziato il carattere immaginario e quasi sempre alienante dell'Io. Ma esiste anche un carattere integrativo e sostanziante.

Un'opera di poesia sembra quasi un ricomporre, nei giorni della necessità, al fine di ricostruire un ordine, un sistemare coi pezzi di risulta un mezzo adeguato per salpare nel mare esistenziale. Senza di essa non si può avere cornice di riferimento, non si può ricalcolare un senso, comprendere per meglio rifiutare l'accaduto. A questo si deve la singolare ricchezza di toni che si rincorrono, onde sulla battigia, in questi versi. Crudi, non mai appesantiti da filosofiche osservazioni, nondimeno da esse impreziositi. La lingua si carica di tutte le sue specificità, abbatte muretti, e transenne, diventa percorribile in molteplici sensi, si adegua alle asprezze e alle rotondità dell’esistenza.

Raggiungere lo zoccolo duro della sapienza, tramite la poesia: noi ardiremmo dire essere questa la fiaccola simbolica di Morire di pace. Ma si badi, una fiaccola a cui non si concede nessuna via di fuga, nessuna giustificazione, né individuale, né collettiva, né storica, né religiosa. I giovani soldati abbandonati a un “futuro inconsistente” e “a un improrogato presente”, non avevano nulla cui appellarsi (né Dio, né cultura) per fronteggiare l’incasellabile evento definito da “vagoni-merce vagoni-bestie”. Eppure, incredibilmente, si riesce a ritornare alla normalità attraverso l’evasione: “la continuità. / Contro ogni ragionevole apparenza”. Pronti ad abituarsi a una vegetale esistenza, alla consuetudine del branco. Dopo aver visto “Tutto. Quello che era possibile vedere”, senza speranze né attese. Invece, sentendosi disinteressati, si era invece “alla mercé”: umanità nemmeno dolente, abbandonata a se stessa.

Finzi non manca di prese di posizione molto nette, di altissimo taglio critico nei confronti di teorie pseudoscientifiche: “ai darwiniani credenti nella selezione naturale”: la critica coinvolge la scienza, la sociologia, la politica, il mito, l’antropologia. Una critica della cultura a tutto tondo, prima ancora che una critica del potere. Nel testo si procura un corto circuito alle definizioni prelevate da specifici ambiti di studio per ottenerne una brodaglia collosa e non deglutibile: “Si sarà dovuto ristudiare daccapo il / sesso dei polli e le storie degli antichi parenti e la castità latina delle vestali e / l’interpretazione dei sogni al punto vivisezionato della psiche notturna (secondo l’indice di transito nelle vie), le forme delle foglie e relative intersezioni geometriche”, ove si vede anche che il nastro discorsivo si fa piano, puro elenco, collezione. Proprio per ribadire la volontà di non voler dissipare nulla, essendo queste le tappe d’un procedere nel tentativo di tutto comprendere. Qui ritorna il problema della storia nelle sue polarità inconciliabili, diversamente da quel che accade nelle categorie della storia razionale di Hegel, che vede alfine risolversi tutte le contraddizioni in un’unità superiore.

La sua prima poesia fu un discorso politico. Mai però “esplosiva miscela”. In una mediazione che non risolve, forse perché aliena dal voler trovare un termine medio, esattamente come scomode e scabrose sono le altezze della sua prosa. Spesso è altrettanto ardimentoso cogliere il riferimento, ma più che la precisione del rinvio semantico, a contare è il valore del gesto che pone all’interno del flusso testuale un frammento scenografico, un pregiato intarsio culturale, un elemento che vale per se stesso, inalienabile, perfetto nel suo essere frammento. Si ha la netta sensazione che proseguendo nell’analisi di ciò che è accaduto non si ottenga nessun miglioramento, né con l’azione individuale né, con l’azione collettiva. E che irrisoluta resti anche la relazione cronaca/storia. E, dunque, si dovrà necessariamente considerare che nessun termine delle coppie oppositive sia privilegiato. L'opera deve mostrare tutta la sua natura dissonante, la negatività di una processualità aperta, senza nascondere il confine precario che la separa dalla barbarie che vorrebbe debellare. Non vi è estranea nemmeno la tecnica del montaggio, del collage, poiché, grazie al suo procedere frammentario, diviene indice interno rispetto al diretto riferimento alla realtà concreta.

Ma il sospetto che gli intellettuali, poi, abbiano a che fare più col “gioco delle tre carte” che con un reale intervento costruttivo, scava dal di dentro, svuotandola, ogni valutazione. Come non pensare che la storia umana del dopoguerra non avesse minato gli animi irreversibilmente? Dietro al fumo si nascondevano “sfingee candidature”. Dove l’unico spazio agibile sembrava integralmente occupato da simboli, ripiegamenti, simulacri di lotta, assedi, violazioni, denunce. E come unico tangibile lascito: il turbamento. Ad aggravare il quadro, interviene persino il rilievo della difficoltà di non potersi basare su una logica nuda e cruda: “Logica non è nelle nuvole / del poderoso inferno”, che equivale a “Il sonno della ragione genera mostri”. E le pause fra lasse e versi paiono ancorarsi più a intermittenze del respiro, che a un fare spazio, più a un saggiare le forze rimaste, che a un restituire energie.

Ma a ogni svolta esistenziale, esperienza-boa, vediamo il linguaggio farsi duttile strumento, inserendosi nella forma aperta con un’adattabilità simile a quella di un corpo trascinato, quasi il linguaggio fosse reduce di guerra, anch’esso. E anche i ricordi subiscono una metamorfosi: non possono fare a meno di infiggersi, simili a schegge, nei versi letti, amati: D’Annunzio, l’Ariosto, Leopardi, Omero quasi una lingua nella lingua, non più solo citazioni, come abbiamo indicato all’inizio.

Alcune polarità persistono imperterrite: servi e padroni, città e campagna, passato e presente, mentre le essenze risultano annacquate, e nulla sussiste più di puro sotto il sole, né indenne si conserva l’amore: in una sola parola vige la ”rassegnazione”, però adulterata da un non poter dimenticare. Tuttavia, il paesaggio appare completamente smussato, la registrazione degli eventi personali e storici non fa che consegnare un immodificabile referto al fine di conquistare “l’adattamento”: “Pane nostro quotidiano”, rispetto a cui si opponeva: “L’ondina, la naiade, erano fugaci apparizioni: soprattutto importava / tradire le apparenze. Era ancora sufficiente incidersi il polso per rifugiarsi / nelle scogliere del proprio sangue. Ogni violenza era buona contro il vile riserbo”. Ma, a fare da contraltare, un’indicazione delle carte serbate in un cassetto da tirarsi fuori solo alla sua morte, tanto per ribadire l’altalenante dialogo tra opposizioni, desideri, sentimenti, pensieri, azione, reazione. Una sorta di negazione della dialettica, della sua capacità di addivenire a un avanzamento, di costruire un progresso, fosse anche temporaneo e locale e però contemporaneamente mai da dismettere. Se dovessimo indicare dove si esercita la moralità dell’autore, useremmo questo luogo concettuale per indicare le altezze da lui raggiunte.

Nessuna sorpresa nel constatare come una simile dignità si coniugasse con l’essere accettato, ma non accolto, a tal punto che la sua sensibilissima posizione diveniva da testimoniale, forse anche superflua. Fino all’inutilità, al sentimento mesto dell’essere stecchiti e senza risorse, in un allestimento che nuovamente cambiava aspetto, ove già sopraggiungevano modelle prone, copertine patinate, manager rampanti. I cortocircuiti, nel prosieguo della lettura, aumentano il loro ritmo, risentono dell’accumulo, si susseguono con una ricorsività che non lascia spazio al movimento, in un rinserrare dei ranghi che finisce con l’immobilizzare totalmente: “ora cari compagni, coetanei, in verità vi dico…”, forse, l’ultima parola prima dell’afasia.

E certo come sarebbe mai possibile scrivere un'autobiografia, anche per il solo "giro di boa di una generazione", se non giungendo subito alla pausa, alla cesura. Ma quale segno, simbolo? Ma quale storia? Forse nemmeno cronaca. Si può lasciare ai posteri l'atto ora impossibile. Intanto la macchina s'è messa in moto e macina sogni e miti, irrealtà e illusioni, tuttavia sempre evitando di farli assurgere a puntelli ideologici, anzi per meglio farli precipitare nella grande fornace che tutto brucia assieme ai doveri, agli insegnamenti. Così l'uomo ci viene mostrato alla maniera di Pascal, ma vuoto al suo interno:  "Come ti pieghi, canna, / tenera solitudine, rigore mistico del / vuoto che hai dentro - parte costitutiva”.

La sintassi bucata mostra tali bolle di vacuità, in un processo in cui il recupero della totalità, è impossibile: la voce è flebile come in una cantilena in cui le immagini, annodate l’una all’altra come piccoli stendardi, non rendono tuttavia distinguibili inganni e ricordi, storie personali e racconti.  Sennonché il linguaggio non è mai privo di un accorato accento morale che digrigna i denti dinanzi ai vuoti simulacri del contemporaneo e del tecnologico. Ove il vero mortale nemico dell'uomo è sempre l'uomo. Tuttavia, mai deposta è la speranza che si possa invertire la rotta, o che almeno si debba farlo anche a costo di non sortirne effetto alcuno: "Ho venduto la primogenitura - non ho ancora / costruito l'Arca". Se il dovere preme con la sua urgenza morale, la ragione stessa frena per l’assaporamento di uno svalutante déja vu in costante agguato.

Dalla storia non si esce. Come non si esce dalla cultura. E questa più che una biografia, sembra una rivisitazione dei limiti, una verifica dell'esistenza di effettive vie di fughe: "la prima volta per sfuggire i contrari dubitosi, le / dialettiche regole, i perversi duci, gli Ascendenti, i Giudici, / i Maestri, / le del potere allegorie, le stivate baleniere, i controsensi / del miscuglio inamalgama inodoro". La cultura non riesce a fare da muraglia, non impedisce al divoratore di turno di sbranare la vittima. Così come non si arresta la speranza, il rigoglio della giovane pianta, sì che ogni generazione sembra diversa dalle precedenti e mira a essere più lussureggiante.

In questa chiusa, è la sintesi di Finzi: "è miserando credersi immortali, / eppure / fa' posto  alla disperazione / (a partire da quel punto / che sei uomo)".

Ora, in Gilberto Finzi il poetico alligna nella riflessione di cui è innervato il testo, nella critica ideologica, in barba al dogma crociano che le vuole separate. Accostato al pensiero gramsciano, ma dal lato in cui si evitava ogni subordinazione della poesia alla politica, non certo dal lato dell'equivoco che vedeva nel concetto di letteratura nazional-popolare, un’ostilità verso il filone sperimentale e avanguardistico. Più sull'onda, diremmo, di un’avventura sperimentale che cercava una nuova poesia e una nuova critica, che è poi anche la battaglia dell'ermetismo epigonale, a ridosso della seconda guerra mondiale. E qui si accenna solo di sfuggita all’impegno critico di Finzi, il quale, in quest’opera passa in rassegna tutte le correnti di pensiero che si sono susseguite, dal realismo alla neo- avanguardia, senza però mai cedere all'illusione di un rapporto fra avanguardia letteraria e avanguardia politica, poiché quella letteraria per il poeta ingloba quella politica e, anzi, la giudica.

Come pure, il poeta affronta la questione delle scienze umane che fuoriescono dalla dimensione specialistica e iniettano i propri vapori negli interstizi della letteratura: semiologia, psicoanalisi, sociologia, antropologia. Sebbene panorama di costanti macerie, ove tutte le ipotesi vengono verificate e scartate perché non reggono al vaglio della storia, al centro della pagina, sta imperterrita la figura dell'intellettuale che sente come dovere primario quello di riflettere su luoghi comuni e pregiudizi, su concetti imprecisi o dogmatici e niente accetta come fondante.  Non sarà solo un situarsi alla frontiera del vecchio e del nuovo, col che se ne ricaverebbe esclusivamente un’incessante sostituzione del seguente col precedente, ma sarà la ricerca di un'accumulazione  di tutti i modi possibili di guardare a un oggetto, consapevole che la complessità di questo mondo non si può restituire con una visione parziale né definitiva.  E qui la presenza della ripetizione e dell’accumulo, figure tipiche della cultura ebraica, hanno una loro ragion d’essere costitutiva.

Mai, in questo senso, la letteratura vedrà compromessa la sua capacità conoscitiva, mai verrà paventata la sua inutilità, o attuata la sua svalutazione. Pur nella corda  insopprimibilmente amareggiata di Gilberto Finzi,  essa si troverà a essere nelle sue mani, lo strumento conoscitivo per eccellenza.  Il pensiero della forma delineato dal filosofo Gaetano Della Volpe va nel senso di mettere in luce la specificità del discorso poetico, contro sia l'univocità del discorso scientifico, sia l'equivocità del discorso comune, ma Finzi, allarga questo assunto con uno sguardo a trecentosessanta gradi che ingloba la condizione umana e le dona l’occhio profetico del poeta.