Vincenzo Guarracino *

Diario del Giorno Prima

«Noi non siamo vecchi ma solo / diversamente giovani», dice proprio così uno degli ultimi versi dell’ultimo testo della sua ultima, estrema raccolta di Gilberto Finzi Diario del Giorno Prima, edito da Nomos nel 2012. «Diversamente giovani»: una definizione, oggi, all’indomani della sua morte, avvenuta a Milano in una gelida mattina di Natale del 2014 (era nato a Mantova nel ’27 ma a Milano viveva da decenni, tra libri propri e altrui), da aggiornare come «diversamente vivi»».

Non è retorica: Gilberto, per chi lo ha conosciuto e apprezzato (amato?) in vita, continua a pronunciare attraverso la sua vasta e complessa opera una fede nella vita («Questa è la vita! L’ebete vita che c’innamora…», citando Boito da Finzi indagato e simbioticamente assimilato nei suoi studi sugli Scapigliati), nonostante tutto e comunque essa sia, col suo modo sarcastico di amarla, col suo modo di attraversare i casi della vita, della storia, senza illusioni ma non senza miti.

Perché un mito, sì, Finzi lo aveva e ce lo lascia in preziosa eredità: quello dell’intelligenza, acuta, ironica, determinata a sconfiggere ipocrisie. 

Un «angelo ironico con la spada sguainata», lo si definirebbe con le parole con cui Walter Benjamin aveva definito Leopardi: chiuso nella sua corazza («un’armatura in cui si rispecchia il mondo»), Gilberto con la sua intelligenza ha sempre riguardato tutto, presente e passato, con l’occhio dell’”uomo che giudica” e che “nel centro del futuro” vede solo “il senso oscuro”, una “profonda notte” (non la sua, quella esistenziale, beninteso, ma quella collettiva della perdita del senso, «la maceria della vita», insomma, come l’ha definita in un testo di Poetile, cfr. Un sogno), consegnandoci l’idea che ciò che conta sono «i piccoli spazi tra le cose», la determinazione a giocare le proprie uniche risorse di infinito nel qui-e-ora («Molto mi preme / questo attimo, lasciarmelo / vuol dire vivere»), col proprio «vulcano in cuore», che la dice lunga sul proprio sistema morale, incurante dello “scadimento” di valori, del “fango”, meglio ancora del “pattume”, che progressivamente minaccia. In questo, definendosi come seguace ma non epigono dell’antica Scapigliatura: nel senso che, scegliendo tra memoria e presenza, ci lascia una immagine positiva, a dispetto di tutto, carica di futuro, con la fede nella scrittura, in una pratica che ha l’ambizione di incidere sul reale, attraverso la critica e attraverso la poesia (le due cose andando assieme, come facce di un’identica medaglia), in una forma insomma che è «un insolito mix di metafisica, ricordo, fatti qualunque, sogni persino, dove il limite del filosofico talvolta sconfina nell’ironico, il tutto condito da un linguaggio prosastico e ben poco lirico», come ricorda lui stesso. Una galleria di ricordi, di debolezze, di ammissioni di una decrepitezza fisica ma non intellettuale, riconosciuta e accettata come ineluttabile, ma con lo spirito del Leopardi eroicamente «malpensante» di Amore e morte, «erta la fronte, armato / e renitente al fato”. 

Un atteggiamento, questo, riscontrabile sempre in tutta la produzione critica e poetica di Finzi.

Di quest’ultima, basti rifarsi almeno al penultimo capitolo, della raccolta Poetile del 2006, intenso e riassuntivo della sua maniera (se maniera non è una parola offensiva per un autore che della “sperimentazione”, della ricerca di linguaggi e temi sempre nuovi aveva fatto la sua cifra distintiva), a proposito della quale Cesare Cavalleri, postfatore, aveva rilevato la grande coerenza critica per perseguire una propria misura espressiva, un fare poetico inventivo e innovativo, conservando, tra Neo-Avanguardia (in particolare Antonio Porta) ed Ermetismo (principalmente Quasimodo, di cui era stato originale e fedele interprete in un memorabile Meridiano), originalità e libertà creativa, in un confronto franco e critico con tutti, sodali e compagni di strada (fossero anche amici e coetanei, come Raboni, Sanesi, Majorino), “interlocutori” amati quanto basta per poterli francamente anche criticare, “finzizzare”, polemicamente metabolizzandone il messaggio: «perché la poesia di Finzi ambisce l’incontro».

La verità è che «se scriveva, doveva trovare nuove formulazioni, doveva scavare sulla realtà delle cose, sul senso della vita», come ha detto recentemente di lui Ottavio Rossani, dalle pagine del Corriere della sera (26 dicembre 2014): scavava per trovare risposte, alla sua maniera, in tono ora dissacrante e beffardo, ora anche con ironica “leggerezza”, con la pietas che si confà a un vecchio “diversamente giovane” (quando «vivere ormai significa fingere/ fingere fingere / che si è vivi»), come nell’ultima prova del Diario, appunto, fedele comunque sempre alla propria consapevolezza etica e stilistica. 

È in questi termini, nella logica dell’”incontro” (che è anche scontro, si capisce), che va compresa tutta la coltissima operazione poetica e critica di Finzi, a partire dalla raccolta d’esordio La nuova Arca del ’65 e fino alle più recenti (Dèmone se vuoi, 1994, Soldatino d’aria,2000):come una esperienza in progress che fa dell’attraversamento (di eventi, situazioni, libri) l’occasione per affermare e confermare le proprie posizioni etiche, il proprio habitus di impenitente “malpensante”, in letteratura come nella vita. Eh sì! perché per lui l’esercizio della poesia si è collocato, da sempre, esplicitamente sotto la costellazione dell’indignatio, di quella che Giovenale riteneva per sé la più autentica Musa, a cui Finzi da par suo ha tributato il proprio omaggio in toni di volta in volta sarcastici, gnomici, sdegnati al limite dell’invettiva e dell’insolenza nei confronti, ieri, di una cultura massificata e degradata (emblematico il titolo di una raccolta non recente di saggi, di forte impegno civile Costume e pattume, 1990), e all’indirizzo dei «trecentomila italiani che vanamente credono di scrivere poesia» (sottotitolo del testo eponimo della raccolta, ossia Poetile): «una mano che scrive: tagliarla // due mani che battono / a macchina: tagliarle, tagliarle // bisogna non scrivere più, finire // finirla di frinire…». Una poesia di veleni, insomma, segnata da un umor nero (e il “nero” è una nota non casuale del suo vocabolario intellettuale e poetico, a dar credito, oltre che al nome di una collana da lui a suo tempo diretta per i Tascabili Bompiani, Stilnero, al titolo di una raccolta poetica, L’oscura verdità del nero, 1987), che col tempo è andato facendosi sempre più corrosivo: Poetile, nella sua non casuale articolazione in cinque parti («cinque dita, cinque sensi, cinque come l’ipotenusa del più piccolo triangolo pitagorico intero», suggerisce Cavalleri), mette in scena la vita, il quotidiano dei rapporti con uomini veri (Scheiwiller, Bellintani, Quasimodo, ma anche “Vincenzo”) e con situazioni reali, rivelando un’insofferenza sempre più acuta nei confronti di un mondo di mediocrità, di rampantismo culturale, di «superbiosa cultura di nozioni» di falsa solidarietà e di perbenismo, senza negarsi perfino all’autocritica, esponendosi all’«ironica malizia (o irosa arguzia)» di un Vanni Scheiwiller comparso in sogno e flagellante.

Un uomo “contro”, da poeta e da critico: «solitario, fuori schema, fuori scala, troppo altrove» per essere veramente compreso e amato da tutti, come sintetizza ancora Cavalleri.

Come meglio concludere se non con le parole del poeta Angelo Maugeri che, a proposito della sua franchezza critica («una dote che dava fastidio a molti»), ha ipotizzato che forse è stato proprio per questo che «non è stato considerato per quello che veramente valeva come poeta», accomunando il suo destino a quello «di chi non si aggruppa, di chi non vuol far parte del gregge, non diversamente da Roberto Sanesi, anche lui mai considerato “grande” e tuttavia poeta genuino, autentico?


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Parole “A guardia del futuro”

La poesia di Gilberto Finzi tra invenzione e progetto

“Ho sempre privilegiato la ricerca, l’innovazione, lo sforzo dell’invenzione che tenta di non ricalcare le vie più note, di non rifare le forme montaliane, quasimodiane o altro. Sono, lo confesso, un formalista che ama la verità della parola e del verso, ma che sa bene come tutto ciò vada unito a una qualità emotiva e a un timbro esistenziale che ne possano qualificare e autenticare la ricerca”.

Dettata da un’occasione estranea ad ogni ufficialità, l’affermazione si propone per quel che è, come un’autentica dichiarazione di poetica, dotata di un surplus di valore, proprio a causa della sua occasionalità, del suo appartenere allo spazio di un’amicale confidenzialità. Come dire, inscritta nello spazio di un bisogno di identificazione e identità: Gilberto Finzi, poeta che è anche critico, reclama dunque ciò che gli spetta, il riconoscimento di un ruolo conquistato e confermato sul campo, attraverso il “lavoro personale” e le tante “letture”, a sostenere quello “sforzo dell’invenzione”, che solo garantisce la “novità” e verità della parola di un poeta. Un poeta innovatore o, se si preferisce, sperimentale, uno che si colloca ‘Oltre’ , non già del noto e del detto (nihil sub sole novi) ma delle convenzioni espressive, delle mode (il montalismo e il quasimodismo della sua generazione, oltre che dei suoi studi e dei suoi lavori critici), per tentare le possibilità di adesione del linguaggio a quel leopardiano “sentimento al presente”, che ieri come oggi definisce come vera una esperienza poetica.

Un “formalista”, dunque, che ama la novità della parola e del verso e non teme di sfidare la “qualità de’ tempi”, il magma delle cose e degli eventi, entro cui si gioca non solo ogni storia ma anche ogni “progetto “ di futuro, lasciandosi da essa agire e perfino condizionare, salvo mantenere una ferma lucidità critica ed etica : è in questi termini che va inquadrata la personalità di Gilberto Finzi ed è lungo questa direttrice che andrà qui rintracciato e letto il suo percorso di scrittura, di parole ancorate sì saldamente al presente ma anche comprese delle proprie responsabilità e dunque “a guardia del futuro”.


Poesie laghiste 19+2

C’è un primo tempo nella poesia di Finzi, che primo non lo è affatto. Almeno nel senso della sua “emersione”, della sua cosciente e coraggiosa proposizione.

Si tratta di Poesie leghiste. 19+2, nate nel preistorico tempo di un’agra giovinezza di provincia, “fra le grandi estati e gli autunni rossi e gialli”, e solo molti anni più tardi venute letteralmente a galla dal pack montaliano delle carte e del tempi: testi segnati dalle stimmate di una stagione di stupori e di attese, versi in cui aleggia lo spirito del ’45, un misto di orgoglio e di giovanile trepidazione, che stilisticamente “risente da una parte del clima del nuovo realismo, dall’altra del portato della tarda lezione ermetica”, come ha rilevato al proposito Pier Luigi Ferro.

Illusioni paludate di nobile retorica, insomma, parole “a guardia del futuro”, filtrate cioè da un occhio più lungo, da una consapevolezza premonitrice, sulla scena di un paesaggio rurale devastato dalla guerra, prima, dallo sfruttamento di una brutale speculazione poi. Pure, qualche verso resiste ancora oggi e può davvero caricarsi di suggestioni, al di là delle date di composizione, al di là della sua collocabilità nei manuali : vive “la poesia per quel che è: incursione nel sovratempo”, sentenzia al riguardo Cesare Cavalleri e tanto basta.

E’ su tale scena, reale e ideale, che la scrittura si avventura: come lingua di una disponibilità ad un lirismo trattenuto e interferito, su registri di agrodolce elegismo quando non di lucido, sofferto sermocinare, in un bilico a tratti ambiguo, che la distanza temporale (un quarantennio, addirittura) e la prevedibile revisione ha potenziato in modo significativo.

Forte delle sue speranze d’epoca e già scaltrito dell’esigenza di una misura di equilibrio e di pudore, il poeta sperimenta ciò che sa e può dire a quell’altezza, apparentemente incurante di maestri - certamente, c’è molto, tanto Montale, il Quasimodo di Poesie e della stagione resistenziale, non meno di Gatto del Capo sulla neve del ‘47) - e consapevole delle proprie risorse morali e culturali.

Si disegna così, sotto i nostri occhi, un mondo di cose semplici, “miracoli” ed eroismi ignoti e quotidiani, dapprima in testi brevi e talvolta brevissimi, contornati dall’alone di casti affetti privati e familiari, da una diafana aria di serena, virgiliana dignità, e poi in strutture poematiche di ambiziosa epicità e robustezza (due poemetti, uno dedicato al sacerdote don Eugenio Leoni, ucciso dai tedeschi il 12 settembre 1943, l’altro al martirio di ignoti partigiani), in cui sentimenti ed esperienze vengono fatti reagire con un’ampia evocazione di eventi, di dati di cultura, di paesaggi, raccolti come sfondo storico, sulla scena di un paese di campi, laghi, nebbie e ‘acqueferme’ : felicità (e il termine non è casuale se ricompare su un testo centrale della raccolta, Felicità pensiero) di un’assorta giovinezza, in cui tra sogni e stupori s’annida anche il “chiodo” di un amaro, progressivo disincanto, il seme della rabbia, un’utopia generosa di futuro, nel segno del “volo”, del distacco, di una recisione del cordone ombelicale che costringe e lega l’Io al suo piccolo eden lacustre.

Un’Arcadia beata, davvero, se non fosse proprio per quel “chiodo ch’è nel cuore” e “mai si stacca” (Fuori porta) : un “chiodo” che strappa lontano da quell’ideale “linea lombarda”, cui pure l’autore ama imparentare questi testi, ma per parentele casuali e inconsapevoli (“prima ancora di conoscere Vittorio Sereni, Luciano Anceschi, Luciano Erba e gli altri”), sulla scorta solo di una comune temperie culturale. Un “chiodo” che è già del Finzi maturo (Luisa i fior di loto), di furia cieca e sanguinaria (Don Eugenio Leoni). Certo, ancora questo non si traduce, né potrebbe farlo, nell’aperta dissidenza delle forme aspre e dissonanti delle raccolte successive, ma già qualcosa si intuisce. Lo si sente dallo sfregio espressionistico di certe immagini (“L’altra faccia del cielo disperata / al di sopra di nuvole nere…”, in “Con le folaghe vola” ; “ribalta le sue viscere di legno / sul greto secco ogni barca”, in Luisa i fior di loto; “sulle scarpe si videro il cervello”, in I Martiri), dalla passione tutta “scapigliata” di certe catacresi di immagini in serie assonanzate e allitteranti (per tutte, quella fissata nell’ultimo verso di In ogni zolla in ogni pugno), e in quello che Giuliano Gramigna chiamerà “sguardo dal margine” sulle cose, uno sguardo cioè di sghembo, da una posizione solo in apparenza marginale ma in realtà fortemente coinvolto, che, se anche non sfiderà come in Tre formule di desiderio la sostanza verbale delle altrui storie, gioverà almeno (complici i Martiri di una Resistenza presto tradita, non meno dell’eroico don Eugenio Leoni dell’eponimo poemetto) a chiarire ragioni e responsabilità di fronte all’”aprile della speranza” mai compiutamente realizzata, facendo leva sul valore e il significato di gesti ben eloquenti, come le “unghie tra erba ed erba” di don Leoni a tracciare “un duro segno di croce / argine fra terra ed aria” o il macabro dondolio di un corpo, “frutto mortale del platano”, che “impaurisce / domani gli scolari”, senza forse riuscire a diventare mai davvero un monito convincente per i loro padri.



La Nuova Arca

La nuova Arca, la prima vera raccolta organica di Finzi, esce nel ’65 , all’insegna di un titolo quanto mai suggestivo, che chiama in causa molteplici livelli di lettura. Per uno che come l’autore non fa mistero di appartenere alla “razza / irriducibile” marchiata da “due triangoli, una stella” (anche se professa un franco scetticismo di fronte alle eventuali implicazioni religiose), l’Arca allude a un ordine, entro cui le essenze della vita fisica e spirituale trovano posto e giustificazione : simbolo insieme di salvezza (l’Arca di Noè) e garanzia di fedeltà (l’Arca dell’Alleanza), si configura anche, nella visione sincretistica di giudaismo, platonismo e pitagorismo, propria di Filone di Alessandria, come emblema dell’Intelligenza, in contrapposizione al deperibile mondo delle apparenze sensibili. A quale di questi sensi l’Arca del titolo rimandi non è detto esplicitamente, di volta in volta sembrando alludere al primo (nel testo eponimo della raccolta), o al secondo (in Pro Papa infirmo e in Risposta), sempre comunque proclamando a chiare lettere la necessità di guardar dentro, di intus legere, oltre l’apparenza, oltre la scorza di eventi e persone, oltre ogni pregiudizio e stereotipo, con corrosiva determinazione espressiva.

Preceduta dalla pubblicazione di un piccolo ma intenso assaggio, Milano la sera di Cuba, la raccolta è il frutto di una progressiva maturazione che ha fatto assumere all’autore una coscienza sempre più chiara delle responsabilità del linguaggio come depositario della verità dell’Io e del suo modo di stare nella storia, che va ben oltre l’esile felicità di tante “anime belle” a stento affioranti dalle nebbie della loro stenta lombardità. Compromettersi, sporcarsi, se necessario, rivoltarsi : sono queste le parole d’ordine, che si traducono in una poesia senza consolazione, aliena da ogni contemplazione, giocata tutta in energiche apostrofi, cariche spesso di sferzante ironia, e determinata a far convivere su un coltissimo endoterra di libertarismo ideologico e metodologico Marx con Freud “in un transfert di natura linguistica”, come l’autore stesso ammetterà nel proemio “al mezzo” de L’Alto Medioevo nel suo più brutale ricorso ai nostri giorni.

E’ un “nuovo” linguaggio della passione (civile e morale) quello che questa poesia mette in scena : un linguaggio che si destreggia già con consumata abilità, come gli riconosce la critica più avveduta (Quasimodo, sopra tutti, in un memorabile articolo comparso su “Tempo”), tra due Arcadie, una di destra (consolatoria e populista) e l’altra di sinistra (oltranzista ed eversiva), per proporre la sua “terza via”, fatta di rifiuto d’ogni mistificazione, in nome di un’esigenza di “nuovo realismo”. In che cosa consista, Finzi ce lo dice ripetutamente, sia teorizzando (ne Lo spirito del ’45 del ’67 e più tardi ne L’Utopia letteraria del ’73), sia nei testi, concretamente praticando una scrittura spezzata ed emotiva, in re, intrisa di umori e veleni i più diversi, alla ricerca di un senso collocato in un altrove sempre sfuggente, così dentro le linee/versi del testo da restarne soffocato e risultare oscuro e inconoscibile. Un progetto davvero titanico, quello che l’autore persegue : “ una ricerca continua”, dirà più tardi in un intervento al Convegno sul Movimento della Poesia italiana negli anni Settanta al Club Turati di Milano nel ’78, “nel tentare il ‘possibile’ e forse il futuro anche nella compromissione col passato, pur nella occulta e fortissima pressione del presente”.

Che questa “pressione” ci debba essere e ci sia già nella Nuova Arca, non c’è dubbio. A dimostrarcelo, ove ce ne fosse bisogno, basti il titolo del testo che l’ha anticipata e che qui è messo a bella posta in forte evidenza, come un autentico interpretante di una poesia che fa del reale, inteso persino come cronaca, il suo oggetto privilegiato.

Milano la sera di Cuba è, infatti, la drammatica messinscena di una brumosa serata milanese che non è come tante: è la sera di un’attesa atroce, sotto la minaccia di un possibile conflitto globale, nel punto di massima tensione della crisi cosiddetta “dei missili” tra Stati Uniti e Urss, nell’ottobre del ’62. Di fronte, o meglio ancora in essa, il poeta (“Ulisse che torna / inutilmente”) si ritrova come e più di altri a disperare di ogni salvezza, in mezzo al “deserto” agghiacciante di valori, alla “landa” nuda e funerea, cui è ridotta la città sull’orlo di una catastrofe definitiva. Certo, quantunque segnato da evidenti echi letterari (del Quasimodo di Milano, agosto 1943 , all’inizio, e di Uomo del mio tempo, nella parte conclusiva), il testo appare decisamente nuovo, ben lontano dalle prove precedenti, dalle Poesie laghiste all’epoca ancora precauzionalmente nel cassetto, costruito com’è per accumuli di notazioni diverse, frantumi di diversa provenienza rifusi al calor bianco di un forte sentimento, di un atteggiamento di energica resistenza morale e insieme di sferzante ironia, in un dire jazzistico e sincopato di forte impatto e suggestione. “Non si rivolta”, è questa la chiave del testo : dice lo sconcerto dell’autore di fronte a tanta indifferenza, la sua condanna dell’apatia e dell’indifferenza dei più, la scelta della denuncia. Davvero, Finzi si rivela “erede della dialettica di Alfieri”, come riconobbe subito Quasimodo nell’articolo citato e come confermerà qualche anno più tardi Giuseppe Zagarrio sulla rivista “Il Ponte” (3 marzo 1972), parlando di “dramma del no” come tratto caratterizzante della sua personalità e del suo stile.

Più avanti, in Risposta, reagendo a una sollecitazione montaliana (in Botta e risposta, nota anche come Le stalle d’Augìa), tale scelta è ribadita nel rifiuto dell’”assuefazione” e dell’”accettazione”, contro cui l’unica vitale “uscita” è costituita dalla “deformazione”, dall’”accusa”, dalla “dissoluzione”: il poeta, fiero delle infamanti stimmate della sua “razza / irriducibile”, grida l’acquisita coscienza della propria “diversità” (sostanziale , del resto, al poeta, essendo lo scrivere poesia “ un modo della diversità”, come dirà in Poesia in Italia, p. 11) e la volontà di guardare in faccia il nemico, il “Pianeta di Platino”, operando concretamente per la sua esorcizzazione e neutralizzazione, non diversamente dall’antico patriarca di fronte alle “mura di Gerico”.

Proprio su quest’immagine, “le mura di Gerico”, forse occorre per un attimo soffermarsi per cogliere il messaggio più o meno esplicito della raccolta. Alla luce della constatazione della sua appartenenza allo stesso ordine simbolico dell’Arca, potrà non risultare sorprendente la sua assunzione a metafora della Civitas corrotta e corruttrice del danaro e degli appetiti più meschini, del “Pianeta di Platino” contro cui scagliare il proprio grido di rivolta, in attesa (ahi quanto vana e velleitaria!) che “al suono delle trombe” del poeta, redivivo Giosuè, finalmente le mura crollino.

Un ultimo dato, per concludere, va segnalato: l’insistente presenza pur all’interno di un discorso rotto e frammentato, all’interno di un’armonia “sobbalzante-stridente” (in A Gauguin), dei segni della geometria (triangoli, cubi, ellissi, angoli, trapezi, cerchi), quasi a voler fissare il drammatico incrocio e scontro tra emozionale e razionale che il poeta sconta sulla pagina vivendo/scrivendo.


L’alto medioevo

Alle soglie degli anni Settanta, appena oltre gli anni del fiele e del furore, esce L’Alto Medioevo nel suo più brutale ricorso, ai nostri giorni, una plaquette agile e compatta, comprendente poesie composte tra il ’65 e il ’70, disposte in ordine inverso, prima le più recenti e poi le più antiche, con giusto al centro a mo’ di cerniera una preziosa Notizia biopoetica ad uso esclusivo degli amici, in cui il poeta dà ragione di scelte e intenzioni e fa il punto su tutto il suo percorso fino a quella data.

Una precisazione, doverosa, sul titolo. Medioevo è parola carica di energetica ambiguità: dice barbarie e disordine, ma anche creatività e fecondità di pensieri e forme, povertà e abbrutimento ma anche ricchezza e fervore. Coniugato poi ad Alto, evoca l’idea di un maximum, di un qualcosa di esemplare nella sua abissalità, positiva o negativa che sia. Esposto nel titolo del testo inaugurale e promosso a eponimo addirittura della raccolta, il sintagma assume dunque il ruolo di fertile interpretante per dire la coscienza del poeta di operare in una situazione magmaticamente indefinibile, dalle imprevedibili possibilità, tanto negative quanto positive : trionfo e rovina, insomma, perdita e conquista, ottusa barbarie del Potere ma anche vitalità del sentimento e della fantasia, quale è incarnata in quegli anni mitici dai motti di battaglia di una generazione révoltée. Su questo Medioevo, che ai nostri giorni ritorna col suo carico di indecifrabile violenza e brutalità, Finzi sospende dunque il suo giudizio, fermo restando che la sua posizione è quella di chi guarda con enorme speranza e passione ai segni del mutamento: di chi sente che tutto può avverarsi o anche perdersi, ma che è necessario esserci, partecipare alla “cannibale danza”, no, ma alla “lotta d’amore”(in L’Alto Medioevo nel suo più brutale ritorno) , sì, di tutta la società, in cui si giocano il destino e il futuro stesso della civiltà. “E sì che sono / presente”, grida anche se non senza un alto tasso di ironia in Un cavallo pallido, quasi a voler lì e altrove rassicurare complici e sodali (i “pochi scapigliati”, Sereni “pallido, primo / contraente di un / verecondo credo”, i “proletari “, la figlia in La Resistenza spiegata a mia figlia) e contemporaneamente verificare soprattutto con se stesso, novello “Farinata” di un inferno senza speranza, la capacità di far sentire la propria voce, di far notare agli altri la propria “esistenza di gesso”. “Passio drammatica”, la definisce il poeta questa rappresentazione in forma di parole, visto che ormai la poesia, quella intesa come “sospiri” e “cuore”, è morta e sepolta e la sua “bara” definitivamente sigillata dalla “borchia d’oro della critica” (in All’erta, no ) : passio , dunque, come messinscena di un sacrificale rito di salvezza individuale e collettiva, affidata alla tenuta della voce, al filo di fiato, che sa e può esercitarsi solo su minime cellule di canto, sulle sillabe della rabbia e della speranza, inscritte nella pagina (non nel testo) come “segno”, come graffio lacerato e lacerante. Lo scopo di tutto questo, Finzi lo dichiara esplicitamente nella già ricordata Notizia: “Protesta contro il sistema; progetto di futuro; funzione centrale del linguaggio: una sola poetica ha dettato nuove poesie. Il tema politico, amoroso, satirico, letterario anche, è ora a volte eluso (sic!) in uno strumento indiretto, immutato nella violenza ma programmaticamente formalizzato: sia nell’estremo sperimentale sia in certi apparenti recuperi”. In effetti, all’interno della raccolta i diversi temi si intersecano e intrecciano, spesso addirittura si sovrappongono, in una comunicazione volutamente frammentata e disturbata : pubblico e privato, cronaca e storia, famiglia e società, vita e cultura, sentimenti ed esperienze si scontrano sulla scena informale della scrittura con la stessa violenza della vita, producendo un magma verbale e sintattico di rara intensità, in cui si accavallano e si inseguono spesso in angosciante disordine nuclei narrativi e “dignità” aforistiche, lampi di memoria e giudizi, silenzi e grida, che ti lasciano tramortito. Niente paura, dice Finzi : “valga la significazione globale, la lettera, insomma, il senso / il suono univoci della poesia: cioè la parte sensibile (leggibile/udibile) del fondamentale rapporto emozione-ragione”.

Una considerazione, infine, sulla scelta inusuale e apparentemente incongrua di una tale distribuzione della materia: è come se l’autore, ribaltando l’ordine cronologico della composizione, volesse subito orientare l’attenzione su testi di più urgente istanza, come gli unici davvero attuali, gli unici portatori di un autentico “progetto”(di novità, di “futuro”), gli altri confinandoli alla marginalità, in un ruolo puramente documentario. Poesie di rabbia, di libertà: invenzione, passione, irrisione : è questa la “nuova” stagione di Finzi, in cui sembrerebbe perfino aggiornarsi il motto dell’antico Giovenale, facit Indignatio Versus (“a fare i versi è l’Indignazione”), se non fosse che qui è assente ogni moralismo, ogni acredine passatista da laudator temporis acti. In un’epoca in cui tutto, anche e soprattutto il privato, è politica, il poeta grida la sua rabbia, incurante perfino del senso e delle ragioni dei lettori, convinto com’è che nell’assoluta necessità di ciò che dice nel modo in cui lo dice (l’unico significato essendo soltanto “la parola scritta”) consista la sua partecipazione ad un processo di mutazione del reale, al poderoso sforzo di trasformazione di tanti, di tutti. Sia come sia, non c’è dubbio che davvero L’Alto Medioevo, il testo eponimo e inaugurale della raccolta, proprio perché il più caldo e recente, sia un “testo metapolitico”, proprio come vuole il poeta, “da leggere come ‘centrale’” dell’intera raccolta : un testo per così dire di militanza, di chiara scelta di campo. Che cosa lo fa tale oltre le intenzioni dell’autore? E’ quella che Gio Ferri chiamerà la “passione del tempo” (in La ragione poetica, p.142), il suo stare dentro la realtà in un’epoca di contraddizioni, a ridosso degli anni Sessanta (del mitico ’68 della “fantasia al potere”), con la coscienza di stare su un discrimine essenziale della storia (alluso forse dalla precisazione che l’opera è stata licenziata dalle stampe il“31 dicembre 1970” ? ), su un nietzscheano promontorio estremo dei secoli, da cui, “divinatore di enigmi”, il poeta, “piantato tra l’oggi e il domani”, sente che “ogni audacia della conoscenza è di nuovo permessa” (F. Nietzsche, La gaia scienza, V, 343), in nome di un’assoluta libertà di pensiero. È questa libertà (di pensiero, di linguaggio) che lo fa “nuovo” : il suo accettare la sfida della complessità senza lasciarsi travolgere dal disordine degli elementi ma anzi entrando con essi in fertile interazione per imprimervi il proprio marchio, il proprio “segno”.



Morire di pace, autobiografia

C’è un piccolo ”giallo” nella storia editoriale di Finzi ed è legato alla pubblicazione di Morire di pace. Autobiografia. In effetti, a stare all’ordine cronologico delle diverse raccolte, questo titolo, il terzo dopo La nuova Arca e L’Alto Medioevo, si colloca senza incertezze nel l977, per i tipi di Shakespeare and Company col corredo di opere pittoriche di Valentino Vago, se non fosse che sorprendentemente con lo stesso titolo e con gli stessi testi l’opera rivede la luce, esattamente uguale, senza aggiunte e correzioni, molti anni dopo, nel 1992, in una stagione volta a una ricerca poetica di tutt’altro segno e valenza. Appartiene autorevolmente al ’77, come ci conferma anche la presenza di un suo brano, 1957, nell’antologia Poesia degli anni sessanta (1979) di Antonio Porta, oppure al ’92 della sua riemersione da un oblio quindicennale? Si tratta di una semplice riesumazione, come pare lasciar intendere la sua immutata sostanza, oppure è dettata da un calcolo sottile, un’operazione concettuale di raffinato snobismo? Sia come sia, forse la risposta più convincente potrebbe essere la più facile, ossia che a dettare tale gesto potrebbe essere stata soltanto l’ansia del poeta di verificare la tenuta di quanto scritto un quarto di secolo avanti (il testo, per esplicita ammissione, sarebbe stato composto addirittura “nei mesi centrali del ’66). Quindici anni prima o quindici anni dopo, fa lo stesso: ciò che conta è, come sempre, il testo nella sua flagranza e gli strumenti linguistici e strutturali adottati. Al riguardo, Finzi è molto esplicito nella nota che correda l’edizione più recente : “A quasi 15 anni dalla sua prima pubblicazione, e a 25 dalla sua stesura, Morire di pace (autobiografia) viene riedito senza ripensamenti e senza correzioni d’autore (come si usa dire) perché il suo tema così strettamente personale non consente, non richiede alcuna sostanziale modificazione”; e la forma dichiaratamente poematica, dal canto suo, si giustifica e comprende alla luce dei modelli d’epoca, nel clima di certi sperimentalismi stranieri e italiani (penso a Pagliarani de La ragazza Carla del ‘62, al “pariniano” Risi con la poesia “utile” di Dentro la sostanza del ’65 e, perché no?, anche al Sanesi di Rapporto informativo del ‘66 ).

Ma che cosa concretamente è Morire di pace, del ’77 o del ’92 che sia? E’ un testo fra prosa e poesia, che ripercorre in quindici stazioni la vita del poeta : “una vera e propria autobiografia dell’ira e della poca gioia di un giovane fra il 1943 e il 1957”.

Naturalmente, il termine autobiografia, benché qualificato da una dichiarata attestazione di verità, anche soltanto a una prima occhiata il testo, appare depistante e ironico, essendo l’intento dell’autore “furiosamente opposto” : “ decomposizione delle ‘decenze’ o della storia”, come mette in guardia nella prefazione Giuliano Gramigna, piuttosto che edificazione, “apologia del niente” (in 1956) piuttosto che esaltazione di qualsivoglia esemplarità, con un Io vanamente ancorato al ruolo di detentore del bandolo di un protagonismo esistenziale/generazionale ma senza alcuna mitografia.

“Stolida nostalgia” (in 1943), narcisistico compiacimento o piacere dell’anamnesi e dell’analisi ad oltranza che sia, l’Autobiografia incarna per Finzi un sentimento del tempo tutto inscritto nella forma, nelle forme del testo, “significante pro significato” (in 1956), dalla cui luce cangiante e violacea anche i singoli brandelli riconoscibili di “storia” (la guerra e l’amore, l’esperienza politica e le amicizie, il lavoro e i tentativi letterari), oltre che le tante culte citazioni letterarie incorporate e non di rado stravolte, si configurano come frammenti irrisolti e irrisolvibili, segmenti con la nostalgia dell’unità, di un continuum mentale e fantastico, fatto di inseguimenti e accavallamenti di nuclei di senso e di parole, di un linguaggio che concresce su se stesso in giochi e lapsus, in inversioni e scardinamenti sintattici.

Un “testo informe”, insomma, Morire di pace, in cui l’Io fedelmente si rispecchia e legge i propri “confini”, come recita il testo conclusivo 1957 : è in questi termini che questa poesia (ma forse è meglio dire parlarpoesia ) va intesa. Dotata com’è di forte autoconsapevolezza e di lucido controllo dei suoi intrecci intertestuali, essa vive della propria sostanza formale, rifiutando il mito di una sostanzialità al di là del tempo (“è miserando credersi immortali”, ammette nel testo citato) o di un “in sé” ontologicamente dato e proclamandosi perfino appagato della propria “disperazione” come dell’unica condizione pienamente umana.

Val la pena, per concludere, riportare il giudizio di Antonio Porta (in “Giorno –libri”, n.78, 27 luglio ’77) : “L’autobiografia “in versi” di Gilberto Finzi si forma dalla ricomposizione delle rovine linguistiche e formali di un romanzo che l’autore ha ritenuto impossibile scrivere, una ragione semplice e fondamentale : che l’Io gli si è spappolato tra le mani, che il personaggio destinato a diventare protagonista. è scomparso ancor prima di fare la sua apparizione sulla pagina. Che qualsiasi “epopea” di altri personaggi, in relazione con l’Io protagonista, è apparsa degradata e risibile ancor prima di vedere la luce nella scrittura”.


68 e dintorni

La quarta raccolta, 68 e dintorni, esce nel ’78 e comprende poesie composte tra il ’65 e il ’70, esplicitamente nel solco de L’Alto Medioevo, quasi come loro costola e ideale prosecuzione. “Titolo più esatto, o corretto, di questa raccolta di versi dovrebbe essere “Il resto dell’Alto Medioevo” : il riferimento è dunque a L’Alto Medioevo nel suo più brutale ricorso, ai nostri giorni “e all’incrocio fra gli anni sessanta e settanta”, confessa infatti Finzi in una breve premessa, precisando comunque di sentirne la maggior parte dei testi datata e distante dal suo gusto attuale.

Posti dunque entro un orizzonte di passione ben identificabile fin dal titolo, i testi di 68 e dintorni si configurano, non meno dei loro “fratelli”, come “progetti poetici” che sono anche soprattutto “progetti di futuro”, mettendo in scena tematiche e soprattutto forme direttamente ricollegabili a quella mitica stagione.

Se “lo stile è una identità attraverso il linguaggio” (come si legge nel suo intervento, Il prossimo villaggio, al Convegno “Letteratura e Scienza”,1993), lo stile di Finzi, di questo Finzi, è quello della franchezza, della ribellione, di una “libertà” morale e insieme espressiva : “Il Rifiuto prima di tutto”, grida in Caro Guido, in cui, complice anche la confidenzialità della forma epistolare, possono essere più di sempre riversati nella forma dell’autenticità e dell’ immediatezza rabbie e veleni ideologici. E’ in questo “Rifiuto” (con l’iniziale maiuscola) che Finzi trova e rivendica la sua identità, affidandola a parole amare e senza consolazione, nella scrittura di una vis che si ribella al controllo retorico dell’emozione, per aggredire con violenza miti e riti della società contemporanea (“una bolgia inferna”, sempre nel testo citato), la società del Profitto e dell’ Ordine (del Dio Quattrino, direbbe uno “scapigliato”), con la coscienza ahimè di poter fare ben poco. Ecco, è forse questo l’elemento nuovo che ormai segna la distanza dall’ Alto Medioevo: la coscienza dell’inutilità della lotta, con il “Rifiuto” confinato ormai a risposta individuale e velleitaria al Potere.

“Una bolgia inferna, un / vuoto ondoso” : è lo scenario dell’inizio di una fine, questo che si scrive in Caro Guido qui antologizzato e che altri testi evocano con non minor passione e direi quasi con spirito profetico (penso a “ l’infinita orgia con collera e sospetto / flagelleremo / con foga le zanzare / per esercizio le farfalle / per noia i cuori dei leoni” di Passaggio del mercante Rimbaud ); il teatro del cinismo (“i migliori argomentano ‘fucili solamente’”) e dell’infamia (“Nessuno parla. Nessuno invia messaggi”), col poeta segnato dalle stimmate del reduce (significativo il titolo Venti anni dopo) e autocritico sul proprio impegno una volta decantato (“vanti la tua / novità senza belle finzioni, / libri di poesia, Marcuse, Freud, il Nuovo Politecnico / à chevet”), sulla funzione stessa della propria poesia.

Alle soglie dunque di una nuova stagione (“nell’attuale momento scrivo diverso”, è la premessa del libro), rabbia e volontà di cambiamento sembrano confinarsi coscientemente ad uno stadio “preistorico” e il ricordarle (in lettera, per giunta) vale quasi da addio, da testamento. Come dire: abbiamo creduto, abbiamo lottato, adesso basta, o almeno cediamo ad altri il testimone: a noi è sufficiente la nostra piccola verità, la lezione che può aiutarci a sopravvivere (“da quanto brucia abbiamo imparato / a riconoscere l’ortica”) per amara e intollerabile che sia.


Tre formule di desiderio

Il libro “diverso”, che Finzi in 68 e dintorni annunciava di star scrivendo, è Tre formule di desiderio e compare nell’81. Poesie di malessere profondo, di inquietudine che buca continuamente la pagina, sfrangiando le parole, sommuovendo la sintassi con tellurica potenza, in una vertigine entro cui il soggetto scivola, verso per verso, inesorabilmente “nel culo / della follia”(in La breve follia) : è questa la “novità” della raccolta, posta all’insegna di un sentimento di inappartenza e insoddisfazione, di disorientamento (quale è quello che può disegnarsi nella figura del titolo), che l’Io sente come condizione essenziale e insopprimibile. La sensazione, che ne deriva, per chi scrive non meno che per chi legge, è di perdita e di vuoto, ai limiti dello scacco e del sacrificio (“Muori persona interpreta te stesso”), entro cui l’unica verità è davvero soltanto il significante, ciò che appare e fissa enigmatiche isole di senso, la parabola della scrittura nel suo divenire eterogeneo, accidentato e alterante. Una perdita di equilibrio e di aureola, insomma, entro cui si avvera un’alterità , che si produce inesauribilmente nella pratica del desiderio, celebrandosi per soglie successive in acquisti e possessi, ma più spesso in perdite, compresa del dettato nietzscheano che “anche il parziale divenire inutile, l’intristirsi e il degenerare, lo smarrirsi di senso e conformità al fine, la morte insomma, rientrano nelle condizioni di un reale progressus ” (da Genealogia della morale).

È entro tali coordinate che va colto il senso di questa esperienza di scrittura : come momento di ripensamento e di crisi senza palingenesi, come tentativo di ricostruzione sperimentale del mondo attraverso un “ perenne / colpo di dadi”, da parte di un reduce acrimonioso e deluso, in credito perenne con la vita e che assegna alla poesia il ruolo di “formula di desiderio”, intesa non solo nel senso di incantesimo ed esorcismo, ma soprattutto come sigla, grafo e glifo, graffito di una condizione (è la tesi di Gramigna ), incisa nel corpo della pagina, significante esposto nudamente al vento del nonsenso, cui disperatamente aggrapparsi per salvarsi e sopravvivere. Di esempi in tal senso ce n’è ad ogni pagina: tradiscono l’angoscia perfino graficamente, nell’accavallarsi di versi e parole, negli scatologici rigurgiti verbali, nei rovelli plurilinguistici, nelle impennate e sospensioni della voce, nell’efflorescenza di parentesi e sbarrette, che costellano di spacchi e ce(n)sure il testo, aprendolo sull’abisso dell’inconscio e all’irruzione della pluralità e della differenza. Si può citare a caso : “Dove il tempo – scorreggia della mente // il culo tondo del cielo (mondo) // la viziosa morta – il personale assente (o quasi deficiente / della stronza mistaking life / opp.” (in La breve follia); “del parlare nelle assemblee / (la scuola come maestra) / (per adulti) (frustrati) (soli) (castrati / nel posse e nel velle)” (in Di notte, sulla condizione politica); “Amleto e le grotte dei / Giardini / Ofelia (che farà il sesso / la prima volta? I want / to be happy!),” (in Due poesie in memoria, 2); “Tenero lume – inverecondo cazzo - / dalla – cadente – sfrontata – a frangia” (in Tenero lume). Proprio quest’ultima citazione ci porta a ridosso della caratteristica forse più rimarchevole della raccolta : il rapporto di rimanipolazione del senso che il poeta pratica con beffarda improntitudine nei confronti di testi di poeti antichi e contemporanei (qui nei confronti dell’Ultimo canto di Saffo leopardiano), nella terza sezione della raccolta, Scritte su pagine bianche di libri.

Atto inosabile e blasfemo, attentato al sacro principio di proprietà della parola: insinuandosi negli interstizi delle parole altrui, il poeta si aggrappa alle “moltitudini del Me” che si agitano nelle pagine dei poeti letti e interrogati, sulle quali getta impudentemente la sonda di uno sguardo sghembo, che, secondo Giuliano Gramigna, “ permette di sconnettere tutte le centralità altrui” ma senza essere incolpabile di sabotaggio. Il risultato è un gioco serio e perfino drammatico di imboscate e inseguimenti, nel tentativo di sopraffare o smascherare un locutore originario ( che sia Carducci o Campana, Zanzotto o Borges, Montale o Sanguineti ) per costringerlo a svelare il nucleo rizomatico dell’angoscia, che ha attivato nei suoi versi la macchina della scrittura come esorcismo.

Una constatazione, per concludere: il dato che risalta è il fatto che il significato che ancora resisteva come luogo di identità storica e più ancora coscienza morale del soggetto nelle raccolte precedenti, cede sempre più il passo al significante come linguaggio dell’inconscio continuamente in procinto di scivolare (donde forse la necessità di puntellare perfino visivamente spazi e parole di sbarrette), come discorso che procede lungo una catena vuota, scandita solo dal corpo delle lettere, con l’Io ormai del tutto disorientato in un doloroso parossismo. Forse, a esprimere bene questa sensazione, è l’immagine estrema del libro, posta in Scritta su Confuso sogno di Sandro Penna: il fantasma cioè di cassandra che si disegna come ossimorico destino della parola poetica, cresciuta anagrammaticamente sulla saldatura di cassa/bara con la spoglia di un andra (“uomo”), a testimonianza di un disperato ancoraggio, alle soglie del vuoto e del silenzio, a un destino umano della parola, ancorché inascoltata e inascoltabile.


L’oscura verdità del nero

L’’87 è l’anno della raccolta L’oscura verità del nero, un libro ricco e complesso, che fin dal titolo promette molte novità, incentrato com’è su un violento, enigmatico cortocircuito cromatico, incrostato di rimandi culturali impegnativi (Corneille e Leopardi, certamente, ma anche Dante).

Strutturato in quattro sezioni (Arcani, Stanze nere, Misteriocronache, Comportamenti), presenta testi composti tra l’’80 e l’’85, caratterizzati tutti da una temperie, coloristica e morale, tendente ad una visione della vita più amara che mai, evidenziata anche dalle brevi note conclusive : in Stanze nere sono “sogni neri o in nero, scritti da una città terrena in dissoluzione”; Misteriocronache suggerisce “l’enigma che sta dietro la quotidianità”; in Comportamenti si inscenano situazioni “grottesche oppure tragiche”; Arcani, infine, allude al gioco del caso che regge le sorti umane nel segno delle 22 carte dei Tarocchi.

Una visione della vita più amara che mai, si diceva, senza però mai rinunciare a una lucida intelligenza delle cose. In effetti, è un dato che emerge subito la presenza della morte, evocata fin dal primo verso di Arcani (“tutto marcisce per un’altra vita”) fino a costruirsi come leitmotiv, anche se non necessariamente lugubre, dell’intera raccolta . Ma accanto a questo, come suo necessario correttivo, ecco un altro elemento, quello esemplificato dai versi conclusivi de Il Mondo caldo (“L’immagine del cerchio e del mondo / dentro sta tutta / l’infinità finita / l’infinita finità”), dove trova espressione una “lucida disperanza”, consistente nello sforzo di oggettivare, di distanziare ed esorcizzare, per forza di scrittura (il gioco, qui, paronomastico finito/infinito) la follia incombente della vita, il baratro stesso della “vanezza”. Ecco, è su questo duplice binario, lucidità e disperazione, che va intesa la poesia di Finzi da questa raccolta in poi: volontà di guardare in faccia la realtà, per amara che sia, senza lasciarsi travolgere e sopraffare, rinverdendo antiche rabbie e passioni ideologiche, ma soprattutto determinazione nel congelare il magma emozionale nella forza secca e pungente della scrittura. È proprio la scrittura, “infinità finita” e “infinita finità”, a farla da padrona in questi versi: vita ed esperienze, sentimenti ed emozioni, assumono grazie ad essa l’aspetto di arcane parabole, araldiche metafore ed enigmatiche spettrografie metafisiche, a testimonianza di uno sguardo freddamente attento a un oltre, fuoriscena e fuoristoria, diviso tra astrattezza e concretezza. Si veda nel testo che dà il titolo alla raccolta la parte conclusiva, giocata tutta, oltre che sull’impatto percussivo degli accenti, su una secchezza astratta e categoriale : “l’oscura rana la buia trama / la freddità la nuotità la felce vera / la marità il tuo dal mio - / la sera”. È come se, nella morsa di un dolore intollerabile, si fosse inaridito il “verde” di ogni speranza e fosse venuta meno ogni fiducia nella storia, nell’umano agire come agente di trasformazione: davvero “la passione del tempo si è trasformata in passione della cosa”, secondo l’intuizione di Gio Ferri, e l’unica risorsa è far appello alla poesia (“cosa leggera e falcata che spesso / non trova l’uscita”), alla sua capacità di dire il mondo se non di trasformarlo.


Demone se vuoi

A dispetto di attese e premesse, ecco una “storia”, una grande storia d’amore. La raccolta Dèmone se vuoi, uscita nel ’94, mette in scena un Finzi “nuovo”, felice sia a livello umano che letterario. “Le storie d’amore nel sogno hanno sempre / luce”, dice in Affondo e ci immette nel privato di un’esperienza amorosa, vissuta con la complicità della scrittura e trasformata sull’ingannevole filo delle date, pagina dopo pagina, in un’esplorazione di vitalità espressiva, in una “luce” che nel cortocircuito del sentimento si accende anteriormente al discorso e dietro il proscenio della coscienza su quella che Roland Barthes definirebbe “ una piccola storia sacra”, prima di vivere interamente (e internamente) come linguaggio, in un misto di grazia e trasgressione, come l’immagine femminile (“umida foglia, anima sospesa, / fino amore”, in L di lei, “labirinto, mela o arcobaleno”, in La mano ladra, “passero / o ciuffolotto, gola piacere e proseguimento / del sereno e del perso”, in Metafore) interloquita e amata nella “storia in versi”. Allora, “sesso come interpretazione e integrazione”, fino a diventare “emozione e perfino esaltazione del fantastico individuale”, come aveva raccomandato lo stesso Finzi in una riflessione contenuta nei saggi di Costume e pattume del ’90? Probabilmente sì, anche in questo libro così creativo nella sua giocosità, a patto di capire che si tratta di una “gioia” (del conoscere per-verso) e di una trasgressione, che si distribuiscono nella vita e nella parola senza calcoli ma con l’ irresponsabile improntitudine che fa del poeta uno che letteralmente esiste nell’attimo (“l’attimo / in cui tutto è simile al simile”, in Tenderly: esattamente come un verso che si sporge sull’inferno (“nell’inferno sei entrata curiosando”, in Conoscenza) e vi scopre un sogno esaltante o un terribile ignoto.

Al di là comunque di questa intrigante sostanza contenutistica, “in questa sorta di tango macabro tra gioia e Io che insegue inseguito dalle sue ossessioni” (la definizione è di Adam Vaccaro, p.163) , c’è un dato espressivo e strutturale che merita di essere rilevato ed è il ricorso ad un tipo di componimento, quale lo strambotto, di contenuto prevalentemente amoroso e leggero, popolare sì ma anche letterario, a connotare l’esperienza vissuta e cantata in questi versi nei termini di un gioco serio e calcolato, regolato da perfette geometrie e alimentato da un intimo sommovimento, dall’ispirazione (“è il fuoco l’anima vera, la rossa e poi nera / foglia del futuro, / l’ispirazione, il dono / tremendo che di sé solo / scrive e finché vive / regola e divide, / incide”, in Stilo, matita o tasti ) . Ecco, è nell’incrocio tra regola e incide il segreto di questa poesia : dice calma e forza, determinazione e convinzione, progetto e padronanza dei mezzi espressivi per realizzarlo.


Soldatino d’Aria

È nella linea de L’oscura verdità del nero, piuttosto che di Dèmone se vuoi, l’ultima raccolta di Finzi, Soldatino d’aria, pubblicata allo scorcio del millennio, nel 2000: una continuità e contiguità di toni e di temi, perfino a livello testuale ( Linea della vita) ed espressivo( “la nera verdezza” di Euridice, 4, esplicitamente ricavata dal titolo della raccolta dell’’87). È come se dietro (o nonostante) “l’ultima delle ombre”, l’amore di Dèmone se vuoi (in L’Africa di dentro), riaffiorasse l’”inferno” pubblico e privato di sempre, la solitudine come condizione esistenziale, di fronte al destino e al mistero della porta che tutti temono di aprire, “l’unica che dà sul dopo”(sempre in Euridice, l). Un nero tunnel di buio, dunque, questo libro, un itinerario desolato da Euridice e altri inferni, la prima sezione dedicata alla moglie morta, a No , l’ultima sezione impregnata di rabbie e fiero nichilismo: in mezzo, Colori , Linea della vita (“in cui il vivere sembra riprendere con una ricerca agroamara e purgatoriale”) e In che razza di mondo con la sua desolata denuncia di una “gialla inciviltà”, la nostra, che “si sfalda pezzo a pezzo” (in il niente colore del vento).

“Senza lettori, senza eventi, senza / più favole, più niente / Vale!” (in Saluto) : come in un’antica ballata, il poeta saluta e si congeda attestando così sulla scena del secolo che nasce la condizione di chi vive oggi la scrittura come esperienza soggettivamente salvifica ed essenziale, come esperienza di amaro scri/vi/vere, nel magma di contraddizioni e rischi. Solo e in attesa (“con me stesso vado / nel sempre e nel mai”, sempre in Saluto), il poeta gioca carte insieme inutili e necessarie, nella convinzione che non c’è parola, non c’è verità che non sia quella, impastata di dubbi e lacerazioni, di un Io assalito e sommerso dal “sentimento cannibale” della storia, da tutti gli hakers della nostra malata quotidianità senza luce, contro cui nient’altro può essere contrapposto se non lo sdegno di un netto rifiuto. In un linguaggio che non si fa scrupolo di impastarsi e appesantirsi di scorie e detriti (di vissuto, di ideologia), la vita nella sua più corposa evidenza e consistenza, il visibile della vita delle forme, Finzi lo convoca evocandolo in uno stile innervato di umori e veleni, nel gioco ora sferzante ora ironico ed amabile, sempre sabianamente onesto, di un troubar clus fatto di negazioni e invettive, di furori e fughe, di assenze e ferite, di destini mancati e lancinanti nostalgie. “Non c’è, non c’è / che un’unica rovina, l’alta / maceria della vita mediocre”, dice in Grigio-fumo, il testo da cui emerge il sintagma del titolo, ed è una sorta di dichiarazione di poetica, che consegna allo scenario delle rovine, all’”alta maceria” (segnata anche fisicamente dallo sfregio dell’enjambement), il compito di farsi metafora del deserto di valori e sentimenti che l’oggi propone e al poeta, soldatino d’aria, l’orgoglio amaro di un’eroica ma sterile solitudine. Renitente (leopardianamente “al fato” dell’incultura, alla rozzezza, alla volgarità), il poeta pronuncia un credo, nonostante tutto, nelle risorse della scrittura poetica (lingua d’aria, certamente, ma quanto necessaria e vitale), come luogo da cui si attesta a difendere l’indifendibile, a sfidare i fantasmi di una notte del senso e dei sensi, con le sole armi di una ahimè forse anacronistica passione.

Ciò che resta alla fine, a lettura conclusa di un libro che segna una tappa decisiva non solo, come segnala Giovanni Raboni nel risvolto, della poesia di Finzi ma soprattutto nella nostra asfittica stagione letteraria, è proprio questo : l’immagine di un Io, singolare e al tempo stesso collettivo, niente affatto “inerte spettatore” ma anzi “scrittore-attore, erede della dialettica di Alfieri”, come aveva acutamente e profeticamente intuito Salvatore Quasimodo, e deciso “con gioia maledetta” (in Finale) a incarnare e dare cittadinanza nel proprio vocabolario poetico, ma più ancora nella propria vita intellettuale, la parola (demodée?) impegno, la parola coerenza, sotto il segno del “no”.


Diario del giorno prima

Noi non siamo vecchi ma solo / diversamente giovani”, dice proprio così uno degli ultimi versi dell’ultimo testo della sua ultima, estrema raccolta di Gilberto Finzi Diario del giorno prima, edito da Nomos nel 2012. “Diversamente giovani” oggi, all’indomani della sua morte, avvenuta a Milano in una gelida mattina di Natale del 2014, da aggiornare come “diversamente vivi”. Non è retorica: Gilberto, per chi lo ha conosciuto e apprezzato (amato?) in vita, continua a pronunciare attraverso la sua vasta e complessa opera una fede nella vita («Questa è la vita! L’ebete vita che c’innamora…», citando Boito da Finzi indagato e simbioticamente assimilato nei suoi studi sugli Scapigliati), nonostante tutto e comunque essa sia, col suo modo sarcastico di amarla, col suo modo di attraversare i casi della vita, della storia, senza illusioni ma non senza miti.

Perché un mito, sì, Finzi lo aveva e ce lo lascia in preziosa eredità: quello dell’intelligenza, acuta, ironica, determinata a sconfiggere ipocrisie. 

Un “angelo ironico con la spada sguainata”, lo si definirebbe con le parole con cui Walter Benjamin aveva definito Leopardi: chiuso nella sua corazza (“un’armatura in cui si rispecchia il mondo”). Gilberto con la sua intelligenza ha sempre riguardato tutto, presente e passato, con l’occhio dell’”uomo che giudica” e che “nel centro del futuro” vede solo “il senso oscuro”, una “profonda notte” (non la sua, quella esistenziale, beninteso, ma quella collettiva della perdita del senso), consegnandoci l’idea che ciò che conta sono “i piccoli spazi tra le cose”, la determinazione a giocare le proprie uniche risorse di infinito nel qui-e-ora (“Molto mi preme / questo attimo, lasciarmelo / vuol dire vivere”), col proprio “vulcano in cuore”, incuranti dello “scadimento” di valori, del “fango” che progressivamente minaccia. In questo, definendosi come seguace ma non epigono dell’antica Scapigliatura: nel senso che, scegliendo tra memoria e presenza, ci lascia un’immagine positiva, carica a dispetto di tutto, di futuro, con la fede nella scrittura, in una pratica che vuole incidere sul reale, con la critica, con la poesia che è sempre per lui una forma di critica, in una forma insomma che è “un insolito mix di metafisica, ricordo, fatti qualunque, sogni...il tutto condito da un linguaggio prosastico e ben poco lirico”. Una galleria di ricordi, di debolezze, di ammissioni di una decrepitezza fisica ma non intellettuale, riconosciuta e accettata come ineluttabile, ma con lo spirito del Leopardi di Amore e morte, “erta la fronte, armato / e renitente al fato”.

*Impossibile elaborare, ancorché in questa occasione, una mappa degli 

eventi critici e poetici di Gilberto Finzi. Anche solamente volendoci

riferire alle poesie, senza contare appunto i romanzi, gli interventi

sociali., pubblici, in particolare riferiti alla letteratura, ma ancora alla

politica nazionale e editoriale. (numerosissime riviste diverse, quotidiani,

convegni, traduzioni, ecc.), non sintetizzabili sono i suoi impegni,

programmatici e concreti. Scrisse tutta la vita senza sosta, tanto

da definirsi modestamente un “semplice lavoratore della parola”.

Per aiutare solo in parte il lettore elenchiamo qui di seguito

le principali e più recenti raccolte poetiche:

Tre formule di desiderio (1981), La Nuova Arca (1965), Morire di pace

(1977), Demone se vuoi (1994), Soldatino d’aria (2000), L’oscura verdità

del nero (1987), Diario del giorno prima (2013), Il tarlo della libertà

(2004), La ventura poetica (2002)..

Per la critica comunque unico e fondamentale è il suo Meridiano

Mondadori dedicato all’opera omnia di Salvatore Quasimodo.

Questo saggio riprende l’introduzione di Vincenzo Guarracino

all’antologia del 2002.