Nota: Angelo Gaccione, poeta e saggista, riferendosi ai nn.54 e 55 di “Testuale” (cfr.”TESTUALECRITICA,it) ha voluto riprendere il ricordo delle ultime poesie di Gilberto Finzi e la memoria di lui come amico. Ben volentieri pubblichiamo il discorso affettuoso e commosso sul poeta amico, maestro e cofondatore del periodico nel 1983 con Giuliano Gramigna e Gio Ferri.
Angelo
Gaccione
IL
SENTIMENTO DEL TEMPO
I
versi di Finzi riflettono sulla condizione della vecchiaia
Confesso che mi sono vergognato a lungo come un ladro. Credevo di averlo irrimediabilmente perso il libro di Gilberto Finzi, rincasando una sera del 16 agosto, dopo un incontro conviviale tenuto in casa di Anita Sanesi, che come sempre ci aveva affabilmente accolti. “Non mancare” mi aveva detto al telefono, “ci sarà anche Gilberto Finzi assieme ad altri amici”. Non ero mancato, e Gilberto aveva firmato per noi copie del suo ultimo prezioso libro. Ma i giorni seguenti non ne trovai traccia in casa fra carte, volumi, giornali e riviste accatastati. Potete immaginare la delusione e il senso di vergogna. Come osare telefonargli?
Poi questa mattina, 28 settembre, il miracolo! Il libro è ricomparso a distanza di un mese e 12 giorni, come posso verificare dalla dedica con data che Gilberto vi ha apposto (16/8 per l’appunto), e ha indicato simpaticamente, accanto a Milano, la dicitura: “da Anita”.
Questo hanno di buono le nostre povere case sommerse di carte e di libri, a volte nascondono, ma poi quando meno te l’aspetti restituiscono. Come in questo caso.
“Diario del giorno prima” (Nomos Edizioni pagg. 84) raccoglie in totale 61 testi poetici scritti, come l’autore stesso ci informa nella nota di apertura, tra l’agosto del 2011 e il gennaio 2012. In un arco di tempo, dunque, relativamente contratto. Tutte le poesie portano la data di stesura come a voler rimarcare nelle sue scansioni temporali e nel suo procedere, l’idea del diario. A volte capita che più di un testo prende vita nella stessa giornata, e quasi tutti si susseguono a distanza ravvicinata di un giorno o due, segno che la materia era stata così metabolizzata dal poeta che gli è bastata una scintilla per illuminare tutto il firmamento di pensieri, riflessioni, memorie, sensazioni, visioni, risentimenti, rabbia, che si portava dentro. Il tema di fondo è l’inesorabilità del tempo che passa, la vecchiaia, il divenire vecchi con tutto ciò che questo comporta.
Dunque nessuna stoica accettazione, nessuna saggezza da trasmettere, nessuna lectio vitae da consegnare ai posteri. Dimenticatevi Seneca, Cicerone, Epicuro e lo stesso Bobbio. In questo excursus oggettivo, analitico, condotto da un poeta ultra ottuagenario in maniera impietosa sul proprio status di vecchio, si rivela a tutti noi quella condizione umana precaria, marginale, fragile, separata, a cui saremo chi più chi meno condannati.
“…Ora
dimenticami, o mia sorte,
nessuno
riconosca l’invecchiato “io”,
lo
scadimento
dei muscoli, degli arti,
le
orbite
profonde degli occhi
luciferini,
le
petecchie
nella
pelle
infisse come chiodi,
la
passiva
resistenza
a
qualunque
umana vicenda,
il
niente il
nulla l’assoluto zero.
Nessuna illusione e nessuna mistificante filosofia della vecchiaia, magari edulcorata dall’abilità funambolica del facitore di versi, dalla sua seduttiva sapienza lessicale. Qui non si fa sconto a nessuno e tanto meno a se stessi. L’età monstre, la “vecchiaia puttana” come la chiama Consolo in un racconto, è lì a ghermire inesorabile, spesso carica del suo sadico risvolto.
“…In
bagno
no, prego, sono tanti i modi,
i
luoghi, i
destini, non questo
mi
tocchi e mi
sorprenda,
in
bagno, solo,
no!”
Nessuna accettazione, nessuna riconciliazione con la fine. L’impalcatura della fede a sorreggere non c’è, qui non è contemplata. L’uomo contemporaneo non può contare sull’esaltazione epica della “bella morte” della civiltà degli antichi; sulla coralità del lutto; sui Campi Elisi. Se Socrate poteva morire sereno circondato dall’affetto dei suoi estimatori; se Epicuro poteva andarsene confortato dalla sua visione, certo che la sua scuola e il suo giardino filosofico avrebbero continuato a prosperare, all’uomo contemporaneo e privo di fede tutto questo non è dato. La sua precaria condizione esistenziale è figlia del vuoto, cammina lungo il sentiero “dell’inutile e sconsolato vivere” tracciato da Leopardi. Può imprecare, è quello che gli resta.
Finzi, attraverso questo libro, conduce un severo bilancio non solo sul suo nuovo status: fisico, sociale, esistenziale (quello segnato dalla vecchiaia), ma dell’intero arco della sua vita negli aspetti salienti. Tornano allora i ricordi e gli scorci della sua Mantova; i visi colti in filigrana di alcuni momenti della giovinezza, gli amici che se ne sono andati, la città divenuta distratta, indifferente, ostile, il degrado morale che corrode la vita civile, il costume, gli ambienti culturali a cui pure è, da protagonista, appartenuto. I due testi che qui ripropongo, vi faranno assaporare tutto il retrogusto amaro che questo il libro contiene.
Vecchio
mostro
vedilo,
monstre
dell’età
(è
una specie
di ingiuria dell’ipocrisia)
brutto
e grosso
sei
invisibile
alle
nuove
scalcinate
generazioni,
tristi
senza
saperlo,
scure
in volto
ragazze seminude –
jeans
bastardi e
brevi top –
ragazzi
incolti
maleodoranti nei loro
brevi
calzoni,
nelle calotte craniche dove
dritti
o
annodati i capelli abbondano,
tutti
in
sospetto delle parole
che
non
arrivano,
non
contano più:
sono i segni
a
valicare i
nomi, i segni
delle
inventate
emozioni che vengono e vanno
come
bisbocce
fuori tempo
fatte
per vivere
da bruti
semplici
nel
sogno, violenti nella realtà.
Vecchio
invisibile, monstre dell’età
riconosci
te
stesso, verde e magro,
le
prove del
vivere, accanto e dopo,
il
cielo è
azzurro, le piogge lievi,
dietro
l’arcobaleno c’è
il
breve, il
niente, lo spazio perso.
[2-10-2011]
***
L’oro
che ti
serviva
lo
hai perso,
non sei stato pronto
a
vederti
integrato, sei stato
fermo
in fondo
alla fila
ad
attendere
non
hai mai
saputo cosa che
hai
lasciato che
colpa o merito
fossero
di
altri, tu preferivi
enigmatico,
persino
ambiguo
mostrarti, pur senza fingere,
con
poca
sostanza, ma con la voglia di sempre
di
dire “no”
– senza freno,
senza
limiti –
a
tutto deciso
pur di non decidere,
fermo
nel non
dire, non fare.
Si
muovevano
intanto gli altri,
i
tuoi nemici
godevano, qualche
avversario
cedeva per stanca emozione,
tutto
avveniva:
letteratura, politica,
eventi
personali
e pubblico nullismo,
tutto
si teneva,
e tu soffrendo
continuavi
continuavi
a
vivere per te,
con te, da te.
Così
ti
bollarono, i tuoi simili –
se
il non fare
non è delitto ma etica virtù –
come
“probo”
[3-10-2011]
Per gli aspetti anche “speculativi” del libro, i testi andrebbero riprodotti nella loro totalità. Il lettore abituato alle ardue e a volte “petrose” sperimentazioni poetiche di Finzi, si troverà davanti ad un libro spiazzante. Per me, al contrario, è stata una felice sorpresa. Intanto perché lo ritengo un libro necessario: una materia così insidiosa doveva essere maneggiata con cura per non scivolare nel già letto e sentito, e abbisognava di un poeta attrezzato. Finzi ha lavorato la sua materia magistralmente, e, pur tenendosi al di qua del lirismo, riesce ad emozionarci perché la parola ed il verso si fanno “caldi”, “umani”, e spesso distesi come una narrazione. Al lettore giovane questo libro potrà procurare disturbo e i versi sentirli emotivamente distanti; a chi giovane non lo è più apparirà come uno specchio inesorabile, da cui non è possibile distogliere lo sguardo.
* * *
(Appendice)
[5-8-2014]
Caro
Angelo,
non
è che
possiamo smarrire qualche altro mio libro? Scusa, ma solo un inizio
comico poteva scongiurare la caterva dei ringraziamenti, la massa dei
complimenti per la bellissima recensione al mio Diario.
Tanto più che un libro così, di editore esordiente o quasi, di note
critiche ne ha avute poche (5 o 6) anche se di spessore e
inventivecome quella di Zaccuri su “Avvenire”. Anche per questo
tengo cara la tua ampia nota, e le citazioni ivi
contenute. Non so che altro dirti: posso solo
autocitarmi. Con
tuttquel che accade nella schifosa vecchaia e
purtroppo nella
nostra miserevole politica userò un distico finale di una poesia
ironica cha amo: “Comprerò coi mocassini / Manitùdai pellerossa”.
Ad majora!
Un abbraccio, tuo
Gilberto
Finzi
Lettera-poesia
all’Amico Gaccione
Caro
Amico, ecco
i pochi versi
di
un poeta
vecchio e senza voce.
So
la tua
premura, e ti ringrazio
per
le cose che
ancora riesci
a
dire
nell’infelice mondo che ci circonda.
Sappi
che sono
con te, pronto
e
libero con la
mia gola logora:
“Odissea”
rispecchia una storia
che
mi riguarda,
e sento
di
doverti
parole sincere
dove
la poesia è
un lusso
che
non posso
più permettermi,
solo
come un
astro
che
non dà più
luce.
Ma
mi hai mosso
a
scriverti e a
ricordarti, e questo
è
un fatto che
mi riporta
a
climi antichi,
a Ulisse che ritorna
e
i Proci
trafigge, sperando
che
tutto
ritorni vero, e lui
giovane,
e i
versi un canto
di
vittoria.
[5
agosto 2014]