Gio Ferri

LETTERALE

Conversazioni con gli autori

Armando Bertollo
Carla Paolini
“Autografo 52”
Renzo Cresti
M.Carla Baroni

Giorgio Terrone


Armando Bertollo
“ Lo spettacolo inaugurale”(ANTEREM Ed., Verona 2014)


Lesa sul Lago Maggiore, 20 maggio 2015

Caro Bertollo, per il tuo “Spettacolo inaugurale” l’amico Giorgio Bonacini dice, fra l’altro, di un coreogramma fatto di tracce. Credo che la tua poesia in effetti si scopra sempre in una sequenza di tracce . Antiche, recenti, personali e storico-collettive. Ma la scrittura poetica in generale non è di per sé un segno (superficialmente offerto in segnali materiali) che invade il campo illimitato della mente? Superato costantemente il confine dell’inconscio? Verso l’origine, e la sconosciuta finalità, e del mistero propriamente occulto delle parole?

Da quel magma dinamico per la verità alcune parole si evidenziano (forse per utilità esclusivamente prammatica, prima che rivelatrice di poesia), fornendo una guida di ricezione dei segni, per l’appunto dinamici nell’ambito di galassie illeggibili secondo la comune misura grafico-orizzontale del discorso anche fisico-astronomico. Tanto è vero che noi nulla sappiamo della proposta universale, galattica, se non interpretando (plausibilmente?) certi segnali che vengono dall’infinito dopo tempi eterni in forma di suoni e di luci non usuali. Ecco allora una curva discendente che esprime esplicitandola una linea di galleggiamento . E una curva ascendente che trova una ipotesi di discorso nel verso oltre il silenzio… come “il vento soffia nel cielo”. Percorrendo questo tuo territorio segnato da molti passaggi lineari, come, fra l’altro si può ben presto osservare, diverse linee rette verticali si elevano da una vocale che sollecita il sentire . Ma le promessedi una terra si sviluppano sovente in precipitose frazionate curvature, d’incerta finalità (quali le promesse del destino). Dopo tanto navigare, all’arrivo della ventura segnica generale (ultima pagina della guida da te fornita agli innominati naviganti) si incrociano in forma di scale discendenti memorie del bianco cielo di Mallarme’ , del bianco suolo di Mandel’stan . Il bianco suono di Paz , il bianco color di Blanchot … e così via fino ai sorprendenti altri cultori di terre inviolate … l’in bianco nulla la dove dal nulla infinito (ma non indefinito) del deserto universale nascono inaspettate le oasi dello sconosciuto inconscio. Giusto incontrare fra gli altri (i molti altri che ti – che ci - sorreggono) Maurice Blanchot che – nominato Mallarmé - afferma con Heidegger e Sartre, la lacerazione esistenziale della vita votata alla morte. Ma cosa mai è più bianco della morte intesa come Nulla infinito ? La vita muore insistentemente e vegeta e rinasce nel campo da te percorso: nulla più bianco e virginale della morte, dell’essere nell’inconscio. Lì è data e cresce, se ben curata, la parola della poesia. Lo spettacolo, che dopo la morte sorta dalla lacerazione, si ammanta propriamente di quel suo biancore. La poesia percorre la bianca pagina (la bianca mente) e si fa bagliore illuminante pur senza finalità.

Questo mi suggerisce il tuo ‘geometrico’ tragitto. Ma altre epifanie nascono dalla lettura. O meglio dalla visione del testo.





Carla Paolini, “Installazioni” (Anterem Edizioni, Verona 2014)


Lesa sul Lago Maggiore, 23 maggio 2015
Cara Paolini,

con grande piacere e coinvolgimento sto rileggendo “ Installazioni ” (anche formalmente in ottima edizione) e rivedendo la mia breve postfazione.

Credo, dal mio punto di vista (altri riveleranno i ‘loro punti di vista’), d’aver evidenziato nella stessa postfazione il valore di queste progettate (mai casuali) installazioni, dell’ in-significante quale irragione della poesia, e in particolare di questa poesia. Ma un’altra installazione (come molte, forse tutte le altre) mi fa ripensare al valore generale di una scrittura, la tua, interiormente dinamica pur nella sua architettonica, spaziale, compostezza. Fortemente significativa e necessaria alla elevazione indichiarabile della misteriosa, perché poeticamente inspiegabile ma totalmente vivibile, “fisicità” dell’essere. Cito la poesia, o installazione, a pagina trentasei che subito attrae l’attenzione dal titolo, tanto citato e interrogato nella comprensione delle scritture e dell’arte in generale: L’inizio . Osservato con patema nella constatazione della vita, dell’essere, del nascere, brevemente vivere, e del finire. Così breve la ventura che infine solamente all’ inizio può darsi un valore plausibile, ancorché irrivelabile:


L’inizio

L’inizio era un guizzo

un eccesso adrenalinico che ci inscriveva

svolazzava intorno all’attenzione

prendeva a battere i criteri

quando sentendoci abbandonati nell’infinito

volavamo fuori dalla vita sena dissiparci

il patimento dell’assenza era credibile

ora l’incauta esaltazione percettiva

penzola a mo’ di sproposito

sull’avvilente patimento della presenza


Dice Rudy Rucker (“ La quarta dimensione ”, Adelphi ed., 1984, tr.it.): « È tutto qui? Fatiche, solitudine, malattie e la morte… È tutta qui la realtà? La vita può sembrare così caotica, così cupa e faticosa. Chi di noi non ha mai sognato una realtà superiore, un qualche livello trascendente pieno di pace e di senso? In effetti, questa realtà superiore esiste … E non è neanche tanto difficile da raggiungere. Come portone d’ingresso molti si sono serviti della quarta dimensione »......

Non voglio tediarti certamente (non è né il luogo né lo spazio) con altre citazioni fisico-matematiche-spaziali di Rucker: mi permetto solamente di rimandarti al volume citato, se e quando avrai voglia, o necessità, o tempo. È comunque una lettura affascinante.

È il fascino indescrivibile , ma vivibile, assorbito perennemente nella sua oscurità inconscia, indimostrabile, di quel: quando sentendoci “abbandonati nell’infinito” / volavamo fuori dalla vita sena dissiparci il patimento dell’assenza era credibile… Mentre ora, grazie alla poesia - l’essere e il fare senza dire, abbandonati nell’infinito - quella poesia che è come Nulla eppure installata e comunque misteriosamente, trascendentalmente e producente, ci conduce oltre l’incomprensibilità dell’essere e del morire. Seguendo nell’insieme l’ipotesi di Rucker, dobbiamo porci come Alice davanti allo specchio e attraversarlo, scoprendo il rovescio d’ogni cosa e d’ogni pensiero, conscio o inconscio che sia, fuori dalla vita senza dissiparci. Là dove l’ assenza del facilmente conoscibile, era pur credibile. Tuttavia tormentata dal patimento della presenza , al di qua dello specchio.

Ora, nella quarta dimensione, ci salva l’esaltazione percettiva che la parola poetica, muta poiché originata dal Nulla nel Nulla , ci dona nella presunzione di un mondo specchiato e specchiante - oltre lo specchio. Lontani dalla tormentosa presenza.





Autografo 52
Interlinea edizioni Pavia 2014 / Maria A.Grignani e Angelo Stella


Lesa sul Lago Maggiore, 25 maggio 2015

Gentilissimi Amici,

riceviamo con piacere AUTOGRAFO 52 dedicato, fra l’altro, agli atti delle giornate di Pavia per Roberto Sanesi. Congratulazioni per lo stile e la completezza dei testi. Si tratta di un pregevolissimo e affettuoso omaggio alla poesia e alle traduzione di Roberto Sanesi. Molti testi ci sono da leggere su di lui e già stiamo provvedendo a completare la nostra conoscenza del Poeta, amico personale di molti di noi, redattore e autore di TESTUALE, critica della poesia contemporanea. Il nostro periodico semestrale è stato fondato nel 1983 da Giuliano Gramigna, Gilberto Finzi, Gio Ferri ed è tuttora operante. Potete prendere atto dello stato dei lavori, e di quanto si è fatto nei quattro passati decenni, visitando in internet il sito

 www.testualecritica.it

Sanesi, come poeta, critico, traduttore ci ha subito, a suo tempo, apprezzati e sorretti con la sua eccezionale scrittura fin dalla fondazione, collaborando fra l’altro in redazione alla Consulenza critica e redazionale.

Di Sanesi troverete testi (saggi e “Quaderni”) integralmente pubblicati al sito su nominato. Anche in questo numero (il 56) in lavorazione leggerete la ripresa della recensione di un suo importante intervento sul rapporto “Luce e ombra” sul quale aveva lavorato a lungo in particolare in relazione alla poesia inglese.

Ma altre cose diremo in avvenire per non dimenticare uno dei maggiori scrittori e intellettuali del secondo ‘900.

Trovandosi all’estero per ragioni di lavoro il nostro condirettore Gio Ferri non poté, con grande disappunto, partecipare alle giornate di Pavia. Tuttavia (ma forse ci sfugge la citazione tenuto conto della mole di saggi e di note) non ci sarebbe dispiaciuto che il raffinato lavoro di Roberto Sanesi per “Testuale” fosse da qualche parte ricordato in questo vostro volume.

Questa breve missiva verrà pubblicata in “Testuale 56” cosicché gli affezionati lettori possano a loro volta riapprezzare il lavoro di Sanesi per la nostra rivista, oltre ovviamente alla notevolissima pubblicazione

“ Autografo 52”.

Cordialità vivissime.





Renzo Cresti
L’e(ste)tica della bellezza (ed. “Il Molo”, Sirene – Viareggio 2007)


Lesa sul Lago Maggiore, 25 maggio 2015

Carissimo Maestro Cresti,

ho letto con grande interesse il suo saggio sul rapporto fra i linguaggi delle arti, della letteratura e della musica.

Ovviamente sono d’accordo nel considerare il risultato della bellezza (non disgiunta dall’etica in quanto misura del vivere) comunque un gesto. Un gesto che in verità alla necessità del vivere, appunto, si manifesta in quella che potremo chiamare invece dis-misura . Perché infine secondo le diverse modalità dei tre linguaggi quella dis-misura disvela una uguale ventura vitalizzata nella armonia altra del sentimento insieme corporale e concettuale. Certamente una, anche inconscia, verità albale che spezza e capovolge il rapporto fra la logica e la banalità strumentale del quotidiano.

Dis-misurata bellezza (ed etica purissima come segno dei rapporti individuali e naturali) che trova nella musica, pur come “ linguaggio sui generis ”, la sintesi più misteriosa del fare come poiein . Poetico o artistico che sia. Comunque si potrebbe dire mistico in senso di indescrivibilmente nascosto mistero.

In realtà questa sorte di misticismo si esplica, paradossalmente, nel silenzio secondo, in particolare, l’esergo da lei citato al capitolo Abitare la creatività:

Scrivere, amici compositori, non consiste mai nel perfezionare il linguaggio, è l’approccio di quel punto in cui non si rivela niente, dove, in seno alla dissimulazione, parlare è l’ombra della parola, linguaggio al quale bisogna imporre il Silenzio , se si vuole, infine farsi intendere” (Blanchot, Mallarmé).

Il silenzio come denominatore comune delle arti. Per la musica penso al caso forse più esemplare di Cage. Per la pittura+musica a Scriabin. In quanto alla poesia la lettura solitaria offre appunto la possibilità di penetrarla e conoscerla mentalmente, riferendola anche, in silenzio, ad esperienze di visibilità e udibilità vissute contemporaneamente, o altrove. La poesia declamata è falsificata e sovente non comprensibile. Va insomma cercata, attraverso il tempo del silenzio, l’ombra mistica del segno nel senso già detto.

Dunque, lei conclude “è possibile mettere in rilievo i vari contatti… della musica con la poesia e le altre arti”.

Il capitolo Abitare la creatività è assai intrigante con quelle schede critiche dedicate a musicisti in attività che hanno colloquiato sovente con il segno, artistico o poetico. Personalmente ne conosco alcuni e con loro sono anxhe in amicizia, come Abate, Cesa, Coluccino, Gaslini… Per non nominare ovviamente i ‘classici’, i maestri quali Nono, Maderna, Boccadoro… Voglio nominare, come lei a fatto a conclusione del suo pregevole lavoro, un affettuoso fraterno amico con il quale talvolta abbiamo lavorato insieme e che tante cose mi ha insegnato in particolare sui generali e personali progressi nel campo delle nuove tecnologie.

E per finire, mi permetto di citare un altro caro amico con il quale ho lavorato componendo fra l’altro a quattro mani due operine musicalmente, se non poeticamente, assai raffinate. Franco Ballabeni vive la scoperta musicale e la parola poetica come rappresentazione e coglie, anche nel canto, le più misteriche e rarefatte e misteriose pulsioni creative.




Maria Carla Baroni
Mangrovia”, (Lieto Colle Ed., Faloppio Como, 2012)



Lesa sul Lago Maggiore, 25 maggio 2015

Cara Baroni,

mi scuso se con molto ritardo ti confermo il ricevimento della tua raccolta “Mangrovia”, che ho letto con l’attenzione che merita e molto piacere.

Viviamo tempi che vanno da malintese e usurate neoavanguardie, o di contro a versicoli spesi banalmente, privi di forme originali per stile personale e epocale. Anziché rivolgersi invece con purezza di pensiero e di verso, comunque al di là di una parola usurata carica di falsa finalità pseudo-sentimentale, se non utilitaristica.

Sorpresa felice è ora, con te, leggere, vivere momenti di storia collettiva e riportata con finezza alla propria esistenza, o meglio resistenza, quali per esempio (ma molte altre sarebbero le poesie da citare e commentare):


Sempre Io

Sono corpo che invecchia
pelle che avvizzisce
muscoli cadenti
giunture scricchiolanti
- sempre io -
la bimba del tempo di guerra
l’adolescente affamata d’amore
la donna d’amore e di lotta
l’anziana d’immutati ideali
permeata di sole
anelante a un vento d’infinito


Ci sono in pochi versi sorprendentemente calibrati (poeticamente e storicamente) i valori della sensibilità personalissima e quelli della dismisura collettiva. Il tramonto di un tempo eroico e insieme di una vita spesa e comunque sempre viva d’immutati ideali. Una poesia per ciascuno di noi, della (più o meno) comune generazione, che rispecchia insieme felicemente e drammaticamente la vicenda di un progetto diciamo pure eroico, e una attuale decadenza che ci offre una scarsa, mai elusa, sebbene illusa tuttavia, speranza di rinascita.

Raramente in una situazione vissuta sui sentimenti (di contro a tanti sentimentalismi) si può farci coinvolgere dalla stanchezza fisica di ognuno di noi, e per ognuno di noi dalla volontà di ideali anelanti a un vento d’infinito .

Le salate acque marine miracolosamente, quasi contro natura, vivificano gli intrecci indistricabili delle mangrovie perpetue di una regione, meglio di una ragione, sempre vitale ancorché per la profondità conscia, e subconscia, della poesia, inesplorabile.

Il tempo trascorre intrattenibile come un travolgente soffio di vento che agiti la vitalità (immobile naturalmente) delle mangrovie :


Non è potere umano

Non è potere umano
trattenere il vento
- la vita che muore –
Se non per poco.
………………………………..

Oltre

Oltre la fine dell’estate
la fine di un amore
la fine di un essere umano
la fine di una lotta persa
la vita continua
in attesa di ogni altra fine
e anche oltre


C’è tutta, per noi, oltre l’intrecciata (dantesca?) paurosa coltre di mangrovie , che tuttavia si affacciano, e ne traggono vitalità, al mare senza fine. Con quell’ Oltre, che intitola l’ultima poesia, la tua vitalità traccia un segno collettivo non tanto di illusa speranza, quanto di magica, sconosciuta e inconoscibile e poetica, certezza.






Giorgio Terrone, “L’ordine infranto” (lettera inedita). Genova 2015

In un vecchio documento a stampa, un Commentario pratico della censura ad uso della chiesa, la censura è richiamata nella sua triplice disposizione di scomunica, sospensione e interdetto. Viene anche definita come una “pena medicinale” nominalmente inflitta dall’autorità ecclesiastica al cristiano “delinquente e contumace”, e rivolta al soggetto “con tali determinazioni di parole da non potersi scambiare con altri”. È poi una censura pubblicamente dichiarata, in quanto “manifestata a voce in luogo pubblico”, ad esempio “in chiesa al tempo della messa”. È infine determinatamente dichiarata, cioè espressamente formulata come scomunica.

Con puntigliosa chiarezza viene dunque scomunicato chi “scientemente, senza la cura della Sede Apostolica” legge i libri degli apostati ed eretici”. Come sono scomunicati “tutti gli apostati della fede cristiana, tutti e singoli gli eretici di qualunque nome siano e a qualsiasi setta appartengano. I liberi pensatori, gli indifferentisti, gli spiritisti, i fattucchieri o maghi, le streghe e simili, gli increduli”. “Incorre la scomunica chi legge giornali e periodici in cui si propaga l’eresia. Sono scomunicati i sismatici, i cattolici liberali. Sono scomunicati i falsificatori, gli usurpatori. Sono scomunicati coloro che su istigazione del diavolo mettono per violenza le mani addosso ai chierici e ai monaci. Incorrono la scomunica quelli che si battono in duello. Sono scomunicati quelli che procurano l’aborto (dopo però che ne è seguito l’effetto” Ecc. ecc.

È un esempio di intransigente difesa dall’erratico caos del male: un sistema d’ordine eretto coi tanti altri nel nostro mondo: un mondo puntellato di segni, di codici come usciti da uno strano gioco interattivo.

Così quelle disposizioni puntigliose e feroci messe a tutela del bene e delle sue istituzioni trovano un’immediata corrispondenza nelle regole non meno rigide del bello estetico, un ordine attraversato da serie nate dal suo opposto speculare: il brutto nell’arte. “Una categoria che trova nel bello artistico la propria condizione di esistenza” osserva alla metà dell’ottocento il filosofo Karl Rosen-kranz, attento osservatore di questa dicotomia. “Se il bello poggia su rapporti generali di misura, unità, simmetria, armonia, la bruttezza comincia con l’assenza di forma che impedisce all’unità di concludersi e la dissolve nell’informe”. Ed è ancora l’ordine seriale delle regole a ergersi a difesa dal caos. Così: “La libertà dell’esistenza, della vita, dello spirito può pervertire il sublime in volgare, il piacevole in ripugnante, il bello in deforme”, e inversamente, “il meschino può trovare la sua misura nel grande, il debole nel potente, il vile nel maestoso, il goffo nel grazioso, il morto nel giocoso, l’orrendo nell’attraente”.

È una positività supportata da un ordine negativo intessuto di schemi, di elenchi, di una gelida annominatio che enumera: l’amorfia, l’asimmetria, la disarmonia, la scorrettezza, la deformazione. E così la volgarità , nelle varianti del meschino, debole, vile, banale, arbitrario, rozzo. Il Ripugnante, che si divide in goffo, morto e vuoto. L’orrendo, in insulso e nauseante. Il male, in criminoso e spettrale. Il diabolico, in demoniaco, stregonesco e satanico.

È la discesa agli inferi di una creatività che ha fuse in sé le due dimensioni: etica ed estetica (un amalgama, tuttavia, che cela il fatto del loro disgiungersi nella messa a fuoco dello sguardo).

E comunque impostato, lo sguardo estetico muta nel tempo in una sempre più crescente complicazione. Ciò vale per lo specifico tema del caos e delle possibili difese dalla sua minaccia. L’odierna creatività, sappiamo, ha modi operativi fitti e impalpabili, modi che paiono inseguire la complessità del reale in una rincorsa infinita, affannosa, in un misurarsi continuo, disorientato, come aperto alla comicità del raffronto. Una creatività che sembra partecipare di quel tratto comico-parodistico che da sempre trova nel brutto il suo modo espressivo.

Un’espressività che l’arte ha dunque controllato, sottraendola al disordine con la sua disciplina. Ecco allora, in quel brutto “domato”, la caricatura volgere il ripugnante in ridicolo, e l’umorismo prendersi cura della deformità grottesca: simile in questo (per usare la metafora di Rosenkranz) “a una Menade che volge il capo agli astri del cielo”, e simile ancora alla Merope di Jean Paul, “che spicca il volo e sale – ugualmente – in cielo. E tutto ciò ci porta alle umoristiche feste dei folli, nel medioevo, “che sovvertivano (come osserva ancora lo scrittore romantico) lo spirituale e il temporale, i ceti e i costumi, nella grande uguaglianza e libertà della gioia”.

Un tema ripreso nel secolo scorso dal critico Michail Bachtin che si addentra nello specifico discorso sull’infrazione delle regole: sull’osceno, che si oppone alla vieta ufficialità, “nel trionfo della temporanea liberazione dalla verità dominante e dal regime esistente, nell’abolizione provvisoria di tutti i rapporti gerarchici, dei privilegi, delle regole e dei tabù”. E sempre Bachtin, a proposito del carnevale, massima manifestazione di questa temperie, osserva: “Nel passato il carnevale era l’autentica festa del tempo, del divenire, degli avvicendamenti e del rinnovamento. Si opponeva ad ogni perpetuazione, ad ogni carattere definitivo e ad ogni fine. Volgeva il suo sguardo all’avvenire incompiuto”. Tutto questo nel dominio del riso. Un riso, come già osservato, che omologa la categoria del brutto, che la rende estetica. E questo ci ricorda ancora Rosenkranz, citando un mito antico: A Parmenisco, a cui “orribili prodigi” avevano tolto la facoltà di ridere, viene mostrato, in luogo del ritratto di Latona, madre di Apollo, un ciocco sformato. “Ciò suscitò in lui, che si era aspettato di vedere una bella statua, il riso più violento. La madre del bell’Apollo e un ciocco sembrano essere cose troppo eterogenee tra loro – osserva Rosenkranz, - eppure, soggiunge, quest’inconciliabilità era reale, e tale realtà –in quanto realtà impossibile – diventava ridicola”. “Il mito - si chiede ancora lo studioso – non è forse la storia della connessione tra il brutto che ci fa ammutolire e il comico che ci rende di nuovo gaí?”.

Una domanda retorica che ci riporta immediatamente alla trama dell’ordine e del caos. La con-dizione estetica odierna propone un’altra prospettiva, sfidando le certezze dell’idealista Rosenkranz. L’effigie di Latona e il ciocco di legno non sono dei materiali troppo eterogenei e non spingono più così tanto al riso, un riso che s’è diluito ormai nella prassi estetica. Sappiamo da tempo che l’opera d’arte può essere omologata al suo modello, oltre ogni iconicità. Abbiamo la facoltà di farlo, contro ogni precetto, contro ogni interdetto e sanzione. E l’artista lo fa muovendo dal luogo utopico/atopico della sua soggettività (un’insondabile soggettività!) verso quel chiuso ordine di regole di continuo infranto.



Caro Terrone,

come non essere d’accordo con te sulla libertà di pensiero e di creatività (artistica e no), sul rifiuto di interessate e impositive regole ideologiche sia religiose, sia civili (o meglio incivili…). Credo che, seppure da un punto di vista diverso, potrai trovare conferma da parte mia nell’articolo (qui pubblicato) sullo stato dei lavori della Biennale di Venezia. Certamente libertà non significa… idiozia programmata e pubblicizzata! Ogni artista, per esempio, può pensarla come vuole e come vuole individualmente operare, ma non può imporre alcuna regola che non sia quella della sua sincerità (la bellezza sta solamente nella sincerità). Un caro saluto. Gio Ferri.