In oltre trent’anni rare volte abbiamo proposto ai collaboratori un tema generale al quale tutti, più o meno, attenerci.

Questa volta, forse per coincidenza non calcolata, o forse perché, nel discorrere di poesia o musica o arte, è nell’aria una certa interpretazione confinaria fra materia e sensibilità misterica, corpo e mente, ci capita di pubblicare diverse considerazioni sulla sostanza (insostanziale) della parola poetica, della creatività artistica in generale. Il confine appare, irrintracciabile, in sostanza un luogo non nominabile – sebbene fatto di segni tuttavia significativi - tra la vita e la morte.

Una creatività spontanea, silente, quanto biologica. In cui tutto incomincia e tutto finisce.

Ombra e luce si contendono la presenza nell’essere. È capitato a noi come ad altri, per diverse vie di ricordarci di un passo iniziale della Genesi: Dio creò l’universo e le sue concrete contingenze e si accorse che, dimostrandosi sostanzialmente belle, richiedevano la luce per essere viste e godute. Liberò quindi la luce dalla profonda oscurità separandole e le cose dell’ombra galattica divennero per poco tempo recepibili. Ciò comporta che la luce e l’ombra in realtà, in principio erano unite indefinibilmente?

Vita e morte, parola e senso (in-sensato) sono di fatto indivisibili? Per questo la poesia e la sua comprensione prammatica, logica. e tuttavia inutile alla vita e alla morte: rivelano di fatto solamente (e non è poco poiché è il valore del Tutto) l’alba fuggevole, imprendibile dell’essere.

Varie sollecitazioni troverà il lettore in questo numero (56) di “Testuale”: alcune sono riprese da altre discussioni in proposito riferibili in particolare alle ricerche di Roberto Sanesi. Leggi dai numeri 8-1988, 47-48-2009, e dal precedente numero 55-2015.