Yves Bonnefoy

Poesia e fotografia


A cura di Antonio Prete le edizioni ObarraO dell’Associazione di Milano L’Assenza ha pubblicato recentemente (2015) un raro saggio forse non troppo conosciuto di Yves Bonnefoy dal titolo” Poesia e fotografia”. Bonnefoy per l’appunto, uno dei maggiori poeti francesi contemporanei (si vedano le precedenti pagine a lui dedicate da Nicola Contegreco), non ha mai trascurato il comune rapporto fra la poesia e le altre arti. Rapporto nascente, originato, non tanto dalla presa d’atto della realtà tangibile, quanto prodotto ‘problematico’ e infine ‘misterico’ della mente. Presa d’atto paradossalmente cosciente dell’in-conscio profondo e in-spiegabile. In cui la premessa in-sta per negazione della realtà banalmente quotidiana, ma pur anche, per interiorità, la più profonda e in-conoscibile dell’essere.

Il preambolo di Prete alla sua prefazione chiarisce subito la dismisura della poesia di Bonnefoy e, possiamo dire, della creazione poetica e artistica in generale:

«Fare esperienza della poesia, per Yves Bonnefoy, è accogliere nel linguaggio, nel suo ritmo, presenze che balzano dal tempo irreversibile e dall’oblio e prendono passo o voce o silenzio. È attraversare il paese della lingua fino alla soglia dove esso confina con il vuoto. Fino a quella linea dove l’invisibile manda i suoi lampi, l’enigma le sue rifrazioni. In questo cammino la prossimità alle cose è ascolto della loro sospesa e incantata resistenza al nulla. Una percezione si dispiega: l’appartenenza del vivente, di ogni forma vivente, all’orizzonte della finitudine. … Fare esperienza della poesia per Bonnefoy è tentare – con forte libertà inventiva, ma non gridata, anzi quasi confidenziale - di dare corpo e respiro a quel che l’astrazione o il “pensiero concettuale” hanno privato di singolarità, di senso corporeo e desiderio e pulsazione. Sottrarre il visibile ai sistemi di definizione e alle recinzioni di saperi sovrapposti, i quali rendono opaco quell’insondabile che abita le presenze e la loro epifania….».

Bonnefoy svela, in questo saggio le sue considerazioni in relazione alla grande, decisiva – fra ‘800 e ‘900 – invenzione della fotografia riferendosi all’arte rappresentativa, particolarmente per le arti della visione. Sottolinea la rivoluzione provocata in autori quali Baudelaire, Rimbaud, Renoir. In essi e in altri loro contemporanei nota soprattutto il dialogo fra la luce e l’oscurità, il silenzio, l’ origine della parola originata nella mente prima che scritta, da e verso il nulla. E la nascita dell’immagine al confine inscrivibile fra la luce e l’ombra. Questa misterica epifania trova, per Bonnefoy, il segno nascosto di ogni arte, compresa la poesia. In particolare vede il sorgere di questo paradossale colloquio fra la visibile scrittura e l’invisibile invenzione della mente in Mallamé, al quale dedica buona parte del suo saggio.

Perché Mallarmé? In “Igitur” scritto nel 1068 e pubblicato postumo nel 1925 (riprendiamo il commento di Prete),« il poeta traspone nei pensieri e nelle domande di un personaggio l’esperienza propria di una notte nella quale, l’assenza, il vuoto, il mai più, il nulla si sono affacciati senza la possibilità di essere per così dire verbalizzati, esorcizzati, con la parola e tanto meno simbolizzati. Nello spazio d’orrore di questa percezione, ecco la scoperta della vanità di ogni significazione e lo scorporarsi stesso delle apparenze, il vanificarsi delle chimere, il mostrarsi delle cose nel loro esserci, ma anche nel loro vuoto di senso»

Aggiunge a conclusione un’altra poesia di Baudelaire, altrettanto caro a Mallarmé ;… A una passante, Baudelaire si trova a passeggiare per Parigi com’era solito fare, percependo istintivamente che questo avanzare attraverso la città è la prova che deve superare, e anche questa volta Parigi corre il rischio di essere ridotta a una mera messa in scena del non essere, dato che la strada del primo verso è “assordante” e “urla” persino, un grido del rumore che – al pari del silenzio di tomba della città di Maupassant – fa di essa un deserto. Ma a questo punto Baudelaire si innalza, direttamente, esplicitamente, all’idea dell’incontro, dello scambio, addirittura e forse soprattutto, all’idea delle condizioni nelle quali questo evento si produce e del luogo dove risiede la sua verità. In questa circostanza l’altro è quanto è apparso – l’istante prima e come sempre – velato dai preconcetti dell’Io che sogna, sostituendo alle tre dimensioni del vissuto la superficie piatta dell’immagine, sostanzialmente estetica: pertanto la passante è “agile e nobile”, con una “gamba di statua”…. “Baudelaire ci dice che tale incontro è stato comunque uno scambio di sguardi, sufficiente a farlo “rinascere”, rifondare in lui la realtà, che non è altro, che il desiderio di essere al mondo. Uno sguardo, un lampo, E dopo il lampo forse di nuovo la notte, ma durante quell’istante - che non ha fine – tutti i fiumi, i cieli, e tutti gli esseri del mondo…. Nelle sue fotografie, Nadar aveva perfettamente ragione di ricercare, di rispettare gli sguardi. Essi bastavano a rievocare il possibile che rimane vivo in una realtà che sembra, morta. Bastavano a preservare l’invenzione del fotografico dalle sue deleterie virtualità.

Ciò vale, evidentemente, per la rivelazione, seppur muta, della scrittura poetica: sul confine di passaggio fra immagine mentalmente luminescente e la scrittura, seppure poetica.