Pasquale Fameli
Lo ‘Zeroglifico’ di Adriano Spatola, una sintesi della postmodernità

La complessa avventura della postmodernità ha visto avvicendarsi in poco più di un secolo modelli teorici ed epistemologici in conflitto, in un rapido alternarsi che non sempre permette di ragionare per distinzioni troppo nette. Tutto ciò ha trovato corrispondenze anche nell’insorgere di poetiche e stili differenti in aperta opposizione o, al contrario, coniugatisi in forme ibride e di non facile collocazione, superando gli specifici mediali1. I fenomeni di contaminazione tra linguaggio e arti visive variamente etichettati come poesia concreta, visiva, simbiotica o intermediale, a seconda delle varie modalità operative messe in atto, costituiscono degli esempi perfetti di questo “viaggio nella complessità” compiuto dalla cultura contemporanea2, dando forma alle idee che nella stessa epoca la filosofia o la psicanalisi elaborano e propongono. Gli Zeroglifici di Adriano Spatola3, realizzati a partire dal 1965, sembrano condensare e materializzare più di ogni altra ricerca verbovisiva idee e prospettive rintracciabili nella filosofia coeva di Gilles Deleuze, Jacques Derrida e Jean-Francois Lyotard. Non si può certo sostenere che le corrispondenze tra la poetica di Spatola e le riflessioni di quegli autori siano dovute a filiazioni o a influenze dirette, anche per via del fatto che quei filosofi francesi sono arrivati un attimo dopo la proposta del poeta emiliano, costituendosi perlopiù come sintonie tra operatori culturali di un medesimo periodo. Vige in questo caso quell’idea, ormai ampiamente condivisa, che artisti e poeti siano in grado di cogliere i sentori del loro tempo con rapidità e prontezza molto maggiori rispetto a filosofi o scienziati, e questo perché procedono per intuizione anziché per analisi. A ciò bisogna però aggiungere un dato alquanto significativo, e cioè che tutti questi autori si muovono a partire da espliciti confronti con il pensiero di Sigmund Freud, per cui è facile comprendere come e perché possano giungere a risultati analoghi. Il fatto che questo confronto si sviluppi poi su due piani ben distinti, quello della poetica e quello dell’estetica, è poco limitante o problematico: contano infatti, ai fini della nostra indagine, tutte le possibilità di correlazione tra le due sfere in grado di metterne in luce le affinità e le concordanze. Le connessioni esistenti tra le riflessioni del nostro autore e dei filosofi francesi sopra menzionati valgono anche in virtù del fatto che quei pensatori (Derrida e Lyotard in particolare) hanno dedicato ampia trattazione ai problemi dei rapporti scrittura-mondo e parola-mondo entro cui Spatola ha fervidamente operato. La natura ibrida della poesia concreta, in cui rientra in pieno lo zeroglifico spatoliano, a metà tra opera d’arte visiva ed entità testuale, tra percezione e semiosi, richiede del restoun approccio critico più complesso, che trova la sua collocazione più consona su “bilici” teorici4.

La frantumazione del codice linguistico operato da Spatola con il suo zeroglifico è una perfetta metafora epistemologica5 di quella crisi della Galassia Gutenberg teorizzata da Marshall McLuhan nel 1962 che vede il tramonto del libro in quanto tecnologia dominante, e alla quale consegue una radicale riformulazione della percezione. Già profetizzata da Filippo Tommaso Marinetti nel 1912, questa crisi ha subito trovato forma nella distruzione delle convenzioni visuali e concettuali della pagina a stampa in favore di una contaminazione tra codici linguistici e iconici. L’azzeramento semantico della poesia concreta spatoliana porta la “distruzione della sintassi” marinettiana alle sue estreme conseguenze, andando a intaccare finanche l’integrità dei grafemi che formano le parole; è questo il segno di un radicale rifiuto della codifica linguistica in favore di un fare poesia che torna pratica creativa nel suo senso etimologico (da greco poiéin, ossia “creare, inventare”). Il primo Zeroglifico, realizzato insieme a Carlo Cremaschi e a Claudio Parmiggiani ed esposto presso la Sala di Cultura di Modena nel 1965, è un’opera di portata ambientale, un agglomerato di blocchi cubici riportanti frammenti di lettere dell’alfabeto da smontare e rimontare liberamente. In questa occasione il fruitore è invitato esplicitamente a «inventare» (e «non a seguire») le regole di un gioco che, nella proposta di Spatola, deve innescare un processo di liberazione psichica. I possibili riferimenti alle teorie di Sigmund Freud e di Herbert Marcuse sono chiari: il gioco assunto come atto di liberazione psichica dalle repressive costrizioni della civiltà, tra cui figurano anche le norme e le convenzioni del linguaggio. Lo stesso Freud6 ha sostenuto la possibilità di una liberazione libidica attraverso i giochi di parole e, tra i meccanismi da lui descritti, vi è anche la fusione per sincrasi, la stessa alla base del termine “zeroglifico”. Sono riferibili invece alle teorie di Johan Huizinga7 la comprensione della funzione sociale del gioco e la relazione che il poeta emiliano stabilisce tra la dimensione ludica e quella rituale, descrivendo il suo Zeroglifico come «gioco che invade, con la sua sola presenza, la sfera del sacro, nella quale sacro è cerimonia, e la cerimonia è serie rituale di gesti»8. Alla base di questo processo liberatorio-energetico deve porsi un azzeramento, una sorta di “riduzione fenomenologica” che permetta di «immaginare una tabula rasa, un’assenza totale di modelli», di cose assolutamente «prive di attributi» e «rese magiche dall’azione di chi interviene»9. Il gioco in questione deve essere, ci dice Spatola, come quello del Paese di Sangoi formulato da Hans Zulliger10, la città immaginaria del pensiero infantile in cui vigono la magia, l’animismo e il totemismo. Per raggiungere questo paese fantastico, sottolinea il poeta, bisogna però essere in gruppo e accettare, una volta raggiuntolo, che esso assuma, per ciascun componente del gruppo, un aspetto diverso. Proprio «questa varietà nell’unità» diventa «la forza motrice di un recupero» su basi psicologiche «dell’esperienza sensibile dell’arte come creazione di oggetti carichi di energia vitale»11. Ciò che ci colpisce particolarmente è come Spatola, rielaborando le teorie di Alexander Dorner, autore che a sua volta non manca di un confronto con Freud12, affermi che questa energia stia «nella ripetizione», perché «la ripetizione assicura la continuità» nell’esperienza sensibile del tempo e dello spazio, un’affermazione che sembra anticipare di qualche anno Gilles Deleuze, che individua il fine più alto dell’arte proprio nel «porre in atto simultaneamente tutte [le] ripetizioni» agendo «per conto di una potenza interiore», convertendo così la copia in un simulacro13. Tanto nel pensiero del filosofo francese quanto nella poetica del nostro autore vi si rintraccia quindi la volontà di annullare il rinvio dell’arte a una realtà-modello e di riconoscerla come realtà autonoma e autosufficiente, per il tramite di ciò che entrambi chiamano “ripetizione”, un meccanismo che è presente in Spatola, sotto forma di figura retorica, almeno a partire dal 1961, come si può rilevare da vari versi contenuti in Le pietre e gli dei 14.

Nel 1966 l’operazione zeroglifica si concretizza nella prassi poetica trovando corpo unitario in una prima pubblicazione di piccole schede verbovisive presso l’editore bolognese Sampietro nella collana Il dissenso. L’operazione si colloca nell’ambito della poesia concreta, che secondo Spatola ha l’obiettivo di una «ristrutturazione sistematica dei metodi di creazione poetica» mediante la ricerca di «nuove forme di disponibilità eteronoma del fare poetico» e con «aperture semantiche a largo raggio»: tali aperture sono finalizzate «all’analisi delle possibilità “attive” della parola», considerata come «il centro vitale di forze in continua trasformazione»15. L’affermazione ci appare già proiettata verso una concezione “totale” di poesia, ma la sua idea della parola in quanto «centro vitale di forze in continua trasformazione» è chiaramente ancora legata alla problematica del recupero su basi psicologiche di quell’energia vitale che passa attraverso il gioco-rito-arte, presupposto sia della sua Poesia da montare, già pubblicata da Sampietro nel 1965, sia dei Puzzle-Poems, realizzati nello stesso anno con Claudio Parmiggiani16.

Lo Zeroglifico si rivela allora un esercizio ludico di decostruzione dei codici linguistici e quindi di liberazione psichica a uno stadio ancora più avanzato rispetto a quelle opere del 1965 in cui la parola rimaneva tuttavia riconoscibile, interpretabile, anche se isolata o decontestualizzata. La scrittura zeroglifica sembra marciare quasi al passo della scrittura onirica freudiana, una scrittura “geroglifica”, come la definisce appunto Freud, fatta di elementi pittografici, ideogrammatici e fonetici che restano però scarsamente o per nulla interpretabili17. Nella rilettura di Freud fatta da Jacques Derrida nel 1966 – una data talmente prossima a quella dello Zeroglifico da indurci a porla a suo stretto confronto – viene messo in luce quanto la scrittura psichica non si lasci leggere attraverso nessun codice pur operando mediante un gran numero di già elementi codificati nel corso di una storia individuale o collettiva. Chi sogna, inventa una propria grammatica ma, pur non rinunciando a utilizzare elementi codificati preesistenti, non se ne accontenta, e li piega alle proprie necessità idiomatiche18. Il limite di Freud secondo il filosofo francese sta nell’eccessiva preoccupazione per i presunti contenuti della scrittura psichica: se non esiste in essa un codice condivisibile, non vi può infatti essere traduzione né effettiva interpretazione. Essa deve funzionare allora soltanto come un sistema che, pur rinunciando alla significazione, libera un’energia attraverso cui produce il suo stesso senso19. Non appare troppo diversa la pratica della scrittura zeroglifica, in cui si assume un codice preesistente, quello alfabetico, se ne frammentano le singole istanze (i grafemi) e si ricombinano secondo una grammatica autonoma, del tutto arbitraria, in cui il fallimento della significazione garantisce la liberazione di sopite energie. È lo stesso Spatola a darcene conferma quando in merito alle tavole visuali di Franz Mon, agli Iconogrammi di Luigi Ferro, a certi poemi di Emilio Villa nonché agli Zeroglifici stessi scrive che, «a differenza dei poemi concreti del Gruppo Noigandres o di Gomringer, che comunicano la propria struttura, questi testi (collages o décollages) stabiliscono con il lettore un rapporto di tipo emozionale»: questi poemi, infatti, «sono percepibili istantaneamente ma non razionalmente» puntando tutto sulla «imprevedibilità del messaggio». Allontanandosi dalle convenzioni del linguaggio comune, «il poema-collage concreto inventa un codice di lettura personalizzato» e soprattutto «tende a ridare valore all’impulso soggettivo» senza tuttavia negare o rifiutare l’idea di una lingua universale, anzi: «esso collabora alla sua realizzazione proprio perché rivaluta l’immaginazione pura, sganciata da ogni riferimento del tessuto culturale e linguistico immediato»20. Più in generale l’operazione poetica di Spatola appare in sintonia con la prospettiva filosofica di Derrida per via del comune intento di proscrivere il logocentrismo che ha dominato l’occidente per secoli. Non sarà forse un caso se il “modello” di Un coup de dès jamais n’abolira le hasard (1897) di Stephan Mallarmé viene spesso richiamato da Jacques Derrida costituendo, in qualche modo, lo sfondo costante della sua pratica filosofica21. Ma la destrutturazione testuale di Spatola opera con un’accelerazione maggiore, a un livello molto più estremo del coup mallarmeano, distruggendo, negando ogni convenzione sintattica, lessicale, ma soprattutto grafemica.

Il termine “zeroglifico” nasce dal termine “geroglifico” mediante la sostituzione dell’iniziale, scelta che non si limita a funzionare come semplice mot-valise, ma allude all’azzeramento dello statuto simbolico della scrittura: i suoi elementi, frantumati e ricomposti, intendono offrirsi come “icone” – non a caso l’autore emiliano conierà successivamente anche il termine di Iconoscrittura per indicare altre composizioni di frammenti grafemici assimilabili agli Zeroglifici ma dotati di maggiore varietà cromatiche. Chiamando in causa Roland Barthes, potremmo affermare che in questo modo Spatola vada oltre “il grado zero della scrittura” annullando significati e significanti, che si presentano ora laceri o spezzettati. Sottrattasi all’ordine del simbolico, la scrittura zeroglifica non riesce tuttavia ad appartenere neppure all’ordine dell’iconico, giacché non intrattiene alcun rapporto di somiglianza con un proprio referente. Lo Zeroglifico si presenta quindi come sistema di segni autosufficienti, asemantici e aniconici, come risultato di un procedimento finalizzato a un volontario fallimento della semiosi prestandosi a una pura “figuralità”, intendendo quest’ultima come carattere generale del sensibile, e nell’accezione datane da Jean-François Lyotard alla soglia degli anni Settanta. La proposta estetica di Lyotard sulla crisi della parola e la rivalsa del figurale possono valere come teoria a supporto dei fenomeni poetico-visuali e logo-iconici più in generale, e non solo per il caso specifico di Spatola; la vicinanza cronologica tra la prassi dell’uno e la riflessione dell’altro è certo stretta e significativa, ma non al punto da giustificarne una connessione quasi esclusiva, che del resto cadrebbe di fronte alla fioritura, sia sul piano pratico sia su quello teorico, che le poetiche logo-iconiche conoscono già a partire dai primi anni Cinquanta (cui forse lo stesso Lyotard non era rimasto indifferente). Ciò che tuttavia ci induce ad accostare le proposte dei due autori con più dettaglio è il fatto che entrambi si muovono, pur se con mezzi e obiettivi differenti, entro una comune ottica fenomenologica, giunta all’uno dal confronto con il pensiero di Maurice Merleau-Ponty e all’altro dalle lezioni di Luciano Anceschi.

Alla ratio analitica e al logo-centrismo Lyotard oppone l’inarrestabile avanzata del figurale, del sensibile: proprio a partire dalle avanguardie artistiche ci si può rendere conto infatti che la ricerca dell’unità, dell’ordine e dell’armonia tipici della modernità collassino di fronte alla ridistribuzione delle energie psichiche e alla rivalutazione in positivo dell’Es che si verifica nella cultura anti-repressiva contemporanea, con conseguenze evidenti anche sul piano dell’arte22. La parola e la significazione appaiono dunque limitativi nei confronti della forma: Mallarmé rappresenta, per Lyotard forse ancor più che per Derrida, il pioniere di una rivoluzione decostruttiva della parola in poesia che ha messo fortemente in crisi il valore della significazione e dell’intero ordine del discorso: disarticolando il testo, il poeta francese avrebbe rivelato, secondo il filosofo, «un potere che lo eccede, il potere di essere “visto” e non solo letto-inteso» e quindi «il potere di figurare e non solo di significare»23. La poesia visuale di Spatola è manifestazione tra le più certe ed estreme di questa consapevolezza: in essa la figuralità domina in toto e distrugge le norme del codice linguistico allo stesso modo di come «il desiderio […] violenta l’ordine della parola»24. L’energia che, secondo il filosofo francese, deflagra il testo e la parola è, in tutto e per tutto, quella stessa energia che Adriano Spatola, già nel 1965, pone al centro della sua personale “decostruzione” poetica, sintetizzando nella prassi segnali e ragioni del definitivo tramonto della modernità.

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1 Cfr. in proposito R. Krauss, Reinventare il medium. Cinque saggi sull’arte di oggi, trad. it., Bruno Mondadori, Milano 2005 e Ead., L’arte nell’era postmediale. Marcel Broodthaers, ad esempio, trad. it., Postmedia, Milano 2005.

2 Cfr. A. De Toni, L. Comello, Viaggio nella complessità, Marsilio, Venezia 2007.

3 Per un’approfondita conoscenza dell’autore si vedano Omaggio a Spatola, «Il Verri», n. 4, 1991; P.L. Ferro (a cura di), Adriano Spatola poeta totale. Materiali critici e documenti, Costa & Nolan, Genova 1992; E. Gazzola, “Al miglior mugnaio”. Adriano Spatola e i poeti del Mulino di Bazzano, Diabasis, Reggio Emilia 2008; M. Spatola, Etica, rigore, anarchismes nella poetica di Adriano Spatola, «Testuale», n. 46, 2009, pp. 5-30; Totale Adriano Spatola, «Il Verri», n. 58, 2015. Sulla poetica dello zeroglifico in particolare si vedano invece R. Barilli, A proposito di “Zeroglifico”, «Il Verri», n. 2, 1976, pp. 167-170; V. Accame, La poesia concreta di Adriano Spatola, «Testuale», n. 12, 1991, pp. 26-29; Id., Gli zeroglifici di Spatola come modello di poesia concreta, «Il Verri», n. 4, 1991, pp. 101-110; S. Sproccati, “Zeroglifico”, ipotesi per un suprematismo grafematico (1986), in Id., Prose per l’arte odierna, Essegi, Ravenna 1989, pp. 97-103; Id., Zeroglifico: tra poesia concreta e iconoscrittura, «Testuale», n. 12, 1991, pp. 30-39.

4 È opportuno precisare infatti che la nostra analisi non intende compiere un’assimilazione tout court della poetica dello zeroglifico ai modelli filosofici di Deleuze, Derrida e Lyotard, dato che essa, a nostro avviso risponde, in linea generale, a quell’istituzione culturale che Renato Barilli ha definito “il modello della presenza”, quella linea di pensiero che pone in primo piano i valori dettati dalla coeva cultura materiale (McLuhan e Marcuse), rispetto al quale gli autori francesi sopramenzionati costituiscono il versante opposto, cioè “il modello dell’assenza”, più attenti ad aspetti ideali e morali. Cfr. R. Barilli, Tra presenza e assenza. Due ipotesi per l’età postmoderna (1974), Bompiani, Milano 1981.

5 Per la nozione di metafora epistemologica si rimanda a U. Eco, Opera aperta. Forma e indeterminazione nelle poetiche contemporanee (1962), Bompiani, Milano 1971, pp. 151-159.

6 Cfr. S. Freud, Il motto di spirito e la sua relazione con l’inconscio (1905), trad. it., BUR, Milano 2010, pp. 19-33.

7 Ci si riferisce ovviamente a J. Huizinga, Homo ludens (1938), trad. it., Einaudi, Torino 1973.

8 A. Spatola, Zeroglifico. Laboratorio / A, Galleria della Sala di Cultura, Modena 1965, [s.n.].

9 Riteniamo possibile adottare in questo caso l’espressione di “riduzione fenomenologica”, stabilendo così un diretto collegamento con la filosofia di Edmund Husserl (altro autore del modello presenzialista proposto da Barilli), per via della formazione universitaria di Spatola al seguito di Luciano Anceschi, con il quale si laureerà, per varie vicissitudini, solo negli anni Ottanta (si veda in proposito M. Spatola, cit., p. 5). La formazione estetologica di Spatola risulta infatti fondamentale anche per la sua attività creativa oltre che per quella critica e non si esclude che l’idea di una «tabula rasa» e di «un’assenza totale di modelli» non sia stata direttamente desunta dalle idee husserliane.

10 H. Zulliger, Gioco e fanciulli (1952), trad. it., Giunti e Barbera, Firenze 1960.

11 A. Spatola, cit., [s.n.].

12 A. Dorner, Il superamento dell’arte (1958), trad. it., Adelphi, Milano 1964, pp. 142-144.

13 G. Deleuze, Differenza e ripetizione (1968), trad. it., Raffaello Cortina, Milano 1997, p. 375.

14 Come rilevato da G. Moio, Due parole di presentazione per A. S., «Risvolti», n. 3, 1999, p. 3.

15 A. Spatola, Zeroglifico, Sampietro, Bologna 1966, [s.n.]. Dello stesso autore si vedano anche i successivi Zeroglifico, Geiger, Torino 1975; Z di Zeroglifico, Campanotto, Udine 1981; Recenti zeroglifici, Galleria Il Punto, Velletri 1985; A. Spatola, Campanotto, Udine 1986.

16 Si veda in proposito A. Spatola, Oggetti parasurreali e puzzle-poems, in «Marcatré», n. 26, 1966, p. 251. Utile in proposito anche la lettura di A. Spatola, Scrittura come collaborazione, in F. Albertazzi (a cura di), André Breton. Un uomo attento, Longo, Ravenna 1991, pp. 136-143.

17 S. Freud, L’interpretazione dei sogni, in Opere, vol. 3, Bollati Boringhieri, Torino, 1989, p. 257.

18 J. Derrida, La scrittura e la differenza (1967), trad. it., Einaudi, Torino 1990, p. 270.

19 Ivi, p. 275.

20 A. Spatola, Verso la poesia totale (1969), Paravia, Torino 1978, pp. 98-99.

21 Come rilevato da Gianni Vattimo nell’introduzione a J. Derrida, cit., p. X.

22 Come ha scritto Renato Barilli nel 1975, «la nostra è una società che può rivedere l’equilibrio delle energie psichiche tra i poli freudiani del piacere e della realtà» ridimensionando del tutto «il vedere rispetto al toccare-annusare-ascoltare» e «l’intelligere, il quantificare numericamente, rispetto all’affondare le mani nella pasta delle cose»: un radicale riscatto dell’estetico comprendente anche il «soddisfacimento pieno delle nostre esigenze sensuali, nonché sessuali-libidiche». R. Barilli, Il ’68 e le arti visive (1975) in Id., Informale Oggetto Comportamento. Volume secondo. La ricerca artistica negli anni ’70 (1979), Feltrinelli, Milano 2006, p. 101.

23 J.-F. Lyotard, Discorso, figura (1971), trad. it., Mimesis, Milano 2008, p. 95.

24 Ivi, p. 291.