Paola Mastrocola
“L’amore prima di noi”, Einaudi 2016, Torino
 
Milano, 9 giugno 2017
 
Cara Paola,  come mi capita di fare, nella mia modesta misura umana di lettore e nella più pretenziosa, seppur povera, ventura critica, vado prima di tutto in genere alla fine di un libro per coglierne in talune conclusioni il senso più profondo e forse definitivo. Sebbene nulla sia poi definitivo. Così banalmente mi comporto ora e la dismisura della tua scrittura in questo testo, uno dei più coinvolgenti fra quelli molti tuoi, mi rapisce decisamente al di là della stessa felicità narrativa (che è propria del tuo fare). Così mi soffermo sulla nota finale, rivelatrice (ma non ci sarebbe alcunché da rivelare, conoscendo la ricchezza della tua sensibilità e della tua sapienza poetica – forse un ossimoro, questo valutando la irrazionalità della poesia che è sapiente quando sia sapiente non tanto il conoscere quanto il vivere), mi soffermo per l’appunto sull’elenco – dal quale “ti lasci portare” – di coloro che ci danno, ci hanno suggerito, il senso più intimo del mito. Molti degli autori da te citati sono appunto narratori di storie mitiche (Omero naturalmente), altri, lo sappiamo, sono gli interpreti – filosofi, psicoanalisti, poeti – della natura, dell’origine, delle ragioni indefinibili del mito. Fra gli altri tu nomini Jung e per tutta la tua esplorazione narrativa (e diciamo pure filosofica) esalti anche se non esplicitamente, ma per profonda tua convinzione, le sue conclusioni che differiscono, come ormai tutti sanno, da quelle di Freud. Non c’è un inconscio che nasconda e riveli il mito (collettivo e individuale): il mito siamo noi stessi, nel mito viventi. Noi siamo il  mito, perché la vita stessa regge la propria… inutilità in quanto è mitica. E perché no anche mistica, cioè misteriosa, sconosciuta, non conoscibile, tuttavia presenza di una metamorfosi (come dici) originaria e inarrestabile.
 
La cosa straordinaria è, in te, un certo distacco dalla più classica delle misure narrative, l’epos: parola affidata al canto degli aedi. Io non sono del tutto coinvolto nei tuoi racconti, seppur mitici, ma piuttosto dalla passione d’amore attraverso la quale riveli il mito dell’essere. Tout court dell’ Essere per amare. Dell’Amare per Essere. Il tuo titolo è chiaro e non miticamente misterioso: “L’amore prima di noi”… e poi “L’amore è rapimento”… Il ratto d’Europa, di cui narri nel primo racconto, si consuma in un “mare infinito”, in un viaggio” indicibilmente brevissimo”. L’Amore è il tutto, ma è “un attimo, un volo...”. Se la vita è amore, è la vita: la vita è un attimo, è l’attimo della caduta di una stella: “A Europa sembrò d’essere a cavallo di una stella”.
 
Zeus generò, con Rea Demetra, Persefone. Ma Ade si prese Persefone. Persefone “sentì una morsa che la portava in alto, e di colpo si trovò avvinghiata al nulla…”.    E finì, volendolo, prigioniera dell’Oltretomba.
 
La felicità dell’amore di cui racconti, accogliendo il senso primo e ultimo del miti, ha tuttavia a che fare infine con il Nulla… Poiché l’amore, come dice un altro capitolo del tuo racconto, “è ombra”. Amore e morte?
 
Euridice non ha parole… “Il mio amore è diventato un nastro che non si svolge…”. “Ha deciso di restare nella notte…”. “E noi rimaniamo niente. Niente”.
 
Così finì anche Elena: “Una parte di lei si dissolse nel nulla”.
 
I capitoli che sottolineano i tuoi racconti dicono che “L’amore è fuga”.... “L’amore è sguardo”… “L’amore è eccesso”… “L’amore è divieto”… E riconoscono che “il piacere non è un istante: e ciò che proietta in avanti il tempo, diventando desiderio”.  Questa convinta previsione, seguendo la storia di Psiche, è come affermi quindi una speranza di liberazione dal nulla della morte. L’eccesso di vivere. Di scoprire la verità ultima, ma non descrivibile perché contorta, del “Labirinto”….
 
E così via. Non sfuggi alla rappresentazione (sei sempre stata coinvolta dalla scena, e ricordo, ci hai anche espressamente lavorato). Il dialogismo che presti ad Icaro rende vivo il mito. Rappresentare il Mito: lo abbiamo detto, rappresentare la vita. Come eterna presenza del Mito. Ed è qui la tua perspicacia, l’ho già notato: la vita che vince la nullità, e l’inutilità del vivere e delle sue iterazioni ingiustificate, per trovare una potente irragionevole ragione. La ragione illogica della poesia. Vale a dire del Nulla che è  Tutto. Dell’amore che è fuga dal quotidiano quando, com’è la poesia sia eccesso. E non banale consolazione. Questo tuo libro, queste tue narrazioni segnano un, forse non riconosciuto, turbamento. È la genesi dell’antica tragedia che segna il nascere e il morire, Il viaggiare per i mondi sconosciuti verso l’ignoto. “L’amore è viaggio”, come dichiara un altro capitolo. E se i mondi percorsi sono sconosciuti, allora “L’amore è segreto”. Ma, perciò quando si rivela “è dono”. 
 
Un tempo ho tradotto Ovidio da “Amores”: se ora lo cito non prenderlo per narcisistico esibizionismo. Consideralo un tratto del commento che mi viene modestamente spontaneo all’approccio verso il tuo mitico testo:
 
Amore strenuo. Stremato
tanto corpo all’uso
Atte membra all’ossuto 
corpo dona  Egli adusa lieve passo
oltre la ferrea
sbarra, egli fermo
forma il piede

 
“L’amore è sguardo”?
 
Così mi capitò ancora, anni fa, di tradurre da Christopher Marlow, “Ero e Leandro” (Il trionfo della verità”:
 
Egli a lei s’aggrappò,    l’abbracciò repentino;
Ero come sirena    scivolò e si tolse
Per metà ella s’offerse   l’altra metà si volse.
Vicina al letto si    levò dritta arsa in viso,
Così quel suo sembiante,    chi allor l’avesse fiso,
Ammirato avrebbe    come nube d’Oriente 
Lo squarcio d’un crepuscolo    che rompe l’Occidente
E per la stanza, questa    falsa aurora d’intorno,
Fece nascere, prima    che fosse nato il giorno.
Così Ero tradì    la rosea guancia invero,
E a Leandro apparve il    suo corpo nudo intero.

Ond’ebbe più piacere    il suo sguardo ammirato
Che non quello di Dite    al suo mucchio dorato.
L’arpa aurea d’Apollo    incominciò a cantare,
Al mare ‘sì dinnanzi,    suono alto a risuonare
Bene Espero attento    udì appena il segno
Che lieto preparò    il luminoso legno.
Egli poi corse innanzi    al lieto giorno in nuce,
A schernir la villana    Notte, nunzio di luce.
La notte sopraffatta    da quel dolore iroso
Precipitò all’inferno    con quel suo carro odioso.

 
Il tuo linguaggio narrativo, che infine è lo strumento della narrazione come conoscenza del mito si distingue da certi classici moderni in quanto, come potrebbe nel rispetto del tema (amore come rivelazione imprevedibile e verità irrinunciabile) non si disperde nella prassi narrativa e discorsiva del flusso di coscienza. La ricchezza delle tue narrazioni labirintiche è paradossalmente nella loro linearità. Tutto è fantasmatico e tutto è comprensibile, riconoscibile: questo è un antico pregio delle tue scritture e questo tuo testo esalta la tua visione della verità, propriamente nascosta.
 
Così, grazie alla tua complessa semplicità rinasce una mia segreta, e felice, e solare dismisura. Posso citare la presa di coscienza di Proust, tanto lineare, quanto appunto smisurata nella narrazione? “… Compariva François. E per mesi e mesi, in quella Balbec che avevo tanto sospirata perché l’immaginavo perennemente investita dalle tempeste e sperduta nelle brume, mai il tempo era stato così radioso… quando François veniva ad aprire le finestre. Potevo sempre attendermi, senza mai ricevere smentite, di trovare lo stesso lembo di sole ripiegato sullo spigolo del muro esterno, d’un colore immutabile…”. Come dici: “… Un soffio, un fiato senza voce che ci aiuta a superare il tempo”.