Eleonora Fiorani.

I mondi che siamo – Nel tempo delle ritornanze” (Lupetti, Milano2017)
Il punto di partenza e i mondi che siamo

Questo ultimo libro di Eleonora Fiorani, “I mondi che siamo – Nel tempo delle ritornanze” (Lupetti, Milano, 2017), è, come del resto gli altri suoi lavori saggistici, un ulteriore anello della sua ricerca multidisciplinare. Sin dalla sua “Nota d’Avvio”, dice: “Viviamo in un’epoca in cui si susseguono profonde metamorfosi e…contraddittorie trasformazioni del mondo che…credevamo di conoscere“. “Diversi sono perciò i modi di vivere il trapasso epocale della seconda modernità a una nuova epoca che non ha ancora trovato una definizione dopo quella di postmoderno di Lyotard…perché ogni nuova concezione della storia implica una visione del tempo”.

E aggiunge: “nell’intreccio dell’’adesso e del già stato’ – la definizione è di Didi-Huberman – oggetti, avvenimenti, modi d’essere, sensibilità estetiche si inabissano e scompaiono e poi ritornano”, cambiando “il loro uso, valore…statuto antropologico”, insieme al “nostro sguardo”.

Assumeremo quindi, dice l’Autrice, “una visione del tempo che mette in campo non solo…presente-passato e futuro, ma i molti e diversi tempi che convivono e anche si intrecciano o si oppongono in uno spazio dilatato all’intero globo”. “È…un aspetto che ci ha lasciato il Novecento nei modi in cui…ha posto come centrale la questione del tempo, della memoria e della storia, facendo emergere la sua complessità tra “presente attivo…passato reminiscente, sul tempo delle ritornanze…sulle fratture, sui processi inconsci che li accompagnano”. “Già Nietzsche, da cui è partita l’analisi della crisi dei valori nella cultura occidentale, con l’eterno ritorno aveva messo in discussione il tempo cronologico…ed era ritornato sulla circolarità del tempo e sulla ripetizione della cultura. E lo ha fatto ponendo anche il passaggio dall’ontologia all’estetica”. Con “Un nesso stretto” che “collega…Nietzsche e il disagio della civiltà di Freud. Tutto ciò ha posto implicitamente la necessità di un rinnovamento delle metodologie” di analisi “del testo visivo e della critica estetica” con i contributi di Bataille, di Leiris, di Einstein…e ora da Didi-Huberman…del potere delle immagini… intrecciando diversi ambiti disciplinari…antropologia, archeologia, estetica, filosofia perché “’in ogni oggetto storico tutti i tempi si incontrano, entrano in collisione, oppure si fondono plasticamente, si biforcano o si combinano gli uni agli altri’”. Talché “‘futuro passato’ è definizione e oggetto di analisi di Koselleck (1986) della presenza nel presente…del passato e del futuro”.

Questo fa “interrogare il corpo di carne e dei sensi e i suoi nessi con i territori e i luoghi in cui…si iscrive l’abitare”. Dunque “accanto ai concetti” il “potere delle forme e delle immagini di inabissarsi e poi riapparire sotto altra forma”, l’azione de l’”inconscio visivo”, genera “la più profonda o ampia comunione dei contemporanei, aprendo il campo al massimo di senso” attraverso “opere multimediali, di video arte, di narrazioni che intrecciano immagini, suoni, simboli, di nuovi e vecchi media…il linguaggio che tutto parla”.

L’apertura interdisciplinare di Eleonora Fiorani – anche per me fondativa – è fonte di una tensione espressiva e di ricerca di fare cultura, arte o poesia che non si rassegna a ruoli ancillari, ornamentali o parnassiani, e continua a cercare di essere strumento di ricostruzione di senso e pensiero forti, quanto più viviamo una fase epocale che li distrugge e tende a farli cadere nel nulla.

Fiorani ripropone sempre – con tutte le tappe del suo percorso di ricerca e anche con questa – la necessità di rielaborare in questa epoca di decadenza un modello aperto, proposizionale, metodologico e visionale-concettuale, affamato di conoscenza. È l’unica risposta antropologica e vitale che possiamo e dobbiamo cercare di dare, quanto più viviamo in un contesto che tende a chiuderci in esperienze opposte, di disgregazione e frammentazione socioculturale, arresa alla perdita di senso che, per me, è fondamento dell’esperienza del nulla.

Ma anche il nulla, come ogni termine, non ha un significato univoco, può avere diversi livelli e declinazioni, con sapori magici o terrificanti e tragici, con momenti che possono essere connessi a esperienze d’amore o di violenze. Esperienze di morte definitiva o di petit-mort – di attimi d’infinito (Platone) in cui possiamo annientarci o rinascere con moti di Araba Fenice. Dipende da noi, o dalla nostra capacità di creare spazi di libertà possibile, che evitino depressioni e deliri di onnipotenza, succube dipendenza e illusioni di totale autonomia. I libri di Eleonora si muovono su tale crinale, ed è per questo che trasmettono non solo ricchezza di informazione, ma anche gioia di conoscenza, che è radicata nella impostazione di ricerca dell’Autrice. Connotazione emozionale, per me particolarmente intensa, per consonanza e condivisione di impostazione teorica – a partire, nel mio caso, dal campo della poesia – e del nostro bisogno di dare corpo a quei nodi della nostra capacità di relazione non alienata col “reale”.


Sono nodi che intrecciano ed enucleano tre questioni:

Il soggetto e la sua identità
Il Tempo
La Realtà

Come già ci anticipa la Nota d’Avvio, ognuna di tali Cose è mobile, metamorfica e molteplice. Ognuna, senza le altre, cadrebbe nel nulla e tutte e tre diventano Cosa attraverso i linguaggi di cui siamo costituiti. Un nulla che riguarda, dunque,

il soggetto operatore (singolo o collettivo) e il dato/entità operato. E anche se quest’ultimo esiste in sé, per un operatore diventa reale, solo in quanto è capace di collocarlo in un processo relazionale e quindi di attribuirgli un senso. Senza di ciò l’oggetto rimane non-vita (per il soggetto) e lo stesso operatore precipita nel nulla di senso e di realtà rispetto alla cosa in-sé, che diventa reale, solo se parte del suo universo mentale.

È un processo che può avvenire solo attraverso i linguaggi di cui gli esseri umani dispongono. E sono proprio questi linguaggi – che i linguisti tendono a ridurre ad unum, cioè a quello algoritmico fatto di segni-parola, dimenticando tutti gli altri, dei sensi, altrettanto fondamentali per rendere reale in noi questa o quella cosa. Mente e linguaggi sono quindi funzioni di quel “cervello bagnato” di cui parla Rita Levi Montalcini, comprensivo di tutti i fasci nervosi e sensoriali, senza i quali il cervello e la mente rimarrebbero sconnessi e incapaci di dire/fare alcunché rispetto al reale.

Non a caso, il primo atto pubblico con cui ho avviato nel 2000 Milanocosa è stato il Convegno (con scrittori, poeti, artisti visivi, filosofi, giuristi, musicisti, psicoanalisti ecc) intitolato “Scritture/Realtà” (Atti, Milanocosa, Milano, 2003), nel corso del quale quanto sopra sintetizzato è stato analizzato da molteplici approcci e linguaggi, proprio in coerenza con tale punto di partenza.

Tutto questo intreccio, tra operatività soggettiva con tutti i linguaggi dei sensi e la produzione di gradi maggiori di conoscenza dinamica del reale del mondo contemporaneo, è struttura portante e materia costitutiva del libro di Eleonora Fiorani. Ma tale struttura teorica e metodologica non si ferma a enunciati e dotti richiami, fondati peraltro su una amplissima “bibliografia minima di riferimento”. Il libro ne fa cornice contenitrice di una sorta di ricco dossier, che offre una ricca panoramica delle proposte d’arte coinvolgenti più sensi e linguaggi. I richiami, riguardano opportunamente in primo luogo esperienze e proposte creative dell’arte visiva contemporanea. Dico opportunamente, in quanto si tratta di elaborazioni contrapposte all’esaltazione di un uso mercificato dell’immagine. Esempi di arte che rispondono a tale utilizzo con installazioni e molteplicità di sensi sollecitati. Ma i richiami del libro riguardano anche architettura, moda, design, con un approccio che è di passione poetica, se questa non è solo esercizio di righe spezzate sulla carta, ma arte tesa alla totalità, come intesa da G.B. Vico (il quale parlava di chimica poetica, filosofia poetica ecc.). Posso solo aggiungere, a tale proposito, che per quanto l’Autrice sappia offrirci dettagliate descrizioni che fanno vedere le opere richiamate anche da chi non le ha viste, il libro avrebbe sicuramente beneficiato di un corredo di immagini relative a tali opere, oggetti e contesti. Ma si sa che i limiti economici impongono i loro conti.


L’analisi della complessità del reale da parte di Fiorani è dunque poetica, perché si fa corpo e scandalo di tensione alla totalità, rispetto alla prassi prevalente contemporanea tendente alle separatezze, agli specialismi e alle frammentazioni in ogni ambito socioculturale. Fonte poi della difficoltà di ricostruire un senso.
Tensione alla totalità, che a partire dal corpo e dai suoi linguaggi e sensi, riguarda il mondo naturale e artificiale, gli oggetti e ogni costruzione umana. Tutto questo diventa materia delle identità singole e collettive, diventa somma di esperienze, storie e cultura che si traducono infine in concezioni del tempo e della realtà. Il mio intervento a quel convegno sopra ricordato aveva il titolo: “Quale tempo: tempo fermo, tempo reale e tempo mentale” (anche in Parte introduttiva di Ricerche e forme di Adiacenza, Milano 2001), al fine di entrare nell’intreccio tra identità soggettiva ed elaborazione dell’oggetto spazio-tempo, nel processo interminabile di conoscenza della realtà.

Il tempo mentale

Dunque, senza l’attenzione all’Uno il Tutto ci sfugge, perché la pluralità dell’Uno non è che una forma della pluralità del Tutto, a quest’ultimo intrecciati, di spazio-tempo. Entro la complessità delle varie galassie che costituiscono l’universo mentale dell’identità soggettiva, la categoria tempo è infatti percepita ed elaborata in modi completamente diversi.

C’è il tempofermo o ruotante – sempre presente e sempre passato – dell’Es. E c’è il tempo lineare dell’Io e del Super-Io. Ma è solo la possibilità di spazi pur precari – generati dall’amore o dalla creatività speciale di natura poetica – in cui le due modalità percettive si combinano in un tempo elicoide (come il DNA o le colonne del Bernini) che può dare forma all’esperienza del Tempo mentale, tempo di percezione della totalità e di uscita dalle chiusure frammentate in cui siamo spinti nella prassi quotidiana.


Conclusioni aperte

Sia il mio percorso di ricerca interdisciplinare intorno al concetto di Adiacenza, sia il percorso di Eleonora Fiorani hanno in comune il bisogno di ripensare il proprio fare culturale in relazione all’epoca storica che viviamo. Sono posizioni anomale rispetto alle tendenze prevalenti, in cui prevale una sorta di catatonìa sonnolenta e passiva (che non è solo della poesia), denunciata sin dalle formulazioni iniziali. Lo sviluppo delle argomentazioni successive, che abbiamo ripreso in alcuni nodi e passaggi essenziali, conduce a punti di arrivo che cercano anch’essi moti di risalita dallo stato delle cose. Sta in ciò il bisogno di ritorno, che non è solo forma di nostalgia, è il nostos che è alle origini del gesto chiamato poesia. La resistenza antropologica passa da tale gesto, che riguarda il bisogno di riprendere ab aeterno, quei fondamenti costitutivi dell’umano migliore, che sono memorie ancestrali e archetipi costruiti dal nostro interminabile cammino sul territorio più conosciuto e sulla Terra di tutti. Il ritorno che non va cancellato è questo, ci dice Fiorani, contro lo Zeitgeist vincente che totalizza ideologicamente il presente.

Ed è una decisiva lezione rivolta all’irrimediabile piano inclinato che quest’ultimo pare presentarci. Ogni termine o oggetto viene alla fine indagato in cerca di una apertura e moltiplicazione di sensi: così c’è un nichilismo inconseguente e acritico che presta fede alla parvenza di un soggetto che si è eclissato, e c’è un nichilismo forte, che ad esempio Roberto Bertoldo chiama ‘nullismo’, di chi ritiene che siano ancora possibili risalite e uscite, a prima vista inimmaginabili.

A volte si teorizza su arte o poesia-frammento. Il che non è una novità, anche l’opera più ampia, apparentemente conclusa e monumentale, è pur sempre un frammento rispetto al tutto. Anche il frammento non implica dunque un senso univoco: c’è il frammento insignificante di un coccio di bottiglia, e c’è il frammento di cristallo o di diamante che apre a mille sensi e riflessi.

Se il destino del frammento tende a cadere nell’abisso della perdita del senso, la creatività poetica degna di questo nome è la sua vendetta, utilizzandolo e rovesciandolo anzi, per farne il piede del Tutto. Unica possibilità di ricostruire un senso, non il Senso ma un senso, che non è mai dato una volta per tutte, da rifare con il letto ogni mattina. Gli oggetti non attivano da soli quella interazione complessa che chiamiamo esperienza. E la Cosa si accende se condivisa in relazioni con l’Altro, compreso l’altro-in-sé del livello inconscio, talché l’oggetto artistico e poetico rimane progetto ignoto anche per chi lo costruisce.


Adam Vaccaro