Fausta Squatriti
Olio santo”
New Press Edizioni – Cermenate (CO), 2017


Per chi conosce la precedente scrittura poetica di Fausta Squatriti, questo ultimo libro – con testi dal 2010 al 2016 e inserito nella Collana Il Cappellaio Matto, curata da Vincenzo Guarracino –, colpisce in primo luogo per la sua forma, con versi tendenzialmente più brevi, a fronte di quelli delle altre raccolte più lunghi e diluviali. Ma essendo la forma sostanza, il contenuto segue.

Contenuto, non nel senso dei significati e delle concatenazioni proposizionali, contenuto come soggetto che si fa parola, e che non può più parlare come prima, denunciando con ciò un cambiamento/peggioramento del contesto di cui il testo vuole dir(ci). Soggetto che con questa raccolta segna, se non un salto, un passaggio (come rileva anche la prefazione di Mariella De Santis) di valenza estetica ed etica, di sensi cercati ed espressi.

In precedenza prevaleva la pressione di un dire con una qualche funzione catartica o liberatoria, di espulsione di accumuli di insofferenze, rispetto all’andamento e allo stato delle cose. Il che implicava – e va sottolineato – una qualche fiducia in sbocchi di speranza.

Oggi, invece, quel soggetto è pervenuto alla necessità di concentrazione della propria azione espressiva e critica, al fine di fare un punto, necessariamente sintetizzato in questa breve nota di lettura. Ma un punto da cui poter ripartire, continuando a tenere e a raccogliere tutti i possibili stracci resistenti di speranza.

Ne sono testimonianza alcuni versi: “abbandona/ ragionevole speranza./ Nel cavo pugno/ rifugia smarrita terra/…/ e là si annida/ asciuga” (p.14). È il nucleo, il chiodo di senso, che prosegue (pp. 14-15) con un bellissimo lucido testo, e che riporto integralmente: “Speranza disturba malinconia/ Prudenza sviene/ nel poco della nicchia/ Fede agonizza in pieno giorno/ rimanda l’imbarco./ Carità ha le tasche vuote:/ cucire la bocca/ cresce smette la divisa/ lascia norme abusi punizioni silenzi./ E come riempire pancia e immaginazione?/ pazienza di letti freddi/ Ricusa la fiamma./ Ma quanto dura l’attesa?/ pomeriggio di festa in casa altrui./ Difficile/ indovinare i pensieri degli orfani/ e la distanza ingrassa/ raffina./ Aspettarsi qualche suicidio.”

Ecco, la forma ansima tra versi lunghi e brevi, senza pace, appesa a un’attesa che non riesce a vedere una fine. Mentre al di là dell’uscio, in case vicine e distanti, si fa festa, si ingrassa nell’indifferenza e nella impossibilità di pensare chi è spogliato di diritti e amore, ed è reso orfano della propria stessa identità. Per cui è difficile non immaginare l’epilogo tragico estremo contro la vita che resiste dentro se stessi.

Eppure, nel libro tale punto si fa ricerca di una forma di sintesi e di aperture – per quanto difficili e disperate – di maggiori squarci di dire attraverso la forma specifica del poièin, di dire cioè più che col dichiarato, attraverso lampi di canto materico. È una ricerca di Fausta che non è solo di questi versi. Ricordo qui, sia pure solo con un forzato breve cenno, la vasta preponderante produzione nel campo dell’arte visiva, costruita con supporti e spazi di intreccio tra materiali diversi, sollecitanti i diversi livelli della nostra disillusa frammentata identità. Altrettanto ricordo le prove dell’Autrice nella prosa, con romanzi che narrano vicende svolte in tale contesto disgregato, all’esterno quanto all’interno dei personaggi.

E mentre “Madre Morte comanda lei./ Falce spezzata per troppo lavoro”, “Sapienza si accuccia sul fondo/ di respirare ha schifo”, “Basterà salvare il salvabile?” (pp. 52-53).

È l’ultimo verso, ed è la domanda finale con cui si chiude – e si riapre! – il libro. Verso di occhi lucidi (di pianto e di coscienza) che cercano nonostante tutto le possibilità “Della pietà il seme” che “a fatica germina/ nel solco stretto.” (p.50). È attraverso questo “solco stretto” che il testo (ri)apre e resiste, insiste e rivendica la santità attesa da sempre di un orizzonte umano, per quanto (quasi) sul punto di essere ucciso.


Adam Vaccaro