Gio Ferri

Carme e carne e silenzio *
Da “La Poesia e la Carne”, a cura di Mario Fresa e Tiziano Salari, Ed.”La vita felice”, Milano 2009.


«...L’opera di Sainte Beuve, non è un’opera profonda. Il famoso metodo secondo Taine…, metodo consistente nel non separare l’uomo dall’opera… nel considerare tut’altro che indifferente, per giudicare l’autore di un libro… essere innanzitutto in grado di rispondere a domande totalmente estranee alla sua opera – come si comportava, ecc, - Questo metodo trascura qualcosa che basta frequentare un po’ più a fondo se stessi per sapere.. che un testo poetico è il prodotto di un altro io rispetto a quello che manifestiamo nelle nostre abitudini – le abitudini dell’autore – in società, nei nostri vizi… »

Marcel Proust, ‘Contre Sainte-Beuve’, 1908,

opera incompiuta.


Negli anni 80 del secolo scorso, indeboliti (ovviamente non sempre) gli stimoli delle Neoavanguardie e delle letterature politicamente impegnate si fece strada la necessità di cercare, di cogliere, le prime e ultime manifestazioni creative in particolare della poesia,

della parola poetica. Numerosi critici e autori aprirono in proposito una vasta discussione, testimonianza della quale ancor oggi, 2018, si trova in diverse riviste. Per far solo qualche nome: il Verri, Carte Segrete, Testuale, La Mosca. Steve, Anterem… Furono edite in relazione all’argomento anche alcune antologie, quale per esempio, per le edizioni “La vita felice” di Milano, “La poesia e la carne – tra il labirinto dei corpi e l’inizio della parola”

a cura dei poeti e critici Mario Fresa e Tiziano Salari.


Diversi i punti di vista degli autori dei saggi, ma uno, forse in particolare il rapporto poesia, realtà soggettiva, filosofia. L’invito di Fresa e Salari ci chiamava a discutere in forma saggistica, per l’appunto, sul tema la poesia e la carne con l’aspirazione di tornare a una poesia che sia specchio ed espressione della drammaticità della vita e domanda sul senso

dell’essere. A ribadire una presa di posizione piuttosto filosofica che poetica. Questo è il nocciolo della nostra questione. Ciò che tutti riconosciamo e viviamo entro la inspiegata e totalizzante, che per diverse propensioni abbiamo deciso nei secoli e decidiamo oggi di chiamare poesia. Quando in realtà significando poesia etimologicamente fatto non dovremmo far altro in umiltà prendere atto dei fatti e degli stessi ragionevolmente emozionarci (ossimoro). Quando siano tangibili materialisticamente come testi come segni, come tracce primigenie quanto inconsce. Considerando la poesia innanzitutto piacere anche quando sia specchio ed espressione della drammaticità della vita.


* * *

Per tornare alla poesia, come chiedono Fresa e Salari. Ma io non voglio assolutamente tornare, o andare verso alla poesia. La poesia a ben considerare

non ha storia. La poesia, quando… sia poesia. Non ha storia. E’ parola presente. Inalienabile non storicizzabile. Perché semplicemente è. Di fronte al pensiero filosofico, politico, critico e storico posso tornare, cambiare idea, andare oltre, riprendere un certo discorso, ritenerlo obsoleto o rivisitabile. Ma per la poesia e l’arte, e la musica vale sempre la spazialità caravaggesca, o di Mondrian. Di Bach e di Webern. Non ai può veder confluire comunque “la drammaticità della vita e la domanda sul senso dell’essere? Come auspicano i curatori della nostra antologia critica?. Sebbene per la verità la drammaticità attenga propriamente alla poesia, mentre la domanda sul senso attenga alla filosofia, in cui freddamente s’introduce la logica.

La parola poetica, quando poesia è, è assoluta, mentre la logica è discutibile.

* * *

I curatori dell’antologia critica citano giustamente la considerazione di Benn: “Tutto trova la sua forma a partire dal geroglifico che è il corpo: stile e conoscenza; tutto dà il corpo: morte e piacere“.

Sembra affermazione persino ovvia perciò indiscutibile. Anche fuor di poesia. Aggiungerei che nell’ultimo secolo in poesia e nelle arti di questo tutto chè è il corpo, della corporeità, della gestualità si è fatto persino, sovente, abuso.

Tuttavia: così è in me che sono nella poesia, evidentemente la poesia è il mio corpo, e il mio corpo è la poesia. Ciò, altrettanto ovviamente, quando si vogliano percorrere i territori della poesia.


Della vita, del piacere e della morte. E della conoscenza. Ma quale conoscenza? Non io credo la conoscenza della filosofia e della storia, che esprimono in conquiste intellettuali sempre vecchie e sempre nuove: annullantesi fino alla inconoscenza, al
nulla appunto. Tutto e il contrario di tutto. Nei millenni, tranne che per le religioni, le teologie che, io almeno nella mia piccola parte non posso considerare in quanto assolutisticamente ferme nell ossessiva e moralistica staticità di contro al dinamismo della vita. Quando, invece, la perdurante presenza della poesia, della parola poetica, del segno primigenio e in sé unico, è statica (Benn!). Ma nella sua staticità spaziale, senza confini, vive di perdurante e
 perturbante e minimale movimento. Di eternali trasformazioni, metamorfosi biologiche e fisiche, dall’infinitamente piccolo, alla infinitezza cosmologica. Perché il corpo è fra i corpi, è nella natura, è nell’universo. Se la poesia ha il suo primo commerciò con i sensi (lo ha detto Leopardi, perciò possiamo crederci), è vero che i sensi sono in contatto con l’universo e le sue cose (la cui dismisura non ha misura), ed è vero che i sensi sono tutt’uno con l’intelletto sensitivo, e non razionale, e con l’inintelliggibile, con la materia tangibile eppur muta e con i misteri vitali dell’incoscienza. Dell’inconscio degli psicanalisti, del limbo dei neurofisiologici. Il corpo è materia vivente, e dopo la singola morte, è materia

universale, così come della stessa sorte è la condizione incondizionabile della poesia, dell’arte, della musica. Credo che poesia, segno, traccia del passaggio dell’uomo nell’universo altro non siano che corpo. Perciò
forma. Perciò spazio in cui i corpi realmente, materialisticamente, sono oltre i capricci del tempo destinati al nulla del finito.

* * *


Perché mai oggi (ma di ciò contingentemente si poteva dire anche ieri) la poesia che è corpo, è lontana dalla vita, se è la vita stessa, e quale poesia? Di quale poesia o cosiddetta, vogliamo dire? La poesia che poesia non è, degli scribacchini? I sedicenti poeti scribacchini sono una antichissima genia: infestano il nostro tempo come hanno infestato tutte le piacevolezze (non i piaceri) letterarie dei secoli passati. E così non fosse, per tutti i paranoici e megalomani della scrittura non basterebbero le mille e più mille biblioteche fantasmatiche di Borges. E che c’entra con la poesia il bieco utilitarismo della editoria di consumo? Gli editori sono degli imprenditori, come tutti gli altri: fabbricano prodotti e badano al profitto: e quale profitto può garantire la poesia? Ma questa non è una novità: che i carmi non diano pane lo sappiamo da secoli. Il problema essenziale riguarda il riconoscimento del segno poetico, come quella cosa alla quale ho accennato. E qui, sinceramente, non so come muovermi al di fuori di una disposizione critica quando per critica si intenda compartecipe, seppur emozionale, corporale giudizio. E, di conseguenza, si intenda non tanto un giudizio definito e pacificatore, bensì il momento della crisi, dell’epifania, del gorgo entro il quale, di fronte alla parola poetica instabile, ambigua, il lettore precipita dal nulla mortale della storia al nulla prolifico della universalità biologica. In cui si può sentire la verità, senza poterla definire. Dal nulla al nulla, solo così si evita la retorica di una poesia come palingenesi. Compito, questo, eventualmente della volontà da trasformazione del mondo, pretesa illusoria, comunque limitata nel tempo della filosofia, della politica, delle ideologie o di altre scienze della presunzione di conoscenza empiristica e utilitaristica.

* * *


Non me ne vorrà l’amico Salari se riporto qui una sua sintetica convinzione personalmente comunicatami ma fortemente significativa rispetto agli intenti sottolineati dall’invito suo e di Fresa: “parliamo si problemi, e destini, non di testi”. E allora non parliamo di poesia, ma “la poesia e la carne” è il titolo di questa raccolta di saggi o discorsi. Di quali problemi e destini vogliamo discutere? Di Quelli dei poeti come categoria sindacale! Ovviamente scherzo, ma non troppo. E se parliamo invece come vogliamo di poesia, di quale poesia, ripeto, dobbiamo dire se non della poesia che possa ritenersi tale di per sé? Dico di per sé secondo il suo specifico, che è specifico di verità non definibile, se devo farne un problema filosofico, perciò razionale, mi rivolgerò alla fallibile provvisorietà della filosofia. Non alla poesia. Ma se mi rivolgo alla poesia come posso non riferirmi ai testi? Forse sono fuori strada considerato che un quarto di secolo fa fondai, ed è ancor viva, con Giuliano Gramigna r Gilberto Finzi, e il concorso di molti altri poeti e critici o semplicemente interessati lettori una rivista che si intitola “Testuale”! Non vorrei, ma è problema mio, dover rinnegare una intenzione di ricerca squisitamente critico-poetica. Ma quale ricerca posso portare avanti al di fuori dei testi? Il testo è il corpo della poesia, che è il corpo dell’uomo che fa inutilmente (s’intenda il termine di fronte all’utilitarismo egoistico della prassi). E come posso comprendere , al di là di una facile, sentimentale e nostalgica predisposizione fino a che punto mi trovo di fronte a una poesia? Se non dobbiamo parlare di testi e di analisi interdisciplinari (si badi bene, interdisciplinari e sempre provvisori) dei testi poetici, o presunti tali, non so sinceramente di che parlare. A questo proposito devo subito, a scanso di altri equivoci, riconoscere, ed è compito facile (ancora una volta ovvio) che qualunque poesia, se poesia è, è pur sempre pensante, opportunamente aggredibile anche dalla filosofia (perciò ho detto di interdisciplinarità). Non conosco invece – a mia ignoranza – un pensiero filosofico poetante (secondo alcune definizioni di Flavio ermini e dello stesso Salari). Quando il pensiero è filosofico-logico (e magari etico) non può, io credo, darsi come poesia. Rivolgersi alla prassi poetica filosofeggiando non aiuta certo la poesia, né la filosofia, a divenire quello che devono essere. Come senso e come nonsenso. Come materia corporea unica, plurima e inconfondibile – non confondibile con altra illusione del pensiero.

* * *

Altro problema, quindi quando ci si trovi di fronte a un testo presumibile come poetico, l'esercizio critico spetta a ogni lettore: perché mai mi si dovrebbe privare di tale esercizio? Ancora un volta è necessario intenderci. Di quale critica vogliamo discutere? Di quella stantia, ripetitiva, rivolta ai 'feticci critici', mai messi in discussione dal cosiddetto giornalismo culturale? Non è il caso di perdere tempo parlandone. Contini, Anceschi, Agosti, Gramigna e le loro idee, solo per fare qualche esempio non sono feticci. E non lo è nemmeno l'ipotesi di una poesia liquida (Gramigna), quando si voglia  rivolgersi a una integrante visione biologica e cosmologica della scrittura. Presumendo di dover considerare anche le scoperte delle neuroscienze e, ovviamente, della neopsicoanalisi. Credo che ciò possa soddisfare l'invito a 'trascendere la letteratura', anche se la poesia stessa sempre trascende, per sua natura, la comune prassi letteraria.

* * *

C’è da considerare un altro passo dell’invito che ha stimolato questa discussione : “… prendere atto della distanza che intercorre oggi tra la poesia e la vita, soprattutto quando la poesia sembri abbassarsi (sia nell’linguaggio che nel sentimento poetico) alla quotidianità media della vita corrente “. A mio avviso non si tratta della distanza tra la poesia di oggi e la vita: si tratta della distanza fra la poesia reale (come ho osato definirla seppure indirettamente) e la poesia presunta.
Che probabilmente poesia non è. Problema anche questo antichissimo. Tuttavia sottolineo sembra abbassarsi nel linguaggio e nel sentimento poetico: sembra o effettivamente si abbassa? Non ci interessa quella scrittura (non la chiamo più poesia) che si abbassa…; non si innalza a poesia. Punto. Se sembra cercherò di usare al meglio quegli strumenti critici, feticci. Di cui mi sono permesso di dire. Molti anni fa (ancora, e mi scuso, parlo di me, ma forse può essere di qualche utilità),lavorai a un progetto grafico-scritturale che si definiva, dal particolare al particolare parafrasando e contraddicendo il detto filosofico: ‘dal particolare all’assoluto’. Ecco: perché nel particolare la poesia non può cogliere l’interrogazione, la sostanza ontologica, l’essenza della vita? L’essenza di se stessa? Mi viene alla mente un poeta del quotidiano (dovrei dire di Orazio, ma non lo dico per non esagerare) di apparente semplicità, tuttavia invece di profonda, ultracontingente metafisica sostanza: Luciano Erba. Leggiamo, per esempio, un testo (se non leggo un testo non so di cosa discutere) da L’ipotesi circense del 1995:


Prima che mi scendesse sopra gli occhi
un sonno dei più pesanti che ricordi
ho visto, ho creduto di vedere
ma che cosa? Non so. Quello che resta
è un tratteggio animato, un poco elettrico
di colori sottili, luminosi
come se si volesse cancellare
(da cancellum, barriera, anzi steccato)
quello che ho visto e ho dimenticato.

Tralascio di soffermarmi, per quei sordi timorosi dei valori formali (i valori che per altro fanno della poesia quel che è essenzialmente diverso da altre scritture o letterature), sull’andante musicale degli endecasillabi dominanti e la sonorità della rima in particolare negli ultimi sei versi, che rivelano di questa pacata composizione la sorprendente, ultramondana (eppur tanto umana, più che umana) e abissale, epifania. Dalla quale propriamente si affaccia quel senso-essenza-dell’essere (giustamente invocato dai curatori) . Sottolineo in breve (ma assai di più si dovrebbe dire – lascio al lettore l’esercizio) l’interrogazione, che sembrerebbe semplicemente richiamare una misera, comune, visione del dormiveglia, e invece esprime il mistero della vita e della poesia stessa. “Non so” è la risposta all’interrogativo ontologico: “prima che mi scendesse sopra gli occhi / un sonno dei più pesanti che ricordi”. L’ultimo ricordo prima della morte. Il nulla. Eppure nel nulla – che si rivela il nulla stesso della poesia – si agita “un tratteggio animato, un poco elettrico”: il segno la traccia, appunto, della vita ignota o dimenticata, di una essenza, che, paradossalmente, proprio con la sua colorata luminosità abbaglia, nasconde, anzi cancella la memoria. Ma apre un’altra inderogabile, seppur non spiegabile, presenza. I “problemi e i destini s’innervano propriamente nel testo. Il testo diviene la cosa (che la Kristeva differenzia fondamentalmente dall’oggetto finito) che primigenia non esprime, bensì è l’irragione stessa della vita. Del corpo, della loro confluenza nella fluente, biologica, cosmologica dismisura di un linguaggio (non banalmente comunicativo), di un segno o traccia esistenziali ed essenziali. Fra la veglia e il sonno. Fra il giorno e la notte. Il luminoso e l’oscuro. L’esistenza di cui nulla so, o nulla ricordo, e la morte. Solo la poesia può dire, e non dire, tutto questo. Il resto (filosofia, storia, prassi) è disumana vanità. Della cui incomprensibiltà il poeta, il puro folle, il sacro fanciullo, infine poco si cura. Ad altro pretende di non pensare. Solamente lasciandosi andare fra parola e parola, fra segno e segno, all’abisso plurisensico, ambiguo e sensuale del prolifico silenzio – di contro al rumore frastornante del discorso pretenziosamente e illusoriamente convincente e troppo sovente menzognero.




NOTA *

Il 14 aprile 2011, h.21, presso la “Casa della Poesia di Milano, presenti tutti gli autori antologizzati si discussero in pubblico le tesi de “La poesia e la carne”. Riassumo il mio intervento i breve e in armonia con il saggio pubblicato e sopra sviluppato.

Ho espresso la convinzione che non fosse del tutto stimolante la richiesta, nell’invito, a partecipare alla ricerca per un ritorno ad una poesia quale “specchio ed espressione della drammaticità della vita e domanda del senso dell’essere”. Osservai che non si trattava di ritornare ad alcunché, bensì di andare avanti in quanto la poesia di sempre e di oggi, in quanto sia poesia (e questo in verità è un problema testuale), è sempre fatta (da poiesis) della materia immateriale della parola e percò dell’essere. Poiché la parola, il segno, la traccia, la voce lasciati dall’uomo nell’universo, in quanto ambigui, aperti e inutili (non contingentemente prammatici) altro non posso chiamarsi che poesia, o arte, o musica.. e così via, Forse anche misticismo, se il misticismo non fosse infine comunque espressione di una ideologia o di una teologia.

Di conseguenza – ferma la detta discutibilissima mia convinzione – mi opposi all’idea di una pretesa svalutazione della poesia e delle arti sorte dalle ricerche e sperimentazioni del ‘900. Anche questa ricerca è norma antica, anzi primigenia della poesia. Come la ricerca lo è anche per altre categorie del pensiero (principalmente la filosofia ma tuttavia con ragioni finalistiche). Ragioni che personalmente ritengo estranee alla poesia, che esprime in sé e per sé, e quindi per la totalità dell’essere, nella propria materialità segnica, nient’altro che l’essere medesimo. Senza inizio né fine. Ovviamente non nego il valore delle ricerche extrapetiche, che non fanno la poesia, o tutt’al più possono legittimamente accompagnarla in comunione, con fini, ripeto, comunque programmatici, seppure di utilità intellettuale

Di qui, tornando alla poesia, il suo valore materialistico, sensitivo o sensuale, rivolto al piacere della inutilità e del silenzio. La sua valenza essenzialmente carnale. Di ciò che è. Non pretendo di parafrasare il Dio che dice di sé “io sono colui che è”. Dirò come ho detto che nella poesia semplicemente io sono. Perciò conosco (a proposito della poesia come conoscenza) perché sono. Comunque perpetuamente in regime di crisi . Poiché non possedendo i mezzi per risolvere un qualsiasi dubbio – non ne sento il bisogno – sono solamente nella crisi connaturata alla poesia.

Mi piace fra i molti detti egregi saggi, l’esergo posto da Giorgio Bonacini al suo intervento. Egli cita Ungaretti: “Ecco come dal poeta è colta oggi la parola / … / come uno schianto di nervi e di ossa…”

E ciò rivela sella poesia una sola totalizzante natura: l’energia. Poesia come energia. Pura energia.