MONOGRAFIA N.40-41

Gio Ferri, Prefazione

Claudia Azzola, IL POEMA INCESSANTE


Europa poetica
Infanzia
Neve
Rutebeuf a Milano
Infiorescenze
Il diluvio universale
Noi che eravamo profeti
Misura
Una narrazione
Commiato
La storia, 2005
Rosa Luxemburg
Gineceo
La guerra
Kosovo 1999
Baghdad 2005
La battaglia di Sennacherib
La guerra, Baghdad
Novecento
Le donne sono stanche
L’uomo la donna la danza
Esmeralda
Voce, soltanto
La fortezza
Basiliche
La città – 1, 2
Esilii
Mosaici d’oro
Viaggio in treno
La bellezza
Vulnus
Il primo mattino
Mezza stagione
Storie di ragazze
La tua discendenza
Gli alberi
Linea d’ombra
Nascita
Stefania
La pineta
A me, parlavi?
Spaccami
Un mondo nostro
In terra
La repubblica ridicola
Tacete
Inquieta
L’artista
Casa di Franca
Vecchiaia
Parola volpe
Europa: in stato di migrante

Note

Postfazione

Notizia biobibliografica

Prefazione

L’esperienza poetica di Claudia Azzola, fin dai testi meno recenti (Viaggio sentimentale del 1994, Il colore della storia del 2002, È mia voce tra­mandare del 2004) ubbidisce alla costante di un percorso ininterrotto (dirà di “una malattia della voce” e ancora, per l’appunto, di un “poema incessante”) che va dall’intimismo memoriale del soggetto, all’incombenza della storia personale e collettiva, al vati­cinio oracolare che evoca della storia – e infine anche d’ogni singolo individuo – la crudeltà di un indefinibile destino.  Tuttavia rimangono, pur nel frastuono, nell’ecolalia dominante la voce e la sua capacità di tramandare.
          Questa raccolta, che ora leggiamo, esalta in un cosciente complessivo progetto propriamente il rapporto dialettico, fra partecipazione e rifiuto, della pre­senza personale (presenza vs/ il luogo comune critico dell’assenza), mai incerta o frustrata, nei confronti della storia, non solo contingente, ma altresì biologica e cosmologica. La continuità di questa predisposizione, mai decadente o vagamente lirica (secondo una moda che sta insipientemente cancellando la ricerca prolifica e rivoluzionaria di oltre un secolo di scrittura), è provata anche dalla necessità che Claudia Azzola ha sentito di richiamare qui alcuni testi della raccolta citata del 2002 dal titolo significativo – lo abbiamo visto – Il colore della storia. In parti­colare Le città-1:
“La città si accende di faccende / nel frastuono ascensionale, / rara aria nei respiri…”.
Mentre è la voce della storia (prima ancora di quella della natura) che sorregge la disperazione di un abbandono (“… occhi vuoti mani vuote…”):
“…Solo i terrapieni erbosi dei treni / danno sentore d’acque piene / di fossati ci­stercensi che fanno respirare / gli orti e, nei pressi, / campane barocche, bi­sbocce, bocce”. 
In cui fanno la storia anche, anzi proprio, i gesti semplici, le abitudini popolari. E l’osservazione incantata delle misure apparentemente limitate, in re­altà espansive:
“… Fare vita senza retorica, / di sponda del letto fino alla cucina / arri­vare al pomo del giardino / (il merlo e la merla lì vicini), cogliere le poche mele al tramonto / a mezza stagione, non affidarsi ancora agli storici”.
Il tondo è mio poiché il verso mi sembra determinante, in tutto il di­scorso poetico di Claudia Azzola, per una inequivocabile differenza fra la storia menzognera degli storici, e la storia incistata nella nostra corporeità. Ciò, ovviamente, può valere anche per il rapporto che intercorre fra la critica della poesia, e la poesia stessa: la voce  che si tramanda. Vale a dire l’energia autonoma (e infine metastorica) del testo. Sovviene in proposito un detto di Auerbach: “Se ammettiamo con il Vico, che ogni età ha la sua caratteristica unità, ogni testo deve fornire una visione parziale in base alla quale sia possibile una sintesi”.  Ciò vale per il testo e la Storia (vichianamente con la S maiuscola), ma può valere comun­que – se l’assunto è lecito – anche per il testo nel rapporto con la storia indivi­duale. Ora la poesia di Claudia Azzola rivela quasi sempre questo passaggio dalla sensibile esperienza contingente e memoriale (si leggano certe insistenze sui sen­timenti o turbamenti dell’infanzia) alla visione totalizzante che passa dalla presa di coscienza visionaria del proprio destino, a quella cosmologica del destino umano tout court. Gli esempi possono essere innumerevoli, ma ne riporto almeno uno fra quelli più significativi. La poesia s’intitola Infanzia:
Nel punto in cui s’interrompeva / il sonno nella notte infantile / cedeva il soffitto-pavimento: / ‘… è arrivato un bastimento carico di…?’ / un soprassalto, la piccola morte. / Creavamo, per istinto, il distacco. / Istante di una conversione. / Per cicli e romanzi e chansons de geste / si imparava per emulazione. / Il de­mone veniva là iniziando / come il bruco buio nella tela / Ci eravamo già allora accorti / dell’inconsistenza delle generazioni.”
Anche in quest’ultima citazione il tondo è mio. Ma s’annida creativa­mente nello scetticismo, nella coscienza dell’annichilimento della prassi e della sua tragedia (si leggano le poesie al centro della raccolta sui drammi della guerra), ancora una volta quel potente richiamo alla voce e ai suoi linguaggi plurali, rina­scenti paradossalmente persino dalle povertà individuali, dalle fughe incoscienti della giovinezza, dalle “vite sterili” e dagli “amori a-passionali”. Quei “voli bassi” che, respinti sovente i valori primigeni delle lingue matrie,
“asciugate sorgenti all’abbeveraggio / diventano piccole le lingue”.
Ma c’è pur sempre – e così s’innerva il riscatto – l’Europa poetica - ti­tolo di una delle poesie più robuste:
;“… e c’è la presenza sempre degli avi, / la foresta prima della defore­stazione / della rinominazione dei luoghi. // Amplia tu il linguaggio, e dentro ci sia / tutto ciò che non smette di parlare, / il nostro principio, questa luce, il volo…”.
“Tutto ciò che non smette di parlare”: la voce. Voce, soltanto:
“Cos’è la vita ora che si allontanano / i tuoi occhi come strada di notte, / spenta la vampa, cos’è vita giusta // il posto giusto // se la natura quando l’ho cercata / fu natura snaturata nient’altro / che forre incompiute ignote agli dei: / dove era certo dominio d’amore  / tua vertigine mio bacio aperto, / ora è tutto corpo sot­tile, voce, / come fu detto di Bernardo / di Clairvaux: ‘È una voce, solo’. // Con il peso dolce della scrittura. / È farsi, vita, giusto apprendistato / e piacere e au­stera misura”.
Inno infine esaltante in dono alla poesia, alla scrittura, all’eco silente della voce. In un testo dal quale ho già citato (Mezza stagione) l’austera misura ritrova il suo potere:
“Anche in povertà di mezzi / c’è da smuovere un mondo”.
Ma non è sempre naturale, semplice e facile il compito della voce. C’è la storia che vive, ma c’è anche la storia che distrugge. E una delle ultime poesie della raccolta (parola-volpe) è esemplare di questa contraddizione dialettica di cui si è già detto:
“Addomesticando empito / della parola, volpe dalla coda rossa / che per forre e leggende s’aggira, / liberando tenebrosi intestini, / appassionata scrittura s’incurva, / quando la crosta del testo ha smossa. / Ma le parole s’allungano / si avvelenano senza che sappiamo, / snodando membra, incidendo segni / in movenza, lacerando in terra le vene”.
Credo che siamo più che mai in presenza di quella sintesi di cui diceva Auerbach: sia a livello d’ascolto della visione del mondo dell’autrice, sia, coe­rentemente, in relazione alle misure di questo testo che più di altri offre l’idea di un progetto di poetica e di modalità formali, che, ovviamente, di una poetica fanno la poesia.
In parola-volpe la dominante è gerundica, nell’incipit e in altre quattro occasioni, con insistenti derivate allitterazioni o pseudoallitterazioni: em­pito, leggende, intestini, incurva, quando, movenze… E non mancano altri aspri parallelismi fonici del tipo: forre, tenebroso, crosta, membra, terra… Ma il feno­meno linguistico ed espressivo domina tutta la raccolta che, su misure sovente ancora allitteranti, dimostra l’insistenza elegiaca delle diffuse ‘oscure’ forme quali (non annoi l’elenco, ma vale per alcune utili sottolineature assolutamente caratteristiche): ungri, guerriera, migrante, bruco buio, ombroso recesso, scura sera, alberi scuri, spire, magma di sangue, ombra, sfibrato sangue, desiderio interrato, fosse, sporche rogge, voci e croci, ultimo lavacro, perturbante specchio, membra contorte, membra informi, grumi, sole nero, pelle scorticata… e così via.
Dai gerundi di parola-volpe deriva l’idea di un antefatto extrate­stuale presunto – sebbene trattandosi di una ‘dichiarazione’, la giustificazione possa trovarsi nel discorso che s’esprime in tutta la raccolta.  Le altre diffuse evenienze linguistiche richiamano una parabola in qualche modo gotica (in un verso si dirà di gotiche foreste), sorretta dalla citazione di antiche leggende di natura sia classi­cistica, sia romantica. Si drammatizza così la condizione impacificata, nella dia­lettica di cui si è detto, del soggetto visionario ora  confermato, ora tradito dalla crudeltà della storia (collettiva, ma pur anche individuale).
Ma di tanto in tanto la voce (chiave d’apertura, segno dell’intera vicenda poetica di Claudia Azzola) si spande sui resti della tragedia umana per esaltare la speranza, l’illusione, di una parola quale utopia di un riscatto (in casa di Franca):
“dove luminosità si effonde / dall’alba, avocando a sé le forme / le pre­senze magnifiche, / ripulita dai voli di uccelli nerazzurri / che avrebbero troppo di becchi / di artigli, / e una sonorità intensa senti / prima che apri le persiane, / vi­brante anche quando sei via / dalla casa / che della terra di Cap Ferrat / si nutre ed è beata / e mai mai si priverebbe della luce / sulle rupi / e del blu che bevi d’un fiato, / anche quando non ci sei nella casa”.
La dinamica dei percorsi, i viaggi reali e fantasmatici, entro le storie e le geografie – le scritture e le voci – fanno dell’Europa come amore (talvolta tradito) lo spazio universale, meglio, degli universi infiniti dell’anima. Europa fu rapita e rapisce, allevia le stanchezze del viaggio, da Nord a Sud espande le proprie radici, avvinghia le passioni corporali; da Ovest a Est recupera le profondità solari (ossimoro coinvolgente) delle acque vergini. Dei mari dei Vichinghi e degli Odissei, delle fonti degli Inferi, fino all’insperato e disperante ritorno ad Itaca, a Zante, in una migrazione  inarrestata, circolare, che naviga spiegando le vele della parola, al soffio dei venti primitivi d’Oriente, arie avvolgenti, presenze eternali della Grecia, terra d’ombre: patria prima, patria delle patrie, poiché per il migrante, dentro ogni sua voce, interiormente c’è una patria. Così l’Europa, madre delle linguead ogni svolta offre – ascoltando il silente canto dei morti – le luci del novello mattino del mondo: dove luminosità si effonde / dall’alba, evocando a sé le forme…

 

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Il poema incessante

 

Europa poetica  (1)

O Europa madre dei filosofi delle filosofe
madre per le lingue che conosco
nei suoni indoeuropei
e negli ungri suoni e slavi,
paterna per quelle che parlo
al meglio delle mie forze.
Quando una di noi prende il volo
sveltamente deviata su lune
più basse o raso-suolo, su vite
sterili, amori a-passionali
asciugate sorgenti all’abbeveraggio,
diventano piccole le lingue.

Tesoro, sei il mio tesoro,
non ti sei lasciata ammazzare
nella tua bellezza, visionaria,
guerriera, migrante dalla ricca chioma.
Tutta la tua passione vola,
e c’è la presenza sempre degli avi,
la foresta prima della deforestazione
della rinominazione1 dei luoghi. 

Amplia tu il linguaggio, e dentro ci sia
tutto ciò che non smette di parlare,
il nostro principio, questa luce, il volo…2.

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Infanzia

Nel punto in cui s’interrompeva
il sonno nella notte infantile
cedeva il soffitto-pavimento;
“…è arrivato un  bastimento…”
un soprassalto, la piccola morte.
Creavamo, per istinto, il distacco.
Istante di una conversione.
Per cicli e romanzi e chansons de geste
si imparava per emulazione.
Il demone veniva là iniziando
come il bruco buio nella tela
Ci eravamo già allora avveduti
dell’inconsistenza delle generazioni3.

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Neve

Fu in quegli inverni nella casa
tra tetti e stormi, fu neve,
la percepivo in me prima di vederla,
per il silenzio bianco che si crea,
rallentamento come di uno che si svena.
Poi, la visione dal basso, al finestrino.
La neve dei nonni che ci fa profeti
quando niente intorno è sordido.
Neve del papà che passava nell’androne:
era il passo del babbo che deve
andare via e gli altri ancora
stanno al dormire e non perire.
La pioggia della mamma passa
per il tintinnio di un bicchiere,
ha a che fare con la pancia,
ha a che fare con le ossa.
Neve è tutto un “vieni”, mai un “vai via”,
“parti”, no, vieni accanto a me,
come un genitore vero,
come il genitore che c’è sempre stato,
nel corridoio, nella stanza al buio,
al momento di svestirsi,
porgendo orecchio alle belle voci,
alle voci belle e convincenti;
tutto è calmo, tutto è nostro,
poi il silenzio bianco del papà ci aiuta.

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Rutebeuf a Milano

Quando la parola è il verme sconosciuto
è rimesso a un povero deforme,
Rutebeuf piuttosto malmesso,
percepire ai margini dei campetti
il palpito di civette gonfie di ritorni.

La poesia si tiene marginale
ma è lucida, di spietate forze.
Mi porto il pondo nelle borse
qui tra aiuole grigie delle mie zone,
di una Milano in definizione.

Il tutto appare saggio e silente,
c’è una poetica in atto,
le rotaie sono cariche di neve,
passa il tram come nulla fosse.

  L’amour est morte.
 Ce sont amis que vent emporte,
  Et il ventait devant ma porte,
En hiver blanc

Ciò che va tra un passaggio del 29
e il 30 è tema scottante del poema4.

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Infiorescenze

Filo di coscienza pur nel sonno,
ho avuto il lampo di capire chi c’era;
per sognare mi sono rintanata;
troppo offensivo il filo di luce,
affondare di molti livelli,
nell’ombroso recesso raggio laser.
Come l’ape nel fiore soffione.
O uscire fuori a frequentare le sale,
dove s’attacca a noi ansia del fare,
stare tra i vivi è così? nutrire
infiorescenze e, domani, corolla..

           E porto in giro lo stelo fiorale,
           dentro una realtà che non piace,  
           e fluisce in me in segreto una voce:
           si comunica la malattia dalla voce,
           linfa e materia e la sua svogliatezza. . 

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Il diluvio universale

davanti al dipinto di Paolo Uccello

Al lavacro della notte la natura
s’impregna, aumenta il velo d’acqua
e mai si è interrotto il pensiero
      sapienziale.

A corpo con la natura cruda
il diluvio travolge gli umani,
con serpi attorno al collo
ed enfiati cadaverini galleggianti
       nel flusso,
del mio maestro metafisico.

Nell’instabilità nel disequilibrio
il dipinto corporale vive
da un nero come di un corvo
che si stacca da fondo nero
how came beauty against this blackness
quale splendore all’origine…

In diluvio universale si tengono
gli idolatri dei giorni sfiancanti,
eterni nani, insipienti.

Il maestro ha erbe dei giardini
rinfrescati al lavacro della notte
       sapienziale5.

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Noi che eravamo profeti

I corpi che amavamo li amiamo
anche nella assoluta magrezza,
la magrezza un affronto alla madre;
              non avere il peso,
solo presenza destituita
di giurisprudenza, pesare meno
della caratura dell’uccello
che trasvola in stormi fedeli.
Il cuore si svergina
nell’oltrepassare quella soglia.
Essere sordi allo scrosciare d’acque,
una sensibilità sempre scoperta
anche quando ce ne siamo andati
da celle rozze tra estranei,
noi che eravamo profeti di natura.
Il gigante stringe a sé due uova
e poi due pulcini, scorre giù
per le clavicole sporgenti
magma di sangue e materia,
        nel freddo sottozero;
la vescica si coagula in pietrine,
negata libertà di morire
passando dal tempio, il padre nudo
davanti alla figlia, maledizione
per noi, padre figlia, figlio madre,
messa a verbale una vita intera
nello svanire di lievi lievi pesi
      nel freddo tempo6.

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Misura

la bella luce della terra è misura

nel giorno del solstizio d’estate
per buona misura, l’ombra diede
a Eratostene – ombra di un bastone –
dimensione della Terra

in vertigine dentro le stagioni
vide con vista penetrante
vide nel cuore originale

primavere scorrono ancora
dentro una generazione

di colpo passata misura
si slaveranno nelle piogge tropicali
anche quel poco d’età degli animali

se strappi la vita al mare la butti
nella notte spessa e senza sogno

tutto il vivente senza sogno

cuore della materia ormai sfibrato
sangue colato nella muta aurora
voce che si esercita a significare
isole che hanno tronchi ma muoiono di onde

per forza dico, lo dico nella colma misura:
andate, andate al vostro destino…7.

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Una narrazione

Scrivo il tempo che va da ora
all’ultimo giorno, e sarà lungo
chè si giunge sfiniti al riposo
nella mente che brucia le pietre.
Ci sono persone per raccontare…
Una narrazione leggera,
se amano la facilità.
Faticosa, invece, e antica come
il brucare della capra sul monte.
Non è ancora il disamore.
Un distacco nuovo come voltare
il muso non capendo i giorni
felici, solo nel piacere immemori
oggetti totali del desiderio.

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Commiato

Il mio tronco dove sale il dolore
sale voce mentre lasci la terra
e le cose che già avevi ucciso.
Nel silenzio del mattino a Tebe
si velava l’incontro sospeso
           e il delitto aveva già corso.
Tiro intorno cambio tensione
alle corde del mio strumento
come quando mi accordavo
sulla lunghezza del tuo benvolere.
Come Edipo a volte eri preso
da infinita rabbia contro te stesso.
A me, il silenzio su Antigone
        impresso
ed è tutto, forse è  bastante. . 

          Mi rimane il poema incessante.

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La storia

2005

Non puoi sempre fare l’ateniese,
mi dicevi, troppo nobile,
vedi come la storia tolgono via.
Guarda qua i ragazzi della Locride,
guarda oggi, caro, ti direi,
contro l’ottusa macina marciare
come fosse sterrata la giovinezza
come fosse più vivo l’ardore.

Entra in campo visivo l’airone
ed esplode il celeste.
“E adesso ammazzateci tutti”;
cangia l’alchimia di ogni corpo
dal bianco fumo al rosso intenso
corpo in nuovo corpo
a superare d’impeto il dolore,
il pugno alzato a trascendere8.

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Rosa Luxemburg

Buio oltre la musica che si propaga:
la tromba è il rifiorire dei sensi.
Respiriamo l’un dell’altro il respiro.
La storia è quel che non volevamo.
Le croci degli schiavi in rivolta:
dopo Spartaco, l’impero dorato,
straniamento della storia alle donne.
Che cosa ci siamo inventati…
il latifondo, il solo concetto
faceva impazzire l’indagatore
d’esperienza totale, d’arte d’amore.
La limpieza de sangre…
alla tenera carne s’aprivano
le inquisizioni, il precipitato
d’estasi del barocco, pollice verso
sul sacro della donna hanno posto
i dogmi i colletti bianchi i padri.
Sono tornati gli spartachisti,
un parlare pieno di idee
immaginazione esperienza totale.
Non li abbattete come la Luxemburg,
dai cieli gelidi dei municipi
al carcere femminile alla Barminstrasse,
nei sensi rivolta dadaismo,
nel grido degli operai ai soldati:
“Fratelli, non sparate!”
ricordo di Rosa rosa segnata
pianto che rifiorisce in petto
buio oltre la musica che si propaga
forse voce piumata che ritorna9.

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Gineceo

Nelle trasformazioni sublunari,
nella notte anarchica,
non ci volli stare al gineceo
dove si smazzano carte
che non mettono in gioco niente;
ma uscii a fare parte, progenie
della luna, di tutte le maree,
mi sono esposta, riposta in circolo
        di natura e scrittura,
per tenere il simbolico,
del pensiero tenere padronanza. 
“Che il tuo parlare non sia neutro”;
e della narrazione tenere
   il filo e conto. . .

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La guerra

          Kosovo, 1999
          Baghdad, 2005

La pioggia percorre le guerre,
imprime, in tensione nervosa,
scariche a fiore di pelle;
rovescia pietra e terra e fossili
nelle fosse comuni. La guerra
si fà di piogge, e l’aria di spari
rabbuia e intinge e sospinge
pietre rotolanti in sporche rogge.
Piogge si infiltrano in spazi
pieni di fango e di umori,
acqua che di sangue si tinge.
Di notte, piogge annegano sogni,
soffocanti di tonfi e tumori.
Sempre le stesse intemperie di morte,
sempre gli stessi selvatici odori. 

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La guerra

          Battaglia di Sennacherib

Il cielo perforato da fiamme
di terra, come il guerriero avanza,
con pupille fisse alla battaglia.
Dobbiamo tenere le postazioni,
costi la disciplina dell’anima,
lo scatto di morte di ogni muscolo.
Inselvatichisco, mi scaglio, urlo.
Tutta la vita mi passa davanti.
Sono poche le fortune le risorse
sono pochi e scarni gli amplessi.
Nel clangore del ferro degli scudi 
si è chiuso come bolla il silenzio
che mi stringe a male il cervello10.

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La guerra

          Baghdad

Essi provengono da un altro viaggio.
Essi fiorivano con i giardini
di Babilonia. Ora là è paura.
E strilli di giornali e voli armati
               a bassa quota
(poter riprendere il sognato)
Questo inizierò a cantare.
Il tocco dei polpastrelli
negato ai morti degli altri.
Un ciabattino rimasto aperto.
sotto i raid e le esplosioni.
In una bancarella, libri di storia.
Questo inizierò a cantare.
Essi fiorivano con i giardini
del deserto di Falluja.
Oggi è vuoto e spopolamento.
Essi si immolano senza uno sguardo.
Comunque la guerra interessa,
attira gli spiriti, dicono, forti.
Questo inizierò a cantare.

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Novecento

Abbiamo incrociato le voci;
non è stato un tempo spento
pur tra eventi incomprensibili
e vite sfinite sfigurate:
il verde amaro del novecento.
Abbiamo alzato le voci
gridando a viscere aperte.
Abbiamo incrociato i passi
insieme ai figli nel sentiero boschivo,
tanti hanno lo sguardo furtivo,
hanno vissuto una storia spenta
con vicino gli amori i figli
lungo il talentoso novecento
in cui abbiamo speso parole voci
nella parabola di milioni di croci.

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Le donne sono stanche

Le donne sono stanche:
    sono  abitate da amore
tigre che insegue, che viola foreste.
Le donne sono state via millenni.
Il sangue se lo sono formato
goccia a goccia anno su anno,
il ventre se lo sono portato
con sapere d’affetto e affanno.
Sazia di umori, abitata da amore
bello come un mondo nuovo
           caduto ai tuoi piedi.

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L’uomo la donna la danza

E la faccia dell’uomo e perle
per volto di donna, loro allacciati
in case-rocche indifendibili
quanto l’incavo delle ginocchia
le ascelle, come fu con la scimmia
     primordiale,
la faccia strano luogo della mente,
attraversata dai lampi dell’orsa
      maggiore,
il corpo piantato nel fragore
della corrente ultimo lavacro
tra bagliori immensa-mente;
dopo, una morte pulita
       possibilmente
quando non ci visitano più il vino, il sacro. 

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Esmeralda

Esmeralda doppia natura, erba
intrisa e argentea salvia
e, sotto, le lesioni dei roseti.
Esmeralda come la quercia alta
dei tempi d’Esiodo e dell’eroe Odisseo:
da sola, un bosco, un corpo intero,
radicamento nel fondo del mondo.
Da sola, come la ninfa, un mondo.
E perdura la ferita, quell’aspra
segreta divinità delle donne
chiede lenimento, il dio silvano 11

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Voce, soltanto

Cos’è vita ora che s’allontanano
i tuoi occhi come strada di notte,
spenta la vampa, cos’è vita giusta
  il posto giusto

se la natura quando l’ho cercata
fu natura snaturata nient’altro
che forre incompiute ignote agli dèi:

dove era certo dominio d’amore
tua vertigine mio bacio aperto,
ora è corpo sottile, voce,
come fu detto di Bernardo
di Clairvaux: “E’ una voce, solo.”
Con il peso dolce della scrittura.

E’ farsi, vita, giusto apprendistato
e piacere e austera misura.

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La fortezza

donne dondolano i fianchi tra meli
in fiore della Moldava, circuite
da guardie madide. Estate del 1992.
  L’essere detto del mondo.

Via da Praga, sanno? si forma,
               nell’ombra,
la fortezza dei patrioti italiani.
Comprendo, passando, i soggetti i corpi
che furono. La civiltà dell’Italia,
i pochi pensanti di questa nazione.
“Non è per voi parlare alle guardie
ai bagni penali” dissero a  
Pellico e Maroncelli, circuiti
da guardie madide. Estate del 1822.
“Il mio dominio è la parola,
falla decantare: è tutto di me.”
Almeno i piccoli scritti. Kleine Schrifte..
Solo posso essere compreso
  come parola.

L’Italia per loro era buona o non era12.

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Basiliche

Nella campata, forze vitali,
la luce al rosone, il nihil del prima
e del dopo inverato negli avelli.
Qui è il fondamento.
Fissa il mirabolante dei pozzi
l’interno duro del dipinto:
sotto la patina più buia
il perturbante lo specchio.
Membra contorte, il serpentario
nelle nicchie, corpi già avvinti
all’albero della cuccagna
nell’allegria della congrega del vino.
Al fondo della basiliche
dei pantheon giacimenti d’universo.
Fissa il punto più puro
al superamento della soglia
non perché ti ferisca l’angoscia.

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Le città - 1

La città si accende di faccende
nel frastuono ascensionale,
rara aria nei respiri.
C’è gente per cui non c’è soddisfazione
non c’è mai riconoscimento.
Si va avanti con un niente materiale,
occhi vuoti mani vuote…
Solo i terrapieni erbosi dei treni
danno sentore d’acque piene
di fossati cistercensi che fanno respirare
gli orti e, nei pressi,
campane barocche, bisbocce, bocce.

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Le città – 2

Quando a fondare città erano uomini
pregni della fatica medioevale,
la fabbrica, le torri, la capriata,
la cattedrale che si declina dentro,
e apre il cuore al viandante.
Città odierne danno voce
solo a quelli che le animano.
Si ripiega su piccolo suolo la campagna.
Ricacciate, piccole fate ritornano,
non remissive, sacrificali,
a disturbare il comodo tempo,
s’infiltrano nel linguaggio
e si impaccia la lingua parlante13.

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Esilii

Quali esilii sceglieremo dove
portarsi dove portare la cadenza
di sé occhiuta e germinante
e anche limitata
bestia il corpo senza voce.
Il racconto dei viaggiatori
non è più lo spruzzo marino della vita.

Si è addensata la nuvolaglia.
Dove scioglieremo la voglia di varcare
i recinti delle regole,
di buttarsi oltre i conformismi
nelle città dalla membra informi.

Dove porteremo il solo unico volo
lo stupefacente dono del piacere.

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Mosaici d’oro

In basiliche dai mosaici d’oro,
abitate anche dai lari,
è chiaro e scuro ed è il non detto.
Qualcuno viene zoccolando
di scorcio alle navate, in canonica,
a vestire una statua di bambina.
Vi sono padre e vi sono madre,
dice il Cristo d’oro.
Non bastante il discorso,
chiedo alla scrittura soccorso
per ciò che del mondo apre:
trascrizione di vite infinite, 
di pietre di basiliche romane,
sopra s’installano le gotiche foreste,
gli angeli caduti, nostre figlie,   
il redentore ad ali aperte,
e mamma e Francia e quanto abbiamo
in infinite vite appreso e detto…

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Viaggio in treno

stazione di Genova Brignole

Treni a scorrimento su rotaie di neve
e ghiaccio e silenzi franti
da spezzati rami come è franta
la lingua dei messaggini SMS
che vanno ad aggiungersi a tutti i segni
orme di lupi scintille d’inverno
acervo di sussurri e suggestioni

doppi sono i volti dei passeggeri
uno sconosciuto agli stessi
per le domande d’angoscia ignote
ignorate e con la neve sepolti

e non vale squadrarli quei volti,
ti presentano lo stesso attonito
sguardo senza risveglio, estranei
un po’ meno nel nevoso viaggio,
voci a sprazzi vive poi più fioche,
quelle dei fanciulli, evasive:
che mondo loro sono non sanno.
E non so che angelo freddo
mi ha sfiorata nel compartimento,
passando da Brignole al primo monte. 

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La bellezza

in quei giorni credevo di vedere
tutta la bellezza nel tuo volto,
l’importanza, e nutrirmi; una bellezza,
aveva detto Nietzsche, smeraldina,
(i ditirambi furono sua casa)
.
e dunque accoglierla col mondo,
così dura, algida, aliena dai sogni,
l’essenza sostanziale, come parlare
del punto di rose nel giardino,
misura non misurata dai mezzi
della scienza; il totem estremo.

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Vulnus

Che fare dell’annoso vulnus, diaspro
di decenni che trovo le stesse
persone marchiate dallo stesso mio
senso di fallacia, questa specie di taglio
pulsante tra l’aorta e sangue,
farne niente tanto cosa pesa,
quanto vespe della carcassa
appiattita nell’inutile calura.
Una ferita che non fa male né bene
da qualche decennio registrata
in scartoffie, a segni rossi, e
fatalmente consegnata alla vita.

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Il primo mattino

Il primo mattino si smobilita
nelle stanze – rapito risveglio -
quale cognizione del tempo?
Il detto il mai detto. Tutti “io”
come piumini, come punte di spillo.
Prevale la parte, s-centra l’io.
Solo la madre ascolta.
Le cose le mordi e comprendi e forse
non è il nostro tempo. Carne umana
mordi, frutto polpa imperenne,
l’amore anche, mai senile.
La madre ascolta, vicino al letto,
solo la madre. Qui mi sono inserita
nelle vecchissime immemori
abitudini, per un giorno.

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Mezza stagione

Di silenzio in silenzio, dalla frase
musicale alla nota, il suggello
dell’abate alle labbra,
ti portavi in giro in simulacro,
i tuoi passi si erano accorciati…
lo scorporo, una prova a mezza vita,
          lo capivo,
per riposare un poco sullo sfondo.
Anche in povertà di mezzi
c’è da muovere un mondo.
Il tuo terribile sguardo all’interno
nel freddo cerchio di un lago freddo,
          lo conoscevo..
Fare vita senza retorica,
di sponda del letto fino alla cucina
arrivare al pomo del giardino
(il merlo e la merla lì vicini)
cogliere le poche mele al tramonto
       a mezza stagione,
non affidarsi ancora agli storici.

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Storie di ragazze

Storie di ragazze. I padri sorvegliavano.
Che sapevano i padri delle figlie,
donne dal tempo del piccolo corpo,
ci siamo di nuovo partorite
donne. Una fece l’aborto,
cambiò il modo di parlare,
una donna grande, sentivamo,
un individuo originale…
Il padre ha oggi cent’anni,
ha compreso delle cose, non quella.
Chi nasce con un grumo
il piede pesante alla radice,
non c’è nessun libero arbitrio,
solo lottare contro il sole nero,
chiedere voce, corpo, corpo sottile,
per non essere confusa al mondo,
e cercare catene nuove,
e a essere, donna, insostanziale.

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La tua discendenza

A mia mamma

Tenere così poco a te stessa,
per carattere, per destino.
Avevano poi corso eventi
fuori dalle tue mani. Avesti
alfine il tuo più lucido sorriso,
nel velo dell’uscita finale.
E ancora e ancora ti domando
e sempre mi risponde quel sorriso…
Hai fatto almeno in tempo
a conoscere mia figlia.
Mia sorella ha fatto bambini dopo.
La tua discendenza,
rosa della tua bella carne,
sangue di forze capace. 

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Gli alberi

Fammi rientrare in una fresca sera
che sussurrano le cime dei faggi
accogli la fine dei miei viaggi
con un cenno e sarà quel che trovo,
continuità della casa e dello stare,
e mentre mi volto ad ascoltare
il sussurro degli alberi amati
provo universale pietà,
e ancora li sento trasalire
dalle cime più colpite dal divenire
nella nudità delle braccia alzate,
delle ferite riportate. Fammi
rientrare in un interno,
      se gli alberi devono finire.

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Linea d’ombra

E chi lava via la noia la nebbiolina
….sta sospesa come la faccia di Ofelia
      smorta
morta annegata non si guarda le mani,
la realtà è diluita nelle ore
consumata l’immaginazione
la corrente fredda sbatte
sempre contro lo stesso marmo,
ma la noia non è schifosa
una pappa melensa che impapina
il palato, la linea d’ombra 
             ingombra   
quando di là si stende 
più vicino all’umano destino
un mare infinito e navigazione

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Nascita

Mi batteva in petto una bambina.
Mi stava tesa era l’essenza
e quando uscì dal buio
io entrai in una zona d’ombra
lunga quanto l’esistenza.
Fare un figlio senza tremare,
la vita in cambio del neo-nato
correre a braccia tese: tremavo,
invece, per la materia vocis
immersa nel mondo così strano
e la sapienza era vicina come il pane.
Si muore per non saper mangiare.
Mi protessi lasciandomi ammattire.

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 Stefania

che gambe che hai quando corri
lungo l’asse terrestre
svariando pentagrammi celesti
sui tacchi alti, come l’airone femmina
che ha appena covato
capelli che tieni sciolti
senza fermagli né diademi o nastri
sulla nuca un tatuaggio
non si muove rimane un segno
una cartella di fogli in braccio
sveltezza sdegno a volte ma voce
che trattieni per onore

un “la” che suona falso ti schianta subito l’orecchio14

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La pineta

Come staccavo la corteccia
dai pini, col trascorrere del giorno
in buio boreale, come fosse crosta
terrestre;  la sostanza: indicibile.
Lasciarsi con un bacio alla gola;
non fu tradimento, solo
un girare più molle del vento:
sostanza immutabile degli amori;
lo stato del serpente,
una frustata nel folto dell’erba
e intanto il fluido umore
scriveva nel corpo il suo poema.
Il bacino alto la diga un fiato
di blu nell’ombra di una pineta
che solo io ricordo, una polla segreta.
Portavo sul dorso ogni lascito
umano e divino, vicenda scritta
a più mani, papiri usurati,
sostanza dei papiri: la memoria
di un padre dal passo falcato
falco predatore della ragione –
e poi di ogni uomo amato15.

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A me, parlavi?

Sentivo il tuo sguardo asiatico.
prima che ti avventassi al mio cuore
per masticarlo. Scoppiavi a volte
in riso, gettavi una schiarita,
ma un destino hai creato.
Non ti ho azzurrato, come volevi,
  il cielo.
L’intreccio che al cervello è dolore,
negavi nel ridere, nel non far capire.
Passare dal francese all’italiano
   allo spagnolo
modulando accento e intenzione
è solo movimento spinale raffinato
    del gatto
è il graffio dato con intenzione.

 

Con chi parlavi? A me, parlavi?

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Spaccami

Schiacciami giù col peso, radicami
come la pianta paga di essere
prendendo astri,
rivelami la parte di me
che non voglio governare,
sensuale, stregonesca, d’ombra,
anche pigra, che coglie l’abisso
d’istinto e carne,
fammi sentire la natura corale,
interrami, schiantami, spaccami,
sotto il livello del civile testo,
che però non ha la bellezza,
   non ha gli astri:
fammi fuori, aprimi, tienimi,
con la tua radice vitale entra
nel mio abisso, fammi esistere16.

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Un mondo nostro

Il mondo è unico e comune a tutti
non a noi che ci ritiriamo
in un mondo nostro, profonda
la camera, la passione addosso,
costi qualsiasi prezzo d’oro,
costi l’anima, tu l’ospite in me,
tu mio cervello e nervi e maschio,
io tua persona, corpi raccolti,
poi di nuovo baci che aprono lune
col favore della notte,
fino al confine dell’azione;
solo tu nel corpo hai la sapienza
solo tu intenerisci e intendi,
tu il più straniero degli uomini.

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In terra

Almeno una volta ogni figlio si è addormentato
nelle braccia del padre,
almeno una volta ogni animale è scampato
a una tempesta scavando la terra,
ogni muso si è ficcato in terra
e tutti, nell’ingombro annaspando,
hanno visto un cielo; avendo scavato
un posto nell’incavo del suo collo,
nella stretta delle braccia delle gambe,
con la sua distruzione
cede lei adesso stremata in terra;
eppure a volte le parole erano dure
come avviene tra uomo e donna
che si scavano in corpi diversi
in voci dai timbri dissonanti
la prima parola di ogni nuova frase.

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La repubblica ridicola

Voltati i ritratti contro le pareti
coperti gli specchi di stracci
votata un’alleanza non la legge
nell’aula colano le cere
della repubblica ridicola
sotto assenso si sciolgono i sigilli
i giudici si adeguino
i pochi pensanti di questa nazione
               si adeguino
ciò viene richiesto d’ufficio

mi pento di questo patto
frutto della mia indifferenza
 
colano le candele si scioglie il sangue
non c’è nessun Socrate né cervelli belli
e non avere attorno Pasolini
e a chi ramazza le briciole, 
si mette colorati pennacchi
la repubblica gli dà da mangiare

e ogni giorno ci si ammazza
nel cortile di casa al football 
ti ammazza quello che hai nel letto
ogni abuso ingrassa chi d’ufficio
nell’aula bunker gli stracci
della decenza estrema sono esposti
come il lenzuolo di sangue
della prima notte esibito al vento

come si espone il volto
del vanto e del compiacimento

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Tacete

Tacete se non avete niente
da dire, se i gabbiani beccano
cibo nella spazzatura
non più volanti nel desiderio
del mare omerico profondo
se tartarughe della natura deviata
fanno a pezzi l’uccello ferito,
se desti di notte, tecnocrati
stringono su leggi per il giorno,
mentre cadono petali su petali
e scosse si scaricano alle stelle…
tema dozzinale, scorporo d’umano.
“Chi ha un consiglio da offrire alla città?”17.

Fuochi accesi sul mare…turbinano
scintille, le controllano gli umani.
Se non avete niente da dire,
niente di buono, tacete.

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Inquieta

In questo momento ho aria forte
cielo di tempesta, tempo, storia,
i miei atti e un po’ di sonno.
Vado pellegrina nel gran testo,
sillaba inquieta nel discorso,
tenendo anche il pregresso.

Io penso, io sento, io ricordo
me che ricordo. E la bellezza,
un potere liberato…
poche hanno coraggio e fascino,
costante mente e corde vocali,  
buono strumento, il più accordato,
per dire io sono, per non sfinirsi
nel gran fracasso degli eventi..

Dove sono quelle che amano
quelle che sono faro e ispirazione.
 
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L’artista

E mentre mi voltavo, si spezzava
una saldezza, lo sapevo.
Saltando al collo di un samaritano,
fui il primo a dire, o questa cosa
o, per me, solo la galera.
Sbozzo la forma per il mio tempo,
risveglio nella pietra l’arte,

per vess no biott  insèmma a la ligera.

Nella mano l’impronta che mi segue.
Per Milano come è e come era.
Non sia soltanto la visione corta,
sia un voltarsi via da questo muro,
come fanno quelli che cominciano,
che prendono la loro parte,

come il pà del me pà a vegnì foeura de la scighera.

La salda forma è già con me. .
Mi fa stare nel mondo come sta l’artista18.

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Casa di Franca

dove luminosità si effonde
dall’alba, avocando a sé le forme
le presenze magnifiche,
ripulita dai voli di uccelli nerazzurri
che avrebbero troppo di becchi
       di artigli,
e una sonorità intensa senti
prima che apri le persiane,
vibrante anche quando sei via
       dalla casa
che della terra di Cap Ferrat
si nutre ed è beata
e mai mai si priverebbe della luce
      sulle rupi
e del blu che bevi d’un fiato,
anche quando non ci sei nella casa.

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Vecchiaia

Viene fuori la vecchiaia di tanti
che vanno per le strade, sotto
le suole profili d’ombra. Salvi
nella decrepitezza non saremo:
è fatica solo spostare 
il feticcio con la mano nella folla
delle tante teste svanenti
come in sogno, nelle domande:
chi siamo? di chi siamo? Anche
a sfogliare pagine di poemi
e trovare vecchiaie accettate
vecchia non mi conosco
e più ho freddo nell’inverno
più la febbre è divorante,
negli incontri, poi disgiunti,
i divorzi non li combini,
ti prendono loro a sfinire..
Due generazioni dietro e due
a seguire, io nel mezzo,
si portano bene e avvolgono,
non c’è rumore, la vita non fa rumore,
segna profili d’ombra nel volto,
s’ incrementa il senso del dire,
e parole che vogliamo sentire.
 
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Parola volpe

Addomesticando empito della parola
volpe dalla coda rossa
che per forre e leggende s’aggira
liberando tenebrosi intestini
appassionata scrittura s’incurva
quando la crosta di testo ha smosso.
Ma le parole s’allungano
si avvelenano senza che sappiamo,
snodando membra, incidendo segni
in movenza,  lacerando in terra le vene.

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Europa: in stato di migrante

Non so se d’Europa è il sogno
ponte tra sensibilità individuali,
non so se il viaggio è il sogno
o la vera civiltà essere aoikos,
essere in stato d’emigrante
incontro a mura ciclopiche
che riconosci, cuore
(interiormente c’è una patria),
dove la Grecia è terra d’ombre,
qui al cominciamento d’Oriente
navigando all’Ellesponto,
c’è comunque sapore dell’esilio
c’è sempre qualche povera faccia
che viene incontro, quello che hanno
da dire i morti, sai ascoltare,
scegliendo la tua terra ad ogni svolta.
E poi la sostanza di noi domini chiara19

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 Note

(1)Europa poetica. I luoghi dove ritorniamo li ritroviamo ridefiniti, ridisegnati, soggetti addirittura a una risemantizzazione, a una risignificazione che non ci appartiene più.torna su
(2) A memoria, voglio invece riportare, in calce a questo testo, un frammento di antica significazione dei luoghi dell’Europa: “Quattromila ulivi piantati/ durante il medioevo e sul limitare/ dell’uliveto vive l’”albero bello”/ e il tronco respira in tre ceppi/ nei territori dove si stese l’impero/ il Sacro Romano Impero di Dante.” torna su
(3) Infanzia. Testo poetico già incluso nella raccolta “Ritratti”, Campanotto Editore, Udine, 2000, prefazione di Tomaso Kemeny, che ritorna nel presente volume, non potendo mancare come  aurorale reminiscenza. Legata, peraltro, a mio nonno, Davide Stefanini, nato nel 1890, il mio padre buono.. torna su
(4) Rutebeuf (1225-1285), poeta medioevale francese, è un povero, e lamenta la sua miseria, i debiti, l’abbandono da parte degli amici, rivolgendosi anche al re Luigi XI. Belli e struggenti i testi  “La pauvreté Rutebeuf”, “La mort Rutebeuf”,. « La complainte Rutebeuf », da cui ho tratto questi versi, che sono andati insieme, sotto il livello della coscienza, con il verso iterativo En hiver blanc, dellapoesia “La Grièche d’Hiver”, torna su
(5) “Il diluvio universale” è il celebre dipinto di Paolo Uccello, del 1447, che si trova a Firenze. Affollato di figure  scomposte nel turbine, emergenti da un fondo nero, come è, mi ha portato, per analogia, i versi “How came beauty against this blackness”  dai  Cantos di Ezra Pound.torna su
(6).  “Noi che eravamo profeti”. Testo contenuto nella pubblicazione “Venticinque poeti per il giorno della memoria”, 27 gennaio 2006, Civitella in Val di Chiana e Monte San Savino, curato da Fausta Squatriti e Jack Arbib. torna su
(7) “Misura” è stata pubblicata nell’edizione del maggio-giugno 2005 di “Odissea”, la pubblicazione diretta da Angelo Gaccione.torna su
(8) Anno 2005. Saranno sempre nella mia memoria i ragazzi della Locride, le belle facce dei ragazzi della Locride scesi in piazza in protesta, a seguito dell’omicidio Fortugno, sotto lo striscione  con la scritta: “E adesso ammazzateci tutti”. torna su
(9) Rosa Luxemburg. In memoria anche la grande insurrezione degli Spartachisti del 1919, a Berlino, guidata da Rosa Luxemburg e da Karl Liebnecht, repressa nel sangue dalle truppe governative  I due teorici e combattenti furono assassinati da un gruppo di ufficiali di destra.torna su
(10) Una guerra del passato, rappresentata in un corrusco affresco del Tanzio da Varallo (1575 ca-1635 ca),  a Novara. Il Tanzio si esprime su una superficie immensa, quasi a voler portare nel dipinto tutto il movimento della guerra guerreggiata, con gli scudi, i fuochi, le armature, le membra umane drammaticamente distorte.torna su
(11) “Esmeralda”, già pubblicata ne “Il colore della storia”, Campanotto Editore, 2002, prefazione di Stefano Verdino, col titolo “Giardini d’Irlanda” (pag. 41), è stata messa in musica dal M° Giuliano Zosi, per soprano violoncello e pianoforte.torna su
(12) Durante un viaggio in treno destinazione Praga, nel 1991, due anni dopo la caduta del muro di Berlino, ho sfiorato, con emozione, il luogo della fortezza dello Spielberg, nell’allora Cecoslovacchia, evocativa per gli italiani, nel ricordo di Pellico e Maroncelli.torna su 
(13)  Due poesie sulla città, che sono uscite dal libro “Il colore della storia”, volevano completare  il  discorso  sul ‘900 e sull’Europa, che sottende a questo libro. torna su
(14) Stefania è il nome di mia madre che, saltando una generazione, è passato sacralmente a mia figlia.torna su
(15) Una polla d’acqua segreta, a Malesco, presso Domodossola, un bacino di acqua blu, collegate a memoria familiari remote, sono rimaste in stato semi-conscio per decenni, fino al recupero all’interno di questo testo.torna su
(16) Questa, così come la poesia seguente, “Un mondo nostro”, sono dell’antologia “Poesia erotica di poeti italiani”, Edizioni Alì, a cura di Mariella De Santis.torna su
(17) Euripide, “Supplici”. Il verso è entrato di peso nel testo qui presentato.  torna su
(18) Si ritorna, a volte, al luogo Milano, trasfigurandolo, come nella precedente poesia su Rutebeuf. torna su
(19) Un lungo viaggio in Grecia, nell’estate del 2006, ha provocato una rottura del discorso iniziale sull’Europa, in apertura di questa raccolta. Mentre ero in navigazione in mare Egeo, si è affacciato alla mente l’Ellesponto, il nome antico dei Dardanelli, e quindi mi è risuonato dentro il Foscolo. Aoikos - on, senza casa, senza focolare. In inglese, home-less, in tedesco heim-loss. E, quindi, è necessario ricordare: :“.Oltre l’isole egèe, d’antichi fatti/ certo udisti suonar dell’Ellesponto/ i liti, e la marea mugghiar portando/ alle prode retèe l’arme d’Achille…” (Dei Sepolcri, 216-219).torna su

 

 

Postfazione

Gli uomini non possono mai essere del tutto felici, ma
possono pregare di avere parte….
       Saffo

And the days are not full enough
Ad the nights are not full enough
And life slips by like a field mouse
Not shaking the grass.

               E i giorni non sono pieni abbastanza
E le notti non sono piene abbastanza
E la vita scivola via come il sorcio del campo
       E non scuote nemmeno l’erba.
Ezra Pound

 

La mia poesia nasce da un’infanzia vissuta miticamente, dove le manifestazioni della vita e della natura si legavano nell’immaginario e nel simbolico, accendendo energeia proiettata  nell’arco della vita. E crea il poema incessante, dove il mito rimane come radice e base permanente dell’umanità, come esperienza psichica. Dove la storia entra non come azione di capi, di condottieri, ma come movimento e bisogno collettivo e mutazione dello spirito e del corpo. Il poema include la storia. Il mito rimane nell’impasto.
Avrebbe potuto, questa raccolta, intitolarsi “Europa poetica”, come il testo d’apertura, ma ho lasciato che tutta la raccolta scorresse fino al testo di chiusura, dal titolo “Europa: in stato d’emigrante”, trovando in sé un filo e un’idea che legassero i contenuti,  rappresentandoli in modo totale: una sorta di dichiarazione d’intenti. Vivo una scrittura fluviale, appassionata, che ri-crea  una visione del mondo, e cultura, bellezza, il piacere, il fascino delle persone, che ancora era sapienza per grande parte del ‘900.  Vivo la parola poetica che allude al mistero femminile, nella coloritura anche dell’inadeguatezza esistenziale, del “sole nero” (“solo lottare contro il sole nero/ chiedere voce, corpo, corpo sottile/ per non essere confusa al mondo/ e cercare catene nuove/ e essere, donna, insostanziale”).
La poesia è in presa diretta con la parola interiore. Nel rapporto linguaggio-realtà, la scrittura poetica scava nei simboli che l’iperrealismo osceno si è mangiati insieme ai chiaroscuri in natura, per frullarli nel Maelstrom che ci turbina attorno. Sembra che dove fiorivano le diversità non ci sia mai stato il pensato, l’elaborato. Chi ascolta, chi vede veramente? Chi ha memoria? Chi pensa il legame tra esperienza e storia? Tra tempo interiore e tempo ciclico e storia?
Così la poesia recupera tracce d’umanità, che possono anche essere aspre, o indecenti, o subliminali, valorizzando l’esistenza e il lascito collettivo, che non debbano restare chiusi nella letteratura e nella camera dell’analista. L’arte (e la poesia) non accettano ripieghi, non rinunciano alla conoscenza. Sapienziale, rivelatrice, la poesia va a smuovere tutto un universo sedimentato,  portando in superficie le voci di chi parlava prima di noi, dei filosofi e delle filosofe che hanno edificato una visione del mondo, le voci di una civiltà europea in senso allargato, dall’antichità greca e pre-ellenica al medioevo, alle epoche universali che scorrono intensamente sotto il testo, nell’espansione della coscienza.  

Claudia Azzola

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Notizia biobibliografica

 

Claudia Azzola, poeta, critica, traduttrice e ideatrice di eventi culturali, ha pubblicato diverse raccolte di poesia: “Ritratti”, Campanotto Editore, Udine, 1993; “Viaggio sentimentale”, poemetto di Book Editore, Bologna: “Il colore della storia”, Campanotto, 2002; “E’ mia voce tramandare”, Signum Edizioni d’Arte, 2004. Suoi testi poetici sono apparsi in riviste e antologie, tra cui “Versi d’amore di autrici italiane contemporanee”, Corbo e Fiore, Venezia, 1982; “Poesia in azione: 165 autori per il bunker poetico”, 41° Biennale di Venezia, 2001, a cura di Milanocosa; “Premio nazionale di poesia edita e inedita Delta Poesia”; “Antologia della poesia erotica contemporanea”, Atì Editore, Milano, ecc.   E’ stata redattrice nell’editoria, nella televisione, e ha lavorato a lungo nel mondo delle gallerie d’arte moderna. E’ presente dagli anni ’70 in manifestazioni e letture poetiche presso enti, istituzioni e librerie.
Ha ideato e pubblicato, con Nuove Scritture, nel 2006, i quaderni di “Traduzionetradizione” dedicato alla versione del mondo poetico degli autori europei, in uscita annualmente, e consultabile presso biblioteche comunali e biblioteche universitarie.

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