Antun Šoljan

(Belgrado, 1932 – Zagabria, 1993)

 

SERA  (Večer)

Accanto alla mia casa passò Saša
e fischiò tre volte, poi insieme
passammo accanto alla casa di zia Marta
e fischiammo tre volte a Pero, e allora
gettammo pietruzze sulla finestra di Vlado,
e gridammo a quello che coglieva i fichi,
e il cui nome in fondo ignoriamo.

E così Saša, Pero, Vlado e io
e quello che davanti a casa coglieva i fichi,
e il cui nome in fondo ignoriamo,
andammo per la città a fare la ronda,
ci andammo e non parlammo molto,
perché eravamo in troppi.

Saša non mi amava particolarmente,
io non amavo particolarmente Vlado,
e Pero, lui non amava nessuno,
e quello il cui nome in fondo ignoriamo,
di lui non si sa, ma tutti avevano paura
e si scansavano davanti a noi per strada,
perché eravamo in troppi.

E quando fummo ormai abbastanza ubriachi
e quando tra noi apparve Ankica,1
e ciascuno voleva portare a letto Ankica,
il che di solito riesce, come si sa, con qualche facilità,
noi non toccammo Ankica nemmeno con un dito,
perché eravamo in troppi.

E ripartimmo, in un crepuscolo più fondo,
da un angolo all’altro, da osteria a osteria,
finché non si fece tardi per tutti,
il che di solito, come si sa, capita con qualche facilità –
ma nemmeno la torre cittadina osò
nel buio a sonarci le ore,
perché eravamo in troppi.

E così ubriachi scendemmo alla riva
Saša e Pero e Vlado e io
e quello il cui nome in fondo ignoriamo,
scendemmo a fare il bagno laggiù in mare,
ed era notte e faceva freddo,
e noi tremavamo nel mare freddo,
ma non potevamo riconoscere né il freddo,
né il desiderio di tornare a casa a dormire –

perché eravamo in troppi per tornare a casa,
perché eravamo in troppi per combinare qualsiasi cosa.2

 

NEL SETTANTADUE
PER COMMEMORARE LA SCOMPARSA D'UN AMICO
IN UN INCIDENTE AEREO 3

(Sedamdeset druge, na godišnjicu smrti jednog prijatelja u avionskoj nesreći)

 

Sei emigrato a tempo in un altro mondo
varcando la frontiera col passaporto severissimamente verificato
per il fuoco della foto, della firma e del numero.
Sopranumerarie, le tue firme rimaste nei libri
di letture scolastiche verranno circondate d’ipocrisia
come orfani. Ma il tuo vero nome non è altro
che una riga nell’elenco dei turisti inglesi
con cui hai intrapreso un viaggio casuale
per visitare un paese esotico che non c’è più.
Tu hai emigrato come si deve: per sempre, senza traccia;
non venga ricordato nemmeno il tuo nome! Noi spieremo, invece,
in questo o in quel nome d’emigranti,
che per la sua forma accompagni il vagabondaggio dei senza casa,
le voci non verificate sul tuo destino:
Giuseppe Pupowski o Joseph Pupoff,
questi nomi infelici in cui si rimescola
l’origine torbida della metà del globo
e la sua vergogna presente.
Ti ricorderemo, Pupatschewsky, come emigrante,
sia pure pieno della nostalgia densa
d’una buona patria antica
coperta dalla terra o sommersa dal mare
dove i tuoi fratelli abbracciati cantano.

(LANCIATORE DI PIETRA, autoantologia poetica,
1985)

 

I DODICI, ANNO1102  (Dvanaestorica)

Scesero dai cavalli schiumosi,
loro, perplessi, dalle gambe storte, sudati,

corazzati da pelli non conciate
e dal sangue incrostato d’una battaglia persa.

Diffidenti come belve
s’aggiravano tra i baffuti ungheresi.
Si fecero avanti e sillabando nomi con le labbra,
con la destra ancor intorpidita dalla spada

liquidarono una diecina di secoli come niente,
ciascuno, press’a poco, un secolo.

Spronarono i cavalli alla meglio verso le foreste oscure del Gvozd,4
in silenzio – la neve fioccava tra i rami di abeti.

Erano dodici, come apostoli,
ma nessun dio avevano in fronte.

I bimbi nascono con la loro
firma tatuata sulla scapola.

 

LA SIRENA   (Sirena)

I
In che modo opponevi resistenza, come uno sparetto argenteo,
a questa rete terribile in cui ogni maglia
apre la vista su un mare miracoloso
e perduto per sempre!

Vedo ancora sul tuo viso il coraggio disperato
con cui volevi tradire la schiavitù –
hai declinato la timidezza come lusso,
respinto l’orgoglio, represso lo spavento

e sorbendo assetata l’aria piena di promesse
– topolino svelto pieno di vita –
hai voluto guizzare nella libertà
in un breve abbaglio di luce bianca.

Ma non hai cominciato davvero neppure a vivere
sotto il sole raggiante che ti ha scelto,
e già la luce si spegne sulle tue scaglie
e da sirena indolenzisci in donna.

II
E già ti vedo dieci anni dopo,
un po’ piegata, coi figli, con la borsa da spesa e col marito,
sulle gambe sottili in un cappotto nero,
come custodisci premurosa la tua piccola vulnerabilità.

Ogni tanto in bicicletta giri ancora per i parchi, per la riva
come un gabbiano che cerca (chi ormai?)
tenendo stretto tra le gambe il sellino,
un pezzetto duro del calore d’una volta.

Oppure nel crepuscolo, d’inverno, sulla punta del molo deserto
come t’aggiri quasi una gatta magra
intorno al solitario faro portuale
che senza speranza ammicca all’oscurità.

Oppure nelle lunghe grigie giornate nuvolose
mentre dall’altra finestra guardi oltre il bigio mare aperto
abbandonata alla tristezza, con la nostalgia dei giorni lontani,
quando non era ancora così vera.

Non sapendo altro, vorrai cantare?
Possa prolungarsi in te la mia voce
alata, oltre il freddo mare aperto nel tempo
e un giorno, allora rinato, tornerò.

 

L’ULTIMO MAMMUT   (Posljednji mamut)

Sto fermo, proprio in mezzo
al cerchio disegnato dall’orizzonte

Quando faccio un passo tutto il mio mondo
si sposta con me

Mi pare d’essere sul patibolo
e se mi muovo, il cappio dell’orizzonte mi segue

È possibile che questa sia l’eternità
a cui ci siamo preparati da tempo

Preferirei coricarmi in una di queste buche
scavate, chissà perché, dalle meteore

Perché mi pare che sul globo
non ci sia più vita?

Dalla mia statura, il paesaggio
appare ancora più deserto. Benché

intorno ai miei piedi spadroneggino certi esseri
minuscoli, che discerno appena

così miope per la vecchiaia. Ancora
crescono certi muschi, erbe

contente, si direbbe, che accoglieranno
la neve. E la chiamano vita.

(CONVERSARI, 1993)



1 Da leggere Ànkiza (dim. di Anka; =Annina).torna su

2 Poesia databile tra gli anni ’50-’60.torna su

3 Il poeta Josip Pupačić (1928-1971), perito con la moglie e con la figlia all’isola di Krk (it. Veglia), autore tra l’altro della silloge, per poco postuma, La mia croce arde lo stesso.torna su

4 In seguito alla sconfitta sulla montagna rispettiva le genti croate rappresentate da dodici capi accettarono, con Pacta conventa, l’unione della loro corona a quella ungara. (Di fronte ai re formalmente ungaro-croati, e dopo sotto gli Absburgo, alla parte perdente sullo Gvozd, sarebbero rimasti i bani, quali viceré, e l’assemblea nazionale.) Fu la fine, comunque, dello stato medievale croato durato circa 250 anni; che sarebbe risuscitato indipendente dopo quasi nove secoli.torna su