(Stolac,* Erzegovina, 1917 – Sarajevo, 1971)1
Da gran tempo mi stesi
E a lungo mi spetta
Iacere
Da gran tempo
Ché l’erba le mie ossa
Da gran tempo
Ché i vermi la mia carne
Da gran tempo
Ché acquistai mille nomi
Da gran tempo
Ché il mio nome smemorai
Da gran tempo mi stesi
E a lungo mi spetta
Iacere
Né vita né morte appartengon a me
Sono appena uno che istà nell’ombra
Di colui che nel tempo
S’eternò
Qui è presente colui
Che fu invidiato dai neri sacerdoti
Appeso2 all’ora di quel die
Innanzi al suo miracolo ammutolirono maghi e soldati
Quando alla terra li legò con il sole della sua croce
Da dito a dito allargando le sue mani
Lui vinse
La morte
La morte lo cercava ma nulla trovò
Né ossa né sangue né carne
Non le rimasero che le sagome dei segni e come
Mai prima fu spoglia di denti
Guàrdala ora che desvanita salta
Piange e stride lassa
E meschina
Né vita né morte appartengon a me
Sono appena uno che istà nell’ombra
Di colui che dalla morte non poteva subir onta
Di colui che si travasò in colonna
Solare
Sono appena uno che dal suo autunno
Dalla prigione della materia da questa pesanza corporea
A qui lontani soggiorni solari
Tende
Le mani
Il calore d’un guanto
Di muschio
Con la mia morte morì il mio mondo
Ma i flori del mondo
Ci sono
Ovunque e ancora
Sulle ali del fumo
Sul carro
Del sole
Con le piante solari
E germoglia il mondo e
Fiorisce
Tra le rive in qualche luogo
Acque assottigliate mormorano
Pregando
Per la pioggia
In qualche luogo tra le foglie del sonno
Selve assonnate
In kolo3
Dondolano
Nel sussurro della tarda luna
Di nuovo qualcuno
È condotto
Dove-non-si-arriva
Gli schiavi ancora nell’esile speranza respirano
Mentre una rosata gelida
Sui loro piedi
Nudi
Gocciola
È tempo di pensare al tempo
Ché un marciume estenuante puzza dalla
putrida morte
È tempo di meditare sul tempo
Ché grandi acque su di noi navigano
Guarda come strappano e divorano le loro
forze fatate
È tempo adunque di riflettere nel tempo
Che un vento veloce un vento-dragone
Contro di noi malo oggi si scaglierà
Il tempo è foco che ci bruci e annienti
È tempo adunque d’entrare in questo tempo
Ché tempo è così poco
E tempo più non sarà
Quivi iace
Il soldato Gorčin
Nella terra sua
Nella proprietate
Altrui
Vissi
E morte chiamavo
Notte e giorno
Formica non pestai
E soldato
Mi feci
Pugnai
In cinque e cinque guerre
Senza scudo né corazza
Perché un die
Spariscano
Amaritudini
Mi Strussi d’un male strano
Non mi trafisse lancia
Non mi colpì saetta
Non mi tagliò
Spada
Mi strussi d’un male
Insanabile
Amo
E la donna mi fu rapita
In schiavitù
Se Kòssara incontrate
Per le strade
Del Signore
Priego
Ditele
Della fedeltate
Mia
(DORMIENTE DI PIETRA, 1966, 1973)
1 Poeta bosniaco-erzegovese gravitante verso Zagabria, dov’era in corso, mentre morì, una scelta dalla sua opera omnia in versi (Poesie, 1972), da lui stesso riveduta.
Questa volta occorre anticipare un avvertimento al lettore. Dizdar si serve espressamenti di arcaismi, a volte anche di neologismi, in una terra d’incroci culturali e linguistici qual’era la Bosnia-Erzegovina dei bogumili (eretici cristiani) fino alla caduta sotto i turchi nella seconda metà del ’400. Ispiratosi alle iscrizioni incise sugli stećak (tipo di stele), nonché alle rispettive figurazioni plastiche, come pure ai manoscritti (alcuni dei quali conservati all’estero), Dizdar presenta la sua silloge in proprio Dormiente di pietra come una replica (=riscrittura modernizzata) agli autentici Antichi testi bosniaci (XIV- XV secolo). Ne cito alcuni tra i più brevi da lui stesso antologizzati nel 1971 (i cui titoli si devono al curatore-poeta):
Parola su DRÀGAZ TIHMILIC
Quando volli essere –
allotta non fui…
Parola sul tempo
Dio, da gran tempo mi stesi
e a lungo mi spetta iacere
Straniero in questo mondo
A foretano –
desiare questo mondo
Buono
E bono visse
e bono morì…
ecc. ecc. Citazioni letterali o «dirottate», imitazioni e ampliamenti attuallizzanti caratterizzano il procedimento di Dizdar, che linguisticamente evita qualsiasi norma, del resto assai ipotetica (di fronte al quella che si stava consolidando, al contrario, sulla costa a partire dall’umanesimo dalmata e raguseo). Perciò nelle traduzioni italiane viene evitato lo standard dantesco a favore d’un medioevo prolungato ed eterogeneo: con espressioni tratte dai provenzali, dai siciliani, da Il novellino, da Cecco Angiolieri, da I fioretti di S. Francesco, dai bestiari, da Marco Polo… (Vale complessivamente per una scelta più vasta, di cui non si offrono qui che alcuni «campioni».)
2 Avrei preferito tradurre «chiodato», avvicinarmi in tal modo all’espressività di Jacopone da Todi e interpretare la crocifissione come simbolo cristiano. Però Dizdar usa letteralmente il verbo «appendere» (objesiti), richiamandosi in un’apposita nota al testo alla particolare credenza dei bogumili, che avrebbero «sostituito» la crocifissione con il gesto simbolico del Consolatore. In realtà si vede sugli stećak la figura umana (ma il corpo di Cristo secondo la stessa credenza sarebbe stato solo apparente) con le braccia semialzate a forma di «vu», le dita staccate e le palme delle mani aperte verso chi guarda.
4 L’etimologia dei nomi di persona moltiplica i significati di questa poesia. Gorčin (da pronunciare: Gòrčin) deriva da gòrak (=amaro), sarebbe «colui che è amaro»; Kòssara (orig. Kosara) richiama la bivalenza del termine kosa (=chioma, =falce); sarebbe, dunque, «la chiomata» e «colei che falcia», alludendo all’antico binomio amore-morte.