Miroslav Krleža

(Zagabria, 1893 – ivi, 1981)

 

PER TE, OH, IMBECILLITÀ UMANA   (Tebi, o, gluposti ljudska)

Per te, oh, imbecillità umana, batto l’inno sul tamburo,
nume del mio tempo, sei tu il nume più poderoso!
Quando di quadrupede nel cervello umano si sia impigliato ancora
si pavonegga a capo della colonna imbecille
di stolti giorni, e dura, e non se ne scorge, purtroppo, la fine.

Oh, imbecillità umana, tu sei cieca ciarlona,
lingua nella narice del bue, pipistrello nel crepuscolo della coscienza,
nella ruota celeste dell’universo, tra i raggi del biciclo divino,
stanga sull’aratro da sempre sei stata, e del cane gamba rotta…
Sul sepolcro dell’imbecille Europa, oggi pasci come vacca,
non sapendo altro che agitar la coda.

1914-1919

(GIORNI ANTICHI, 1956)

CANTO D'AUTUNNO    (Jesenja pjesma)

Qualcuno Ignoto ha portato l’Autunno
nella Stanza del Nord.
Oh, adesso,
che tutto è colore, vendemmia e odore del vino,
e che s’ode il canto delle Cose e del Bestiame,
e che i morti nel sepolcro gridano di bramosia,
Qualcuno Ignoto ha portato l’Autunno
sul vassoio d’argento
nella Stanza:
uva e pere, mele e fichi.

E fuori svaporano pozzanghere del succo di sole,
e s’ode per la finestra
nella seta del giorno
una donna cantare.

E uccelli cinguettano.

(POESIE I, 1918)

 

SONNO  (San)

Viene il Sonno-boia nella camicia insanguinata,
e mi taglia la testa, e per le vene blu fluisce la luce della Coscienza,
e io giaccio, putrida salma gialla sul patibolo.
Scenario infernale!
Finestre nella cornice della piazza, dove roghi fumano
e spuntano unti ceppi insanguinati,
dove molte teste vennero spaccate,
finestre nella cornice della piazza ardono vermiglie.
Stelle violacee luccicano, mentre certe indiane danzano una danza di morte.

Precipitano pianeti come rosse arance,
precipito anch’io nello spazio blu su un’arancia rossa,
e guardo lucido le dimensioni della mia coscienza, dal primo gioco, quando la polvere                                                                                                              mangiai,
fino all’ultimo, quando da tre vermi il mio occhio vampante fu trivellato.
Ecco! Risplendo sull’arancia rossa!
Io le mie luci do! Io do le mie luci!
E le luci mi vengono rapite! Mi spengo solo nella tenebra e imputridisco.
Cresce vertiginosamente dalla mia salma il quadrifoglio in fiore,
e un bambino mi coglie bianco, credendo d’aver trovato fortuna.
E il cardo asinino batte spinoso dalla mia putrida salma
e punge nella lingua l’artiodattilo grassoccio,
che mugghia al chiaro di luna e pasce il mio corpo.
E tutto ciò sull’arancia rossa, che per lo spazio blu in qualche luogo precipita.

Che diavolo è?
Che silenzio nero, maledetto?
Batto col pugno sulla volta del cielo
e cava rimbomba la volta, come una botte vuota.
Ehi, voi! Estasi di fulgide menzogne,
rivolte, donne, linee, Golgota,
voi orge di pensieri, luce assoluta,
oh, profeti, messie, carpentieri,
siete davvero tutti traditi dalle cose?
Qui è tutto cavità, che ghigna, grottesca!
Qui qualcuno sbriciola i nostri crani e li macina come farina,
e ne cuoce la ghibanitza1 e per farsela più dolce
vi cosparge di sale la nostra anima!
Tagliata dal Sonno-boia la mia testa,
per le vene blu si versò la coscienza.

(Lirica, 1919)

 

NEVE  (Snijeg)

Sul bianco cartellone della neve ora ogni maschera, vicenda o cosa
sporca appare.
E donne belle, saporose, hanno un grigiore di cera, e le loro labbra vermiglie sono piagate                                                                                                                                  e marce
e denti gialli, come vecchi zeri del domino.

Le voci sono ottuse e suonano possenti e vane,
e la miseria nostra è più chiara e grande
quando manca la menzogna dei colori settupla, e tutto è gelido e grigio.

Nel silenzio della neve bianco assennato
io cammino e provo un arido dolore.

Penso che tutto ciò non durerà a lungo:
più veloci della neve le mie orme,
sparirà la mia traccia in tutto.
E nessuno saprà che anch’io qui sono stato e passato.

(LIBRO DI POESIE, 1931)

NOTTURNO DI SAN SILVESTROMILLENOVECENTODICIASSETTE

(Silvestarski nokturno godine hiljadu devet stotina sedamnaeste)

Promemoria a coloro che osserveranno tutto ciò da un’altra prospettiva

La luna è un tondo sanguigno,
e gli alberi soffrono eroici nel morto silenzio,
e la notte del santissimo vescovo Silvestro placida, placida, respira.
L’astrale semiriflesso verde della nera notte nebbiosa,
quando nel cosmico gioco il globo gira per una logora cifra,
e quando sul calendario
l’Anno Vecchio dal Nuovo è scannato.

Oh, a Nuova York, a Genova o a Hong Kong
ora le sirene di tutte le navi ancorate
ululano,
e tutte le antenne ora, in questo momento, spargono manciate di scintille blu
sulle striscie di tutti i meridiani.

Ma io non mi trovo a Nuova York, a Genova o a Hong Kong,
e non ascolto le sirene delle navi ancorate.
Io sullo Smrok2 guardo la luna sanguigna che sorge dietro il cimitero,
e di nuvole la colonna danzante nella lugubre e grigia illuminazione:
martiri in fila, sciagurati, crocifissi.
E pantere ululano accompagnate dal piffero dell’ebbro Bacco,
scorpione e serpente e granchi neri,
sono loro quest’anno sovrani del pianeta.

Malate e gialle sono forme sanguigne di questa notte di San Silvestro,
e tutti i colori squallidi e smunti.
Su, ch’io canti sul cadavere della Vecchia stagione, donna morta:

«Che cosa ci hai dato, decrepita meretrice?
Manicomio, caserma, cannoni e imperatore,
musiche e incendio, funerali e terore.
L’Europa si ubriaca sulla mina di questa lugubre notte,
e Scheletro Grande versa lo spumante nel calice.»
La luna è sanguigna,
e la gente con pensieri combatte, con libri e stampa. La gente combatte con coltello,                                                                                                                       piombo e gas,
e unghie, e calcio del fucile, e pugno,
la gente si scanna, e gufi ululano sullo Smrok,
pure questa è notte di San Silvestro.

(LIBRO DI LIRICA, 1932)

 

SUL FAR DELLA SERA   (U predvečerje)

(Straži toranj nad krajem, kô bršljanom ovita kula)

Fa da sentinella la torre sul paese, come d’edera avvolta la rocca,
sul gorgoglio d’acque, sul canto d’uccelli e arie di zampogne.

Fa da sentinella la torre, come fortezza, bianca figura barocca.
Sull’onda della selva una nuvola resinosa vapora:
fosca, opaca, oscura, gravida d’elettricità come la bora.

È Qualcuno Ignoto che gioca nell’anima scacchiera
e rovescia la torre barocca con una mossa di ciminiera.

 

(Dimnjaci tvornički plove, kô predvečernje ladje)

Navigano le ciminiere, come bastimenti sul far della sera
con trivellature di vapore e d’oscura fuliggine plumbea.

Sulle valli e sui campi e sull’affaticata gente tetra
la ciminiera arde come faro, la sirena suona la sveglia.

Il rimbombo della macchina sopra i tetti echeggia,
la destra dalla sinistra stacca, come nuova freccia.

 

(Kako je Zemlja sestra us’janih meteorita)

Come di roventi meteoriti la Terra è sorella
e sta sospesa, sui campi e sul grano, quasi una stella.

In un flutto di stellari mutazioni, d’Ercole, di Scorpione,
nella ragnatela dorata di lucenti eoni,

sulle fasce del cielo, dei Gemelli, della Bilancia,
la Terra suona il ritornello di vigore e di slancio.

Lampada sulla tenebra di morte di menzogna e di lordura,
la Terra stellare si bagna nell’estasi d’una baia taciturna.

Nel cristallo azzurro del cielo, nel mare blu della sera,
luccicano come ghiacciai ardenti i vetri della Terra.

S’estingue il diurno panno
sul nostro muto fosforico meridiano.

(POESIE NELLA TENEBRA, 1937)



1Orig. gibanica, specie di strudel dolce o salato.torna su

2 Smrok (o Cmrok), una delle colline boscose che sovrastano il centro di Zagabria, oggi parco e zona residenziale.torna su