Nikola Šop

(Jajce,* Bosnia centrale, 1904 – Zagabria, 1982)

 

PASTORALE LANOSA   (Vunena pastorala)

I
Con unico slancio da ogni cosa mi voltai
e benché bussassero i visitatori,
non dissi avanti.
Ma essi entrarono.
E allora dissi, io non ci sono ormai, avete fatto tardi, ecco
Ci sono solo le mie pieghe, sappiatelo.
La mia nell’abito vestita presenza.
Detto ciò, svoltai di nuovo intorno a me e a loro.
E feci un passo in me,
lasciandoli alla mia tavola sbalorditi.
Raccontate ora, divertitevi a sazietà, gridai loro un’altra volta,
ed entrato in me, con me stesso mi chiusi.
Per quanto in me bussassero e chiamassero,
non dissi più loro una sola parola.

Afflitti e confusi si sedettero a tavola, e mi guardano,
e preoccupati si chinano e sussurrano:
Ebbene da qual silenzio lui è preso.
Di colpo orrendamente strano sembrai a loro,
e si misero a scrivere con l’indice per aria,
credendo d’adescarmi così la parola.

Non battei ciglio, non dissi,
ma appena un cenno mandai dal di dentro e affondai.

II
Essi, incantati, cominciarono a gridare e a chiamarmi,
ma io sempre più in me mi allontanavo,
più a lungo, più a fondo.
Cercarono di trattenermi,
di farmi tornare, tenendomi per le maniche e per le spalle.
Sfuggivo, sfuggivo a loro sempre più abile, inafferrabile ombra.
Ma appena il caffè turco col suo odore fu portato, sul vassoio d’ottone
tintinnando,
si perse la loro parola nel sorso inebriante
e sulle loro teste
vibrò azzurro il fumo.
Fumavano.
Ed io m’avvolgevo nei vortici di fumo sempre più oscuri.
E così nascosto nelle nuvole di fumo,
invisibile a tavola con loro stavo seduto.

Allora qualcuno disse:
Come l’aria è soffocante qui, grigia.
Dove sono le finestre, spalanchiamole bene.

Le spalancarono.
Si versò dentro la frescura, agitò vorticosamente le nuvole,
                                                           pizzicò la mia lira,
che nell’angolo taceva appoggiata.
Tutti ascoltavano affascinati quelle voci destate all’improvviso
e vagavano con lo sguardo
cercando parte del mio essere, della mia ombra.

III
Intanto io invisibile e avvolto nel fumo
nell’ultimo vortice la finestra trapassai,
e con slancio impetuoso mi sollevai in alto, sulle cime
da dove si sentivano
scampanìi di serenità, cascate di freschezza, soffi dei giovani salici,
zampogna rugiadosa del pastore.
Lì mi meravigliai delle pecore, come se le vedessi per la prima volta.

Mi era davvero ignoto quel silenzio lanoso.
Volli appoggiarmi ad una pecora,
ma essa affondò
fuggì abissale nella sua lana,
nel centro lanoso.

Non potei raggiungerla, il rigoglio m’intricava.

Oh tosatori, tosate, recidete,
accorciate, spianate la lana,
ch’io giunga alla pecora.
Nell’abisso lanoso odo il suo belato ed il campano.
Per la lana rigonfia di silenzio
verso la pecora salgo, m’arrampico,
alla pecora che a piena voce adesco, chiamo,
per farla uscire dal suo vello.

Per scoprire il cantuccio, per udire la sua fonte
                                                           ingorgogliante,
da cui scaturisce la lana.

Infine la sorgente della lana raggiuinsi, la pecora,
e deposi il bastone.
Con un granello dolce di sale calmai il suo belato
e i suoi occhi ingrossati per spavento.

Lì udìi la sorgente della lana,
più silenziosa del respiro del pane.
Lì le giovani donne non la lasciano solo lanare,
ma le loro secchie pure vogliono colmare.

Chinai la coppa di faggio offertami,
piena di latte
e mi coricai nell’ombra, su una panca fronzuta di noce.

Dove sognavo di sognare,
il gorgoglio della lana in discesa dalle pecore
addormentate.

IV
Oh istante meraviglioso,
accanto alle pecore incoscienti di far scaturire la lana
mentre le filatrici diligenti con le conocchie la pigliano rigonfia
evitando che trabocchi.
E filatala velocemente dalle conocchie l’aggomitolano ai fusi.
E subito si udì il telaio,
sotto lo slancio armonioso delle tessitrici.

Il telaio, il telaio ronzante mi fece addormentare,
mi rese pesanti i sogni, le pieghe sulle braccia.
La nuova biancheria già addosso mi sento, di lino,
e mi stringe l’abito di panno.
Desto quindi mi alzo,
e irriconoscibile, nella nuova veste,
torno alla compagnia,
alla compagnia, che dopo tutto quanto fu scoccato
attendeva ancora il discorso della presenza mia.

Così nella stanza, priva ormai di foschìa e di fumo,
a tavola continuavo,
invisibile, a star seduto con loro.

E qualcuno disse:
Come la stanza all’improvviso s’è riempita di rugiada.
Quasi le pecore
dal fresco vello fossero passate.

E io allora, nascosto, trassi la zampogna dalla cintura,
e appena ebbero udito sul posto, dove non c’era nessuno,
il canto esaltato,
attorcigliato,
dal vuoto librarsi,
dalla zampogna, che da me invisibile spunta,
gridarono tremanti:
Dov’è, cos’è,
dove sono i pastori,
e s’infiammarono di musica e di colpo si misero a strillare
e a ballare,
e nel fervore della danza per le finestre spalancate
                                                           volarono via,
sull’attaccapanni lasciando le cose dimenticate.

(SPEDIZIONI, 1972)1

SPEDIZIONI COSMICHE   (Svemirski pohodi)

 

VII
È quasi una palestra.

dove un ginnasta salta da una spalla
su spalle sempre più alte.

Dalla propria sulle proprie, sempre più.

Da se stesso su se stesso, sulla propria vetta.

Quindi, guardando in basso, trasalisce
invaso dall’orlo ghiacciante.

Così tocca a te scendere da te stesso senza fretta.

Da una spalla all’altra,
da te stesso sempre più in basso,
più vicino al suolo;
fino a raggiungere la tua statura, questa piccola misura
da cui salti a terra e ti slanci nel tuo passo.

E te ne vai per questo mondo fischiettando,
fumando la tua sigaretta d’ogni giorno.

(SPEDIZIONI COSMICHE, 1957)

CASETTE NEL COSMO   (Kućice u svemiru)

 

II
Casette nel cosmo e finestrini.

È orrendo da lì volgere lo sguardo in basso
nell’abisso.

Apri la porta.
Osa scendere dalla tua soglia e alla casetta del vicino
avviarti,
dondolando nel vuoto.

Dietro di te non permangono orme, non tracce di nessuno.

Va’, va’.
Avvicinati, vacilla, brancola.

Nelle braccia del tuo vicino volerai
fioccosamente leggero.

Dalla gioia l’uno scaglierà l’altro in aria.

(CASETTE NELCOSMO, 1957)

ASTRALIE  (Astralije)

XCIV
Questo letargo
come solleva in svolìo
questo spirare,
è qui il bollire d’ogni peso.

A fatica nella concentrazione
mantieni il tuo volto.

Strapieno di te
trabocchi
dal tuo orlo.

(Astralie, 1961)2



* Da leggere in it. Jajze.torna su

1 Stando alle dichiarazioni orali dell’autore, il poema è attribuibile, pertanto, agli anni dell’immediato (secondo) dopoguerra.torna su

2 Si tenga presente che il poeta ha trascorso alcuni decenni a letto, in «posizione astronautica» (cit. sua), immobile di corpo, ma di mente lucidissima.torna su