Alberto Bertoni


“Album feriale” di Maria Pia Quintavalla *

“… Quintavalla, è un poeta che …fa la gioia per chi fa il critico, per chi si occupa di critica e per chi ritiene che una parte di confronto e quindi anche di verità autentica che viene dalla poesia oggi sia legata proprio al dialogo tra chi scrive e chi fa critica; proprio nel momento in cui non ci sono tanti luoghi in cui potere parlare di poesia, credo che il dialogo tra chi la poesia la fa e chi la poesia la legge sia davvero una delle ragioni fondamentali di esistenza stessa del lavoro poetico. Quindi siccome la critica non si può fare, non si può dedicare a fatti e fattori troppo contingenti, ravvicinati, perché la critica naturalmente è l’atto del giudicare e quindi anche l’atto del mettere alla giusta distanza e quindi vuol dire anche disporre i testi, le tradizioni e le carriere degli autori e delle autrici dentro una temporalità la più lunga che sia possibile, laddove invece oggi si è troppo schiacciati su una critica dell’istantaneo, una critica dell’immediato. La stessa polemica Baricco – Ferroni - Citati che è su tutti i giornali, credo che pecchi da entrambe le parti proprio perché al di là dei giudizi che possiamo dare sui singoli individui, sulle ironie eccetera, però pecca da entrambe le parti perché in fondo uno chiede a dei critici che sono anche degli storici in qualche modo della letteratura di intervenire sulla contingenza del suo ultimo libro, della sua ultima scrittura, offendendosi se non l’hanno fatto.

Quindi io credo invece che occorrano le giuste distanze. Maria Pia Quintavalla è, devo dire, la gioia di un critico perché davvero, intanto nasce in un luogo petrarchesco come Parma, e che poi ha tutta una tradizione novecentesca molto alta, che va da Bertolucci all’“Officina Parmigiana”, adesso a Bacchini e altri autori notevoli; poi si è trasferita a Milano e lì lavora a Milano, altro luogo petrarchesco, e lavora a tutto campo nella dimensione della poesia. Oggi il poeta non può più, naturalmente, permettersi la torre d’avorio, non può più permettersi una inappellabilità o una sorta di assoluto della sua parola, ma si rende conto dall’interno che la sua è una parola mediata, e anche una parola di mediazione, e quindi necessariamente una parola che deve rivolgersi a un pubblico e quindi io ho sempre apprezzato molto la sua attività sia come antologizzatrice, sia come ordinatrice dei risultati di un festival importante come “Donne in poesia”, ormai venti anni fa, ma soprattutto ho molto apprezzato la sua attività pedagogica, didattica, come aggiornatrice di docenti e come persona che ha collaborato con le Università milanesi, o comunque con l’Università Statale di Milano, con il Comune di Milano, quindi con certe istituzioni, dialogando quindi con chi fosse interessato alla poesia e creando fior di lettori e lettrici; e poi come autrice, naturalmente, ha una sua altezza, una sua qualità, testimoniata dagli editori stessi che hanno pubblicato i suoi libri, da Campanotto a Empiria, a Piero Manni e adesso, per questo ultimo “Album feriale”, Archinto; quindi sono quegli editori che costituiscono un pochino il nerbo autentico della parola poetica e che garantiscono, insieme a pochi altri, Donzelli, Fazi, da noi Book Editore, garantiscono alla parola poetica di farsi ponte. Una delle immagini che mi è piaciuta di più della poesia che Maria Pia ci ha letto adesso, dedicata al fiume, è proprio quella di stare sul ponte, dello stare a metà tra una riva e l’altra, dello stare sospesa tra la dimensione acquatica e la dimensione quasi automobilistica o comunque meccanica, e quindi della parola poetica di potersi incarnare in un’esperienza di lettura, perché oggi quello che manca alla parola poetica è proprio la possibilità di diventare oggetto autentico di lettura, di attenzione, di ricezione, di scansione.

Introducendo uno di questi libri, quello che io ritenevo più alto, ma sopratutto anche più liminare da un punto di vista della data di uscita, proprio l’anno 2000, introducendolo in questa antologia che ho curato l’anno scorso per Book, “Trent’anni di novecento”, costruita non sulle carriere degli autori ma sui singoli libri, sui singoli testi, ho estrapolato un giudizio di Zanzotto della cui verità – Zanzotto scrive e dedica le sue note critiche, la sua attenzione critica veramente a pochissimi, anzi, tra gli autori attuali e giovani soltanto a Maria Pia Quintavalla, questo è un segno molto preciso, che da uno dei maestri della nostra poesia novecentesca venga, sia ripetuto un gesto di attenzione di approvazione nei confronti dei testi di Maria Pia – ho preso un giudizio e la sua lettura lo ha confermato in pieno; lui, Zanzotto, parlava del “la forza di un ritmo che si impone con la violenza di un essere vitale come primordiale musica che tuttavia include tutti gli stridori dell’oggi”; e credo proprio che, non perché così l’ha detto Zanzotto, ma l’esattezza di questo giudizio sia stata esattamente confermata dalla sua lettura, dal suo modo di leggere, dalla metrica e dall’organizzazione profonda della poesia che ci ha letto stasera, appunto, quella dedicata al fiume.

Proprio perché in lei c’è questo ritmo che diventa facilmente, o proprio si apre, quasi automaticamente al canto; c’è una fluidità qui che proprio imita in qualche modo, ma imita in modo alto nel senso della mimesis platonica, l’andamento e quasi il ritmo profondo del fiume e questa è una cosa che riusciva davvero, tra i nostri grandi, soltanto e soprattutto a Pascoli e a D’Annunzio, cioè i padri della nostra tradizione simbolista. E però in questa pulsione, che è quasi una pulsione vitale nativa, che viene quasi alla penna e alla bocca di Maria Pia quasi come una sorta di naturalezza, che poi è propria dei poeti veri, la naturalezza, la scioltezza, l’andatura, l’andamento del passo poetico che è quello che conta, perché è quello che rimane nell’orecchio non viene trasmesso all’orecchio del lettore, ecco questa fluidità – avete sentito anche, no, con quegli “e” in enjambement, con quei “di” staccati dal proprio sostantivo – viene poi come interrotta, viene poi come sfidata, non violata, non messa alla berlina, non parodizzata come è proprio di tanta avanguardia, e Maria Pia era partita con un libro che apparteneva alla tradizione dell’avanguardia, il “Cantare semplice” delle edizioni “Tam Tam” nell’84, cioè le edizioni fondate da Adriano Spatola e quindi uno dei luoghi proprio della poesia sperimentale, ma non le è mai interessato uno sperimentalismo fine a sé stesso, perché poi alla fine questo ritmo voleva essere raggiungimento dell’altro, voleva essere congiunzione con l’altro, e però, appunto, un ritmo fluido ma con dentro gli stridori. La sospensione a metà del ponte, con certo il fiume, però il fiume è anche un fiume inquinato, quindi non più un fiume nativo, ovviamente qui siamo dentro una tradizione anche archetipica di straordinaria qualità e di straordinaria forza, perché i fiumi diventano tòpoi fondanti della nostra poesia moderna, mi viene da dire proprio da Petrarca che ho già nominato con il sonetto 148 e anche il sonetto 146, ancora più specificatamente dedicato al Po’, del ”Canzoniere”, come elemento vitale, come elemento che porta dentro il suo andare anche verso la propria origine e il proprio scendere verso la foce, quindi il proprio annullarsi nella foce per poi risalire in qualche modo alla sorgente; e poi i fiumi di Ungaretti, cioè la carta di identità, di una tradizione altissima che riesce a riconoscere nello scorrimento del fiume specifico in cui Ungaretti addirittura si bagna, riesce a riconoscere, appunto, le carte d’identità dei fiumi della sua storia; e un pochino accade questo anche nella poesia che abbiamo appena ascoltato.

Ma venendo più nello specifico, e cedendo poi di nuovo la parola alla lettura di Maria Pia e rimanendo a disposizione per domande di qualunque tipo poi ci siano in un eventuale dibattito finale, quello che mi è piaciuto molto in questo libro, che è diviso in tre parti, è proprio anche la radicalità della sua esperienza umana; è una sorta di viaggio, dove se prendiamo anche Dante a parametro, perché c’è tutto un movimento, diciamo, tra la storia e gli affetti domestici e gli affetti e le figure della propria formazione, questo rapporto tra la figlia e il padre è un elemento, un viluppo davvero indimenticabile all’interno di questo testo. Abbiamo una prima parte che è una sorta di parte romanzesca e non a caso poi è cronologicamente l’ultima che ha scritto, una parte che è composta di poco più di dieci poesie, meno di quindici poesie, che è una specie di romanzo, di romanzo anche dell’interiorità, di viaggio, che gioca su due movimenti; a me è piaciuta molto questa dimensione, per questo parlavo delle poesie parmigiane, invitandola dopo a leggerne qualcuna, questa dimensione, da un lato, abbiamo detto, la fluidità del fiume e quindi, appunto, il movimento, il ritmo, la scioltezza; dall’altra parte la capacità di fermarsi sul nodo, sul groviglio – infatti l’altra figura, l’altro tòpos che segue immediatamente quello del fiume è quello della città – sul groviglio, invece appunto, della città come luogo di civilizzazione, ma anche come luogo dove si incontrano e si intrecciano la memoria e la storia. E quindi, ma lo abbiamo già notato quando parla del fiume e parla della sua profondità, della sua capacità quasi di fendere la terra, di scendere in profondità nella terra, quindi di bagnarla, di toccarla nel profondo, c’è questa dimensione: alla dimensione orizzontale dello scorrimento del fiume, quindi alla scioltezza, si oppone, si contrappone, questo movimento come di arresto e di discesa in verticale, nella verticalità appunto della terra – le città, sappiamo bene, sono costruite a strati, l’archeologia la si fa scavando spesso nelle nostre città italiane diversi metri rispetto a quello che è il piano cittadino praticato adesso – e naturalmente è uno scendere anche negli abissi della memoria, della formazione, dei traumi anche infantili e giovanili, una sorta di resa dei conti con questa città, Parma, che è stata abbandonata ma che rimane, evidentemente, un luogo di poesia fondamentale, indimenticabile, con tutto il suo brulicare, con tutto appunto il suo contrasto fra passato e, invece, tempo presente, tempo della modernizzazione. E poi c’è una seconda parte dove Maria Pia comincia a introdurre – questa è un’altra grande lezione io credo necessaria per la poesia contemporanea – comincia a introdurre anche il ritmo, le modalità – sono due parti, la seconda e la terza, scritte in precedenza, sono forse anche una sorta di costruzione molto intelligente e molto a posteriori del libro, non c’è la cronologia del diario, non importano le date di composizione, ma importa appunto la struttura e la tenuta finale e la complessione del libro – dicevo Maria Pia introduce la dimensione della prosa. Io credo che davvero il dialogo con la prosa, già lo aveva detto Montale con una intuizione notevolissima, per cui diceva che la sua ispirazione poetica nasceva, con una bella immagine, dal grande semenzaio della prosa, ecco, ma naturalmente il coraggio vero dei post-montaliani è quello di sperimentarla, di metterla in campo, di farla la prosa, all’interno di un libro di poesia, come in fondo derivava dalla grande lezione di Baudelaire, da “Les fleurs du mal”, e soprattutto del lavoro di Baudelaire anche nella direzione, nella prospettiva, del poème en prose. Una cosa che in Italia non ha avuto grandi effetti, grandi echi: mi piace pensare soprattutto a un autore che a me personalmente è molto caro tra i poeti ancora viventi, anche se della generazione di Zanzotto e non certo di quella di Maria Pia Quintavalla, che è Giampiero Neri, il quale anche lui ha proprio questa parola assoluta, nel senso di parola necessaria, di parola scavata, di parola illuminata: c’è una bellissima frase tratta da Gianni Celati sulla luce, la luce della Via Emilia che introduce tutto il libro e proprio sulla luce come motore, movimento di posizione dei corpi e di scavo dei corpi e di capacità vera di percepire una realtà profonda, una realtà che vada al di là del semplice dato, o memoriale o cronistico, e quindi questa capacità, diciamo così, nelle due parti in prosa, soprattutto in cui la prosa nella seconda dialoga con la poesia, questa capacità di, dare il senso della soglia; non a caso, “Dalla Torretta”, si intitola la prima prosa della seconda parte, e non a caso la terza si intitola “Purgatoriale”.

E allora scopriamo che questo viaggio inaugurato con questa specie di ode, di preghiera anche, al grande fiume, da questa posizione di mezzo su un ponte tra lo scrosciare dell’acqua, il fluire dell’acqua, e il rumore del traffico alle spalle è una realtà purgatoriale; e allora questo è un libro, se volete, di formazione percettiva, di accrescimento percettivo dentro una dimensione purgatoriale nella quale non esistono né l’inferno né la vocazione finale del paradiso; ma rifare un Dante partendo dal Purgatorio, cioè dalla più umana delle sue cantiche, è un’impresa, credo, che fa tremare i polsi, ma che a Maria Pia Quintavalla sta riuscendo, diciamo così, molto spesso perché davvero questo libro si pone in questo momento come vertice di una carriera molto consolidata che ha delle radici, che siano poi radici dentro la grande pianura di Parma o dentro la metropoli di Milano, molto vere, e quindi noi la ascoltiamo e continueremo a leggerla proprio come un punto di riferimento non solo della sua generazione, ma dell’attuale sviluppo della poesia italiana”.

 

 

* (Dalla presentazione in Bologna, Libreria Feltrinelli, 8 marzo 2006, del poemetto “Album feriale”di Maria Pia Quintavalla) torna su