Giorgio Barbaglia


La meta e l'oggetto

La saggia distinzione che Freud introduce tra mete e oggetti sessuali è sempre utile quando si voglia intraprendere un discorso sulle possibilità del soddisfacimento erotico. Ma, in aggiunta a questa articolazione tra la qualità dell’oggetto (intrinseca o fantasticamente attribuitagli che sia) e ciò che con esso o di esso si vuol fare (la meta), la prima cosa che va rilevata è che c’è un terzo importante elemento in gioco, quello del possesso. Il possesso è implicito in una certa misura nella meta, ma non lo è affatto nell’oggetto. La meta è un atto, l’oggetto non lo è. A partire dal proposito di conseguire la meta desiderata si trova facilmente un oggetto da possedere in tal senso; ma, a partire dal desiderio di possedere veramento l’oggetto desiderato, nessuna meta può conseguire lo scopo. Comunemente questo secondo versante viene poco considerato, e un oggetto desiderabile, che sia anche disponibile per una meta, appare come quanto di meglio ci si possa attendere. Per esempio, in presenza di una splendida fanciulla che accetti il rapporto sessuale, la nostra cultura tende a non porre il problema del grado di possedibilità che si offre nella circostanza, perché questo tema risulta automaticamente superato dal fatto che una meta, o addirittura la meta per eccellenza, si prospetti come certa.

La cultura dominata dal luogo comune impone la meta come norma, ma, soprattutto, dà per pacifico che, per possesso, si debba intendere qualcosa di parziale. Per altre culture l’oggetto perfetto del desiderio deve essere anche totalmente possedibile, o quanto più ciò sia possibile. È proprio questo principio della possedibilità, tanto ovvio da essere troppo spesso trascurato, e che comunque oggi è pubblicamente screditato, a legare tra loro oggetto e meta. Infatti l’oggetto può essere posseduto solo in parte attraverso la meta, e la problematica del loro rapporto è piuttosto complessa. La parzialità del possesso è soddisfacente per chi privilegia la meta, insoddisfacente per chi privilegia l’oggetto. La medesima inevitabile frustrazione del melancolico che vorrebbe possedere eroticamente dio e trasforma impropriamente, come dice Ficino, “ciò che spetta alla contemplazione in desiderio di amplesso” si oppone anche al desiderio di possedere totalmente un oggetto terreno. La meta comporta infatti un possesso solo parziale dell’oggetto, e pertanto, se si domanda la meta, si ottiene il possesso dell’oggetto parziale, ovvero di una parte dell’oggetto: si ottiene ciò che si è domandato. Se invece si desidera l’oggetto per possederlo nella sua interezza, si può solo tradurre quest’istanza formulando la domanda della totalità delle mete. E, poiché la contemporanea fruizione di un numero infinito di mete è inattuabile, il desiderio può solo rivolgersi a un possesso di tutte le possibili mete che sia puramente potenziale: questa mera potenzialità è l’unica condizione in grado di soddisfare il desiderio di possedere tutto l’oggetto. Va detto comunque che a quest’illusione di totalità, là dove ne permane possibile l’avvento, si accompagna la più intensa sensazione di godimento (benché si tratti di un piacere preliminare) che l’amante d’oggetto possa conoscere. L’amante della meta invece trasceglie quest’ultima trasversalmente attraverso gli oggetti di volta in volta a disposizione, e considera il loro possesso solo come un mezzo per conseguire l’effettuazione di un certo atto. Accade che per lui gli oggetti siano veicoli di parzialità come per l’altro genere di amante essi lo sono di universalità. In entrambi i casi l’oggetto non viene percepito esattamente per quello che esso è come individualità umana, perché o viene ridotto e sostituito secondo una sineddoche (la parte per il tutto), o viene scavalcato verso un valore generale e ineffabile. Nella prima circostanza agisce il linguaggio nella sua specifica funzione riduttiva e sostitutiva; nella seconda, il rifiuto di questa funzione.

Quando per esempio il linguaggio, attraverso l’automatismo dei suoi luoghi comuni, induce a riferirsi a una donna come a una “fica”, la sineddoche indica come la nominazione di un tutto tramite una parte riveli la connivenza tra la parzialità della meta e quella del linguaggio stesso. L’amante della meta è più “adulto” perché si rivolge all’altro come a una persona autonoma e indipendente da lui, non da possedere in senso proprio, ma con la quale “fare qualcosa” di ben specifico e delimitato. E infatti la sessualità considerata “adulta” per eccellenza, la genitalità, consiste nel proporsi al partner per fare insieme un’altra persona. Tutto ciò passa attraverso il ritagliare, nell’altro, una parte possedibile, ed è il linguaggio simbolico a favorire quest’operazione, che è culturale. Al contrario, gli oggetti dell’altro amante sono essi ritagliati interi, come dalle mani di un bambino, nella carta bianca dell’Assoluto, simili alle figurette, ancor più radicalmente primigenie di quelle di Adamo ed Eva, delle quali parlava Kierkegaard.

L’assoluto di questi oggetti è ancora quello che qualifica l’onnipotenza nei loro confronti da parte del loro fruitore. Essa, come si è detto, non può tradursi in atto se non attraverso il limite della meta, la quale, per quanto possa configurarsi come emblematica, è sempre parziale. Ma il possesso dell’oggetto è meglio rappresentato dalla potenzialità di tutte le mete, versione effettuale dell’onnipotenza. È solo grazie a questo assoluto dominio, a questo sfondo impersonale e metafisico, che l’oggetto si colloca nella fruibilità totale, e si carica di un fascino sconvolgente.

Tempo fa un… ricercatore di oggetti venne arrestato negli Stati Uniti per aver domandato alla persona sbagliata una bambina cui conficcare chiodi nei capezzoli, orinare in bocca e arrecare altre più estreme aggressioni. Come un vero aspirante consumatore, egli si premurava di chiedere ogni volta se ciascuna delle operazioni che indicava fosse possibile. In realtà non intendeva affatto compiere questi atti, conseguire queste mete. Alle abili risposte misuratamente affermative del suo interlocutore telefonico (nientemeno che un agente dell’F.B.I.), egli non poteva che rinnovare la propria domanda di mete sempre più provocatorie e anche tecnicamente improbabili, perché ciò che voleva era ritagliare l’oggetto intero fuori dalla realtà, sapere di poterne fare qualsiasi cosa, essere confortato nell’apprendere che l’assoluto è qualcosa che si può a volte fortunosamente possedere. Come saggiamente ci ricorda Grunberger a proposito della gratificazione dell’onnipotenza narcisica, “’Poter fare’ è l’essenziale, ‘fare’ non serve che a fornirne la ‘prova’.”1 Cosa in effetti avrebbe poi fatto del proprio oggetto è difficile immaginare, perché questo sarebbe dipeso da tutt’altri fattori in gioco, ma quello che è certo è che, una volta consolidato il campo magico in cui l’oggetto appare al tempo stesso irraggiungibile e totalmente soggiogato, qualsiasi meta, anche quella di un bacio o di una carezza, vi diviene estrema, ed estremamente gratificante.

Questa necessità di fruire di un oggetto insieme inaccessibile per sua natura e, di fatto, “alla mercé”, di realizzare insomma il momento critico della “profanazione della bellezza” (Bataille), informa il comportamento stesso dell’amante, costretto ad allontanare talvolta l’oggetto per valorizzarlo e, subito dopo, a costringerlo da presso per possederlo. Egli tenderà così a rendere problematico un impatto che per lui ha valore solo in certe condizioni e dev’essere addirittura evitato e rinviato in altre. Per di più la donna (o chi per essa) si dimostra tanto più raggiungibile quanto meno venga valorizzata; infatti quando sa che, nel concedersi, darebbe di più, si concede di meno. Ancora, invertendo i fattori, essa può giungere a rifiutare di darsi al fine di mantenere e accrescere il proprio valore, il lacaniano “guadagno d’essere”.

C’è un sapiente film di Buñuel, Quell’oscuro oggetto del desiderio, che, intrecciata ad altre intuizioni circa l’erotismo, mette in scena proprio questa verità: l’impossibilità di congiungere l’oggetto con la meta; impossibilità astutamente gestita dalla giovanissima femmina desiderata, Conchita, che sceglie di non concedersi mai all’amante attraverso alcun atto di possesso, e ciò allo scopo di poterglisi continuare a proporre come oggetto totale di desiderio. Quello che vi è di più sottile nella situazione è che Conchita mena per il naso il proprio maturo amante per soddisfare (oltre che per sfruttare) l’esigenza a lui attribuita di disporre dell’intatta totalità dell’oggetto del desiderio.

Comunque tutti coloro che sanno qualcosa di queste faccende concordano nel riconoscere questo meccanismo, già icasticamente espresso da Cesare Pavese (“per ottenere amore tragico ci vuole astuzia. Disgraziatamente, sono proprio gli incapaci di astuzia ad avere sete di amore tragico”): in amore si può ottenere facilmente ciò che si vuole purché l’oggetto non sia valorizzato come totalità, e venga concepito in funzione della meta. È come se una forza misteriosa mirasse a evitare a ogni costo il rischio di un evento troppo intollerabile per il mondo: la congiunzione tra possesso e oggetto totale.

Nella fabula erotica il protagonista è di solito caricato o della valenza di cacciatore di mete o di quella di cacciatore di oggetti. Nel secondo caso è fatalmente destinato alla sconfitta a vantaggio di qualcun altro per il quale l’oggetto in sé conta di meno. Come si verifica, per esempio, in Lolita di Nabokov. E forse non è un caso che sia Pierre Louÿs (l’autore del romanzo che fornisce la trama del film di Buñuel), sia Nabokov, avessero idee chiare circa i connotati dell’“oscuro” oggetto del desiderio.

Se, invece, è agli atti, alle mete, che viene affidato il compito di dimostrare, con i fatti, la conquista dell’assoluto, essi si potranno accavallare all’infinito, come avviene nelle narrazioni di De Sade, senza tuttavia riuscire a raggiungerlo. Quel signore al telefono stava insomma malcautamente estendendo ad altri il contenuto del teatrino della propria coscienza, nel quale personaggi virtuali chiedevano conforto alla realtà per le fantasie di onnipotenza. È possibile possedere realmente, intero, l’oggetto di desiderio? A questa sottostante domanda davano provvisoria veste le domande esplicite, i brutali scandagli, quelle richieste-limite nelle quali il test circa singole possibilità stava, in balìa della sineddoche, al posto di ben altra indagine: “Se ogni meta impossibile si rivelasse possibile, allora lo sarebbe forse anche il possesso di un oggetto costituito appunto dalla potenziale, virtuale illimitatezza delle mete?”.

La fantasia sadica usa un presupposto per le proprie azioni virtuali, e ciò che risulta più difficile da comprendere per i più è che ciò che costituisce il presupposto della fantasia è in verità lo scopo della condotta reale: il possesso incondizionato, totale, dell’oggetto autentico. Inversamente, le azioni reali di un comportamento sadico costituiscono l’inutile sforzo di conseguire l’epifania della verità dell’oggetto. Il legame che pur unisce le fantasie sadiche agli atti di sadismo viene male interpretato come una relazione consequenziale tra progetto e messa in opera. È per via di questo equivoco che la fantasia sadica può essere considerata altrettanto pericolosa di un progetto sadico. In realtà si tratta invece di due opposte direzioni, unite dalla loro inversa simmetria.

È tipico della fantasia sadica il non poter progredire. Essa deve ricominciare sempre da capo, ritornare costantemente a quella rappresentazione preliminare in cui si celebra l’inizio dell’avventura, alla premessa di una collocazione dell’oggetto in condizioni ideali di laboratorio, a quel cosmo magico che rende possibile il totale possesso di ciò che vi viene inserito. Il procedere oltre questi prodromi non aggiunge per essa nulla di essenziale. Al contrario, la direzione di una pratica sadica si volge verso un oggetto da costruire in avanti, indeterminatamente. Una domanda sembra imporsi a questo punto: perché allora le fantasie di De Sade (o, almeno, quelle che egli ci ha partecipato) seguono invece la medesima logica della pratica, e sono unidirezionalmente progressive nel senso di una sempre crescente violenza, nei loro contenuti, verso un oggetto (e non sopra un oggetto) da asservire all’arbitrio dell’atto crudele, riduttivo e mutilante? La ragione è che si tratta di fantasie verbalizzate e scritte, e, per di più, in forma di romanzo, che, conseguentemente, obbediscono alle condizioni dettate dalla prosa. In esse impone la propria legge il linguaggio sostitutivo, che già in sé implica una costrizione dell’oggetto nella meta, una riduzione violenta della totalità ineffabile a quel dicibile che la parola in essa crudelmente ritaglia. E la parola in queste fantasie tende perciò a conferire vita virtuale a un oggetto da costruire, anzi che a riferirsi al fantasma originario di un oggetto già posseduto e perduto insieme, a un punto di riferimento dal quale tornare continuamente a ripartire.

Ma, se la meta è ciò attraverso cui l’oggetto può essere, seppure solo in parte, posseduto; se esso è l’intero, in sé ineffabile, del desiderio, invisibile nella sua nudità, cui le mete prestano a tentoni contorni di “picchetti” per donargli forma e un’illusione di afferrabilità, possiamo intuire facilmente che il rapporto tra questi due termini freudiani ripeta quello dialettico tra lo stato elazionale narcisico e le pulsioni. Il desiderio di possedere l’oggetto può manifestarsi solo attraverso le mete proprio per la medesima ragione per cui, come scrive Grunberger, “Il narcisismo può agire solo attraverso le altre istanze e deve prendere a prestito, per esprimersi, gli strumenti di queste”2e, pertanto, “ha bisogno, per esprimersi, di un supporto pulsionale”3.

Così il possesso parziale dell’oggetto, fabbricato dal linguaggio simbolico, viene conseguito attraverso il supporto della parola sostitutiva e protesa in avanti, del tutto analogo al supporto pulsionale.

L’esempio addotto della prosa sadiana come coincidenza tra la crudeltà dei progetti pratici e la crudeltà dell’arbitrio riduttivo del significante non deve coprire il fatto che ogni narrazione, o esposizione tassonomica, delle possibilità erotiche, tende a tradursi prevalentemente, a causa della natura stessa del simbolico, nel registro delle mete.

Questo vale sia per gli ultimi best-sellers americani circa i modi di soddisfare il partner, sia per l’antico Kâma sûtra indiano, dove comunque non ci si occupa di ciò che l’oggetto è, o dev’essere, ma invece di ciò che esso deve saper fare, o divenire.

In questa sede non ci siamo voluti occupare dell’oggetto in sé, ma solo della problematica del suo possesso. Ci sia consentito però aggiungere che tutti coloro che trovano o cercano il fascino dell’oggetto erotico in modi in cui questo si atteggi, si adorni, si raffini e perfezioni, si adegui sapientemente o ancor più sapientemente conduca il gioco, in una parola scelga di divenire in qualche modo, coprono la tragica impossibilità di raggiungere l’oggetto con il rifiutarsi di sapere che il suo fascino innominabile non risiede nel divenire, ma nell’essere. L’ideale della geisha, dell’oggetto divenuto desiderabile con l’artificiosa acquisizione di qualità che non gli sono inerenti, o addirittura attraverso l’esperienza e il distacco, corrisponde al privilegiamento delle mete.

Il saper essere coincide sempre con il saper fare e con il saper farsi. L’essere, invece, non sa farsi, non si giova del farsi, non è in divenire. Ogni sforzo di divenire essere non può che costituire un ulteriore allontanamento rispetto ad esso; ogni movimento fatto verso un ideale erotico dell’oggetto da parte dell’oggetto stesso è simile all’annaspare controproducente di chi sia caduto nelle sabbie mobili.

Può essere interessante considerare per esempio perché l’indagine che il raffinato e coltissimo dandy degli anni trenta, il giapponese Kuki Shûzô, conduce per cogliere la struttura dell’iki, il peculiare fascino della geisha, non si rivolga mai direttamente alla ricerca di cosa sia in sé l’oggetto erotico del desiderio, ma possa solo attardarsi sui modi, tutti estremamente parziali e labili, del suo apparire e del suo complesso atteggiarsi, del suo prodursi ed elaborarsi in fenomeno culturale4. Prima di giungere a risolvere quest’interrogativo, vogliamo ricordare un altro oggetto del desiderio non considerato in sé, ma per il valore sociale rappreso intorno a esso: quello che René Girard riesce a stento a intravedere, attraverso la fitta aura del desiderio degli altri, come balenìo di civetteria. L’unico dato obiettivo rilevante circa l’oggetto, al quale Kuki Shûzô perviene (e, si noti bene, perviene per via deduttiva) è che la geisha ideale, per aver potuto maturare l’esperienza e il distacco necessari alla migliore gestione dell’iki, ovvero della fitta rete delle mete, dev’essere conseguentemente piuttosto attempata (gli altri due attributi naturali, la snellezza e il capelli scuri, sono infatti riconducibili semplicemente all’etnia).

A parte il fatto che tale conclusione non sembra in linea con il gusto e il pensiero orientali prevalenti in proposito, ciò che è degno di nota qui è che poco importa a questo sottile intenditore che la gheisha sia giovane o vecchia: se essa fosse anche giovanissima, la cosa in sé non lo disturberebbe, purché risultassero preservati in modo riconoscibile i caratteri acquisiti che veramente gli interessano, ovvero i connotati culturali dell’iki. L’età infatti, come altre qualità naturali e psichiche, inerisce all’oggetto, e l’oggetto in sé non lo interessa. Più precisamente ancora, il suo oggetto non può neppure configurarsi come un in sé. A dispetto delle assidue e intime frequentazioni dei maggiori filosofi e pensatori europei, il concetto occidentale di essere gli resta estraneo, ed egli può sorvolare quell’articolazione tra essere e divenire che, per l’amante dell’oggetto, è invece il presupposto della tensione erotica. Egli può ben riconoscere formalmente che l’esperienza del significato è irriducibilmente incommensurabile rispetto alla sua espressione concettuale, ma quest’ammissione resta ben lontana dalla profonda nostalgia occidentale per l’essere, perché già nel concetto di esperienza del significato si protrae un’apparente confusione tra significato e significante che salta ingannevolmente agli occhi fin dalle prime pagine (cfr. “Inutile dire che iki costituisce un significato. La sua presenza in quanto parola è un dato di fatto”)5 ma che costituisce invece il sintomo di un equivoco più sottile. Non molto dissimile da quello in cui incorre l’acculturato Othello shakespeariano, quest’equivoco parte dal presupposto secondo il quale se c’è un significante c’è anche un significato, e viceversa, se significante non c’è, neppure un significato ci può essere. Tale ferma fede primitiva nella virtualità, nel fondamento storico della cultura che fa della dipendenza dell’intellettuale giapponese dalla Tradizione uno strano fenomeno che si potrebbe definire come auto-acculturazione, travolge non solo il dubbio che dal significante decorrano le due possibili esperienze dell’esistenza o della inesistenza del significato, ma anche quello che da esso comunque discendano sia il significato sia la sua assenza.

I significanti possono ben costruire essi stessi modi di essere esistenziali; solo che, appunto, un modo è quello di vivere la fierezza della formula magica del possesso parziale, e altro modo è quello di viverne il disincanto, e la nostalgia per il possesso totale.

Ha ragione probabilmente Kuki Shûzô nel ravvisare in questa auto-acculturazione selvaggia, protesa, senza alcun rimorso o sospetto, verso la sostituzione virtuale, e con alle spalle, invece del fantasma dell’assenza, il passato storico di una consolidata e codificata tradizione di significanti ipostatizzati, una forte caratteristica nazionale, senza riscontro, per esempio, nella saggezza cinese.

Il fatto che l’esistenza del significato venga dedotta dalla presenza del significante fa da supporto a che l’esistenza dell’oggetto venga ridotta alla presenza della meta. Risulta molto significativo, per esempio, il modo in cui il significato dell’iki (l’acculturata civetteria) viene considerato primario rispetto a quello dello yabo (la naturale ingenuità):

 

… Quando vi è una coppia di termini che implica una determinazione di essere culturale – espressa nell’uno in positivo e nell’altro in negativo –, si può formulare un giudizio categorico su quale delle due sia la formazione originaria, e inferire nel contempo un giudizio del loro valore relativo all’interno della sfera comune rappresentata dal loro contenuto semantico (…) Ora, sia iki che sui hanno una connotazione positiva. Yabo invece ha come sinonimi buiki (non iki) e busui (non sui), che hanno una connotazione negativa. In questo modo ci rendiamo conto che iki era l’originale e che yabo si è formato successivamente come suo antonimo; e possiamo nel contempo immaginare che, nella sfera comune dell’essere sessualmente specificato, iki venga giudicato un valore e yabo un disvalore6.

 

Questa, che sarebbe altrimenti una semplice disquisizione filologica, diviene, grazie alla contaminazione tra significante e significato, un’asserzione circa un’obiettiva struttura dell’erotismo. Asserzione che potrebbe trovare in parte la propria legittimazione solo se l’erotismo dell’autore fosse di natura meramente verbale, e non rinviasse a qualcosa di non verbale.
Oggi noi vediamo rispettata in questo discorso la lacaniana priorità del simbolico, e non ci sorprende gran che il fatto che la maschera vi venga considerata primaria rispetto al volto, il trucco antecedente rispetto all’incarnato. Ciò che invece consideriamo come un difetto è la mancata distinzione tra primario e originario, che qui vengono confusi tra loro: l’esemplare parzialità del simbolico non viene fatta annodare all’indietro con la totalità dell’immaginario. Mancano il nodo, il ripiegamento come restituzione dell’origine; e noi sappiamo che l’erotismo si inscrive proprio nel registro dell’immaginario. L’oggetto del desiderio, invece, in questo che pure si presenta come un trattato sul fascino dell’eros, è implacabilmente costruito secondo cultura, mai come resto inattingibile rispetto a essa: non risulta mai attraverso la nostalgia per la totalità assente, bensì sempre attraverso l’opposta direzione di un’eterna rincorsa alla definizione. Esso vuol essere qui un oggetto in permanente costruzione simbolica, ma ciò che l’espressione verbale può inseguire in avanti è sempre solo se stessa. L’autentico approdo erotico del significante è lo yabo, l’insignificanza.
È questa mancanza di profondità prospettica, in direzionalità all’indietro verso l’essere totale come assenza, a fare dell’intera cultura giapponese l’esempio forse più cospicuo di come si possa essere al tempo stesso primitivi e colti, raffinati e selvaggi. E lo scarso credito di cui gode altrove il fascino femminile nipponico, per esempio in confronto a quello tradizionale cinese, dipende probabilmente dal fatto che la geisha, ovvero l’ideale nazionale della femminilità erotica, non dona l’illusione dell’offrirsi totalmente, né sa forse cosa questo possa voler dire, essendo propriamente costruita da un complesso di prestazioni, di adempimenti e di sacrifici (alcuni dei quali anche cruenti, come quello dello shinjûdate)7 che stanno in luogo dell’oggetto, lo coprono, lo sostituiscono, quasi per esorcizzarne la nostalgia. La sua essenza è nel rivestimento culturale frapposto allo sguardo che troverebbe povera e deludente la nudità dell’oggetto “quale esso è”. Si riconosce facilmente in ciò la logica della meta come copertura dell’impossibilità di possedere quello che si desidera veramente, quello che non si può riconoscere di desiderare. La stessa crudeltà sacrificale dello shinjûdate è già implicita in quella della meta, nella quale si compongono spesso due violenze: la prima di esse è quella per la quale l’amante è costretto a ridurre in un atto parziale il possesso dell’oggetto; la seconda è quella che egli tende a infliggere, con valenza compensativa, all’oggetto stesso nel tentativo di caricare di estrema emblematicità la sua parziale presa di possesso.

Ma abbiamo già detto circa la correlazione tra meta, simbolico e progetto sadico. L’esile figura della geisha, gravata del peso delle determinazioni culturali significate da tutti i defunti antenati dell’impero del sol levante, ci suggerisce ora una considerazione sull’inversa simmetria che, abbinandola come alla sua antitesi alla figura della spogliarellista, giunge a propiziare la collocazione dello strip-tease rispetto alle coordinate già tracciate della meta e dell’oggetto.

La spogliarellista mima l’offrire se stessa invece di qualcosa di determinato, come la geisha mima l’offrire qualcosa di determinato invece di se stessa. Ovviamente non sono chiamati in gioco in quest’affermazione i coinvolgimenti reali, ma solo i rispettivi connotati delle due figure erotiche rappresentate. Il nudo verso il quale tende la cerimonia dello strip-tease non è semplicemente la privazione degli abiti, ma, come ben comprende Grunberger, quella degli attributi culturali che rivestono la donna, e che sono percepiti dal maschio come fallici e concorrenziali, come ostacoli e difese opposti alla possedibilità dell’oggetto totale. Pertanto la lenta e progressiva “castrazione” che conduce, nell’istituto dello spogliarello, a questa specifica nudità, procede attraverso l’assenza assoluta delle mete per favorire la potenzialità di tutte le mete, e farla coincidere con la rappresentazione del possesso, illusivo ma totale, proprio perché soltanto potenziale, dell’oggetto del desiderio.

Chi scrive ha avuto occasione di constatare di persona come anche nell’aspettativa del pubblico vi sia consapevolezza della opportunità tecnica di mantenere separati i due registri della potenzialità e degli atti determinati. Alla fine di un numero di spogliarello, in un teatrino milanese, una volta accadde che uno spettatore focoso saltò sul palcoscenico e mise in atto quella che per lui era la conseguente conclusione di un’allettante premessa: il “possedere” la spogliarellista. Il che avvenne infatti, secondo i modi della parzialità; ma la platea, invece di improvvisarsi fruitrice di quest’imprevvisto “fuori spettacolo”, come ci si sarebbe potuti aspettare, protestò unanime e vivacemente contro quest’impertinenza, dimostrando di disapprovare la contaminazione, di non gradire l’intrusione di quest’elemento estraneo, appartenente a un altro ordine nella logica dell’erotismo. La platea, insomma, teneva moltissimo alla conservazione di una spettacolarità frontale che preservasse un’inattingibilità e, attraverso di essa, una totalità; e possedeva anche un forte senso dell’ortodossia, della retta aspettativa che va soddisfatta secondo epistème.

Ma anche la Conchita del film di Buñuel, già citato in precedenza per la sua sapienza, in alternativa al semplice non concedersi all’amante, pratica anche lo spogliarello, come un modo emblematico di offrirsi agli altri mantenendo intero e intatto l’oggetto di desiderio che essa è; e lo spasimante, che in un’occasione si trova casualmente tra gli spettatori, costituisce un elemento di disturbo, un pericolo di cortocircuito tra oggetto e meta. Più esattamente, la sua condizione di pretendente “privilegiato”, paradossalmente lo rende meno autorizzato a fruire della nudità dell’amata, perché egli è portato a trasporla idealmente, più degli altri, dal palcoscenico di una mera spettacolarità, al chiuso di un rapporto a due in cui essa assumerebbe tutt’altro significato, più limitato e concreto. Per garantirgli la totalità dell’oggetto, Conchita non può concedere nulla all’amante. Pertanto, nella cerimonia dello strip-tease che si presenta davanti ai suoi occhi, egli ravvisa giustamente una parodia, o un compendio drammatico, del suo rapporto con la ragazza, in cui non solo è confinato a essere spettatore come gli altri, ma non gli è nemmeno concesso di attingere traguardo alcuno, perché il gioco dell’assoluto comporta che egli venga ogni volta rinviato all’inizio di una sequenza che non può percorrere: il che ripete per l’appunto ciò che avviene per le fantasie sadiche di impossessamento, che devono sempre ricominciare da capo, ossia da un oggetto asservito e tuttavia intoccabile, che si trova alla mercé solo potenziale del loro virtuale protagonista.

Il motivo per cui il personaggio del film si ribella alla situazione e scaccia il pubblico è solo in parte il desiderio di sottrarre la “sua” Conchita agli sguardi altrui. In realtà egli se la prende con una messinscena che costituisce proprio la beffarda riproduzione della quotidiana frustrazione del suo progetto di congiungere l’oggetto alla meta, e rivendica così il proprio diritto a un impossibile atto determinato di possesso indeterminato, essendo questa fatica di Sisifo la condanna inflitta all’uomo per aver voluto tentare di divenire immortale come gli dèi dell’Olimpo.

Il carattere dello strip-tease, che deve sempre ricominciare da capo e non può progredire oltre l’epifania dell’oggetto possedibile, è analogo, oltre che a quello della fantasia sadica, anche a quello del verso poetico, che, in quanto forma del linguaggio della restituzione dell’essere, deve retrocedere, ritorto all’indietro, per poter proseguire.

Il fascino della geisha che, al contrario, si riveste di tutti quei significanti che tendono a definire in termini stabili le mete desiderabili, corrisponde a un ordine di progettualità in cui dimora a pieno diritto la perenne progressione sadica degli atti, del tutto opposta alla direzionalità della fantasia. Comune a entrambi i percorsi è solo la frustrazione dello sforzo di ricomporre la frattura tra oggetto e meta, essere e divenire.

 

Note

 

1 Béla Grunberger, Il narcisismo, Laterza, Roma-Bari 1977, p. 100.torna su

2 Ivi, p. 29.torna su

3 Ivi, p. 158.torna su

4 Kuki Shuzō, La struttura dell’iki, Adelphi, Milano 1992.torna su

5 Ivi, p. 43.torna su

6 Ivi, p. 72.torna su

7 Si tratta di pegni di fedeltà, offerti dalle prostitute all’amato, che comportavano azioni cruente (tagliarsi un dito, per esempio, o procurarsi ferite particolarmente dolorose). Vedi La struttura dell’iki, p. 169.torna su