Giovanni Infelise

L’inutile, il futile, il superfluo
La malattia come archetipo letterario

Indagare il tema della malattia come archetipo letterario, in che cosa consiste tale definizione, implica necessariamente una riflessione preliminare.

Pur volgendo lo sguardo all’etimologia dei termini qui posti, alla loro intercambiabilità semantica, ciò che più ci preme è porre in rilievo la loro ‘assonanza’ non in quanto forma metrica (peraltro qui non rilevabile), ma in quanto forma di concordanza, di parziale identità definita da una connessione logica, di relazione tra contenuti, tra differenze che pure affiorano da un inavvertibile sistema di variazioni dipendenti dal loro uso specifico.

E dunque inutile è ciò che non produce alcun effetto o giovamento. Ogni giudizio su di esso ha normalmente un carattere di individualità o quantomeno di singolarità, frutto di una visione del mondo che non ammette di essere generalizzata. L’inutilità o meno di un qualcosa crediamo sia commisurata alla finalità da raggiungere, ma anche alla coscienza soggettiva dell’evento che accade e, al tempo stesso, all’importanza che quel qualcosa deve poter rivestire per quel soggetto in quella data esperienza per comprendere la quale egli esige che contribuisca ad una conoscenza piena e appagante.

Futile generalmente si dice di ciò che è frivolo, non serio, che può tuttavia riempire a volte la nostra vita fino a banalizzarla e a renderla detestabile. Ciò che giudichiamo non serio, appunto. Ma è sempre così? La malattia, come condizione che si determina anche con il nostro concorso – più o meno consapevole –, può svelare ad esempio la natura morale di una percezione che avverte il ‘non serio’ come un problema e lo rifiuta a priori per una propria inadeguatezza nei confronti di ciò che mina o semplicemente complica il suo equilibrio. Il cambiamento in sostanza può far riconsiderare serio ciò che non lo è, farlo diventare estremamente rilevante in circostanze nuove, di pericolo o di incertezza: la malattia. Ma il ‘male’1è anche ciò che può essere pienamente descritto solo se lo si riconduce ad una asserzione: la vita è un universo fatto di due mondi di cui il ‘sano’ è quello inutile, il ‘malato’ quello futile, il corpo li sostanzia entrambi in ciò che gli appare dell’uno e dell’altro come superfluo.

E allora superfluo si ritiene, in condizioni di equilibrio, solitamente ciò che non è necessario, ma che può diventarlo se quell’equilibrio è infranto da condizioni che si determinano come particolari (disagio psichico o precarietà dello stato di salute in generale). La malattia è uno stato particolare in cui la vita può incorrere e che ci fa rivedere ora in una prospettiva diversa ciò che prima non poteva esserlo perché sganciato da un bisogno incalzante di ‘normalità’, la nostra. Insomma, il cambiamento di una condizione abitualmente riconosciuta e vissuta come ‘naturale’, cioè a dire coerente all’insieme della personalità del soggetto e alla consapevolezza del proprio stato di salute quale egli è abituato, lo induce a proferire un giudizio che normalmente non accetterebbe con uguale immediatezza. Ora le cose assumono un’altra valenza: nulla di ciò che gli appariva superfluo (non necessario) rimane tale di fronte alla malattia, o meglio, estraneo alla malattia che gli ingiunge di attuare un riesame e una ricomprensione del proprio vissuto, in altre parole, lo obbliga ad un esercizio di umiltà che è anche riappacificazione con un senso della vita più ampio e in parte ignoto.

Se pure vi è, a noi pare solo genericamente, un rapporto di somiglianza o di affinità o, se si preferisce, di sinonimia fra i termini in questione in realtà, come abbiamo visto fino a questo punto, esistono delle differenze che se pure impercettibili ne giustificano un loro uso autonomo. Come dire: i termini si somigliano, ma non denotano fino in fondo un’identità condivisibile; tra di loro esiste sì un’ ‘assonanza’ quanto al contenuto che li fa apparire come appartenenti ad una comune radice e che li alimenta simultaneamente, ciononostante si dispiegano nella vita in direzioni diverse. E dunque, analogamente alla forma metrica, l’assonanza qui indagata innanzitutto cos’altro è se non la rispondenza dei soli ‘suoni vocalici’ delle parole che inducono alla ricerca, al loro interno, di un significato nascosto? Ciò che accomuna in fondo gli elementi della nostra interrogazione, è proprio questa corrispondenza armonica di ‘suoni’ in cui si tra-ducono significati in realtà concettualmente differenti tra loro.

Al di sotto di questa corrispondenza, diciamo così, ‘sonora’ esistono quindi delle differenze in relazione alla loro ermeneutica. Differenze che solo l’evocazione e lo sguardo interiore consentono di cogliere: attraverso il ‘suono’ delle parole si risale ai contenuti in esse riposti che vengono così accolti quale fonte imprescindibile per la comprensione piena dell’esperienza, di ciò che della vita trascorsa permane nella memoria come ricordo ‘invisibile’. Ed è su questo ricordo che l’individuo costruisce la sua identità, che recupera i dettagli ‘futili’ (secondo l’accezione leviana) della sua storia che lo rendono riconoscibile. L’assonanza induce dunque all’evocazione, questa rintraccia il ricordo quale dimora di ogni esperienza custodita nella memoria intesa, per ciò stesso, come luogo depositario di quel che fonda l’identità sia umana che intellettuale dell’individuo.

Ma perché archetipo letterario?

Archetipo: sostantivo maschile; dal gr. archétypon, composto del gr. arché ‘principio’ e –tipo ‘esemplare’, ‘modello’. Nella filosofia di Platone, rappresenta il paradigma originario e ideale delle cose sensibili, di quelle cose cioè che si manifestano ai sensi in maniera evidente. Nella dottrina di Jung esso costituisce la rappresentazione, nell’inconscio, di una esperienza comune a tutti gli uomini; è sinonimo di immagine primordiale (prima manifestazione di un fenomeno: l’insorgenza della malattia, per esempio). Per archetipo letterario si intende allora quel modello che trae le sue ragioni da ciò che è originario, dalla memoria sensibile delle cose e che è espressione di una civiltà, di una cultura, di un linguaggio nelle sue forme vecchie e nuove. Modello inteso, in altri termini, come strumento di conoscenza a cui affidarsi, che sa cogliere l’esperienza umana restituendone il significato più profondo, più nascosto (primitivo), allegorico: è il rovescio, il lato in ombra che è il lato interno della vita fatto di assonanze da evocare, di verità da dis-velare, «dove le cose senza avvenire avvengono»2. E queste cose sono quelle «che non hanno alcuna storia, o meglio alcuna forma». Qui siamo «nel mondo della futilità assoluta, che è pesantissima, innocente, grigia spiaggia». Ora, «questa visione della Futilità solenne, naturante, preesistente, inevitabile, fatale, biologica e personale sine persona o soltanto futilmente mascherata da qualche cosa, sta là, appesa come un alveare sciamato». Queste cose «non scompaiono mai dall’interno dell’occhio chiuso, se non durante il sonno»; sostituite «allora dalla futilità dei sogni, da un’altra futilità di segno opposto, tutta immagine e azione e ragione (se tale può dirsi) fuori da una realtà ma tutta fingendola, tutta riempiendola di forme e nomi»3.

Esiste perciò un lato in ombra della nostra esistenza. E la malattia cos’altro ci spinge a farne di questo mondo nascosto, interno, se non l’oggetto di un’interrogazione incalzante, se non l’interlocutore privilegiato che può rendere ragione di una necessità di conoscenza profonda di quella particolare condizione che chiamiamo malattia? L’espressione: «chissà che cosa accade dentro di lui»4denota un interesse che si rivolge a questo interno. «Ma il concetto di “Interno” è nello stesso tempo familiare e misterioso»5. Esso rappresenta il cardine di ogni nostra domanda circa quegli aspetti psicologici che di volta in volta avochiamo nel tentativo di capire ciò che alberga nella mente dell’altro, che cosa si nasconde oltre lo sguardo dell’altro che pure ci è familiare. L’endon tuttavia non ha una sua localizzazione: non sta né dentro né fuori, ma nelle cose prodotte o autoproducentesi. Questa separazione non consente un’osservazione incrociata nel senso che ciò che risulta osservabile lo è solo dal suo punto di vista cioè da quella prospettiva che lo ha generato. Noi osserviamo ciò che esso produce o ha prodotto in termini di immagini, ma non la sua essenza. Osserviamo il suo manifestarsi non ciò che esso è in sé.

L’esperienza che ne ricaviamo è il prospettarsi di un mondo del quale ci stupisce, più di ogni altra cosa, la sua novità e la sua inservibilità. Una novità che nel suo insieme è indescrivibile e al tempo stesso familiare. Un’inservibilità che proprio perché tale non ci toglie dallo scoraggiamento del non sapere che cos’è la malattia, il pensiero che ad essa si accompagna. Tradurre questo pensiero in parole è allora arduo. Ma il ruolo che la nostra vita ha in tale impresa può risultare decisivo nonostante le incertezze, le contraddizioni e le dimenticanze.

Il discorso che la vita interiore, che è vita della memoria, produce ci appare come la duplicazione sbiadita di quella vita vissuta nel mondo dove tutto, o quasi, è finzione e perciò dolorosa attesa. La vita interiore ha un suono flebile per parlare ed una luce tenue per rappresentare ciò che di se stesso l’individuo ha detto e continua a dire tacendo. E «questa effimera vita, questo accenno incerto, questo trepidante, labile accenno di vita, vorrà forse significare che nella possibilità problematica della Futilità c’è anche quella, remotissima, che essa si faccia in qualche modo viva di quella forma improbabile, rara, quasi assurda, che noi usiamo chiamare vita?»6. Certo, in ogni epoca la vita vive dei suoi malesseri, delle sue debolezze, come del resto esemplarmente si apprende dalla novella7di Turgenev circa il personaggio Čulkaturin. Uomo questo tormentosamente riverso sulla propria esistenza che riassume in sé in forma cruciale le ragioni che contraddistinguono gli inetti, gli Oblomov, gli incapaci a vivere, i residenti oscuri del sottosuolo in altre parole: gli uomini superflui, vite superflue che non hanno un luogo da abitare e vagano senza meta. È lo smarrimento di chi avverte come espiazione l’inutilità, la futilità direbbe Levi, ma anche come qualità intima che riconduce all’essenzialità, a ciò che veramente regola o sovverte la vita apparente. «Turgenev aveva semplicemente guardato in se stesso per descrivere questa fragilità»8, il disagio della solitudine e l’abbandono all’inazione quanto più vasta gli appariva la realtà perché potesse in essa attecchire la vita ed essere vissuta pienamente.

Ecco allora che l’archetipo diviene, da motivo personale, motivo universale, forma allegorica di un immaginario con una grande vocazione letteraria. La malattia, in definitiva, si racconta attraverso una forma che conferisce carattere estetico ad un’opera per mezzo della quale sublimare l’empasse in cui la mente scivola dinanzi alla paura per essa, segno inequivocabile di un’accelerazione in avanti, di una riduzione temporale e spaziale della vita dinanzi all’approssimarsi della morte.

L’inutile, il futile, il superfluo sono peculiarità del genere umano da esso mal sopportate, vanificate nella loro portata da un altrettanto mal riposto senso di efficienza che finisce per alimentare un grottesco senso di paura dinanzi all’appressamento della morte.

Quaderno a cancelli, Il diario di un uomo superfluo compendiano (ma lo si potrebbe dire di tutte quelle opere che hanno arricchito sull’argomento la letteratura di ogni tempo) in tutta la loro drammaticità e lucidità il senso stesso della malattia intesa come archetipo letterario. Entrambe appartengono, da un punto di vista esegetico, ad uno stesso universo che il tempo non muta, ognuna però con le sue proprietà evocative, con le sue ‘assonanze’, con i contenuti esistenziali che gli sono propri. Dietro l’urgenza letteraria ognuno vive di ciò che perde e di ciò che acquista, di ciò che vede e di ciò che gli appare. Entrambe le opere creano un vocabolario delle passioni e delle miserie, queste, un insieme idoneo a reggere il peso dell’inettitudine e della sorpresa, del vivere e del non aver vissuto; entrambe lo fanno tenendo conto di un mondo che perviene alla luce come vero e autentico solo attraverso la tenebra, il dolore e la solitudine.

La verità sembra avere qui l’ambizione di potersi pronunciare liberamente, ma solo attraverso l’apparente ‘finzione’ quasi che in tale modo riesca più sopportabile il suo peso e meno severo il suo monito. Così di fronte alla verità della morte tutto appare un’inezia e in un certo senso anche la morte finisce per apparire tale. Ma si fa avanti il dubbio che dietro tale groviglio di emozioni ed astratte divagazioni si nascondano da un lato la paura e lo stupore, dall’altro la consapevolezza che solo l’immobilità della morte dona la piena quiete anche in chi la osserva o ‘ascolta’: «“com’è bello non agitarsi!” Sì, è bello, è bello liberarsi, finalmente, dalla penosa coscienza della vita, dalla sensazione fastidiosa e inquieta dell’esistenza!»9, dagli sfoghi sentimentali giacché questi «sono come la radice di liquirizia: all’inizio la succhi e non ti sembra male, ma poi ti senti in bocca un pessimo sapore»10. In ciò almeno non sussiste alcuna differenza tra un essere umano e l’altro se non per il peso che per l’uno o per l’altro hanno i sentimenti e dunque la vita. Quello che dice Čulkaturin di se stesso, in misura maggiore o minore, crediamo possa essere esteso ad ogni individuo sempre che questi sia disposto a dire il vero, che sappia riconoscere e accettare l’appellativo di «superfluo» con la stessa consapevolezza con cui il personaggio di Turgenev lo fa suo: «superfluo, superfluo… Ho trovato una parola perfetta. Quanto più profondamente penetro in me stesso, quanto più attentamente esamino tutta la mia vita passata, tanto più mi convinco della rigorosa esattezza di questa espressione. Superfluo – precisamente»11. Ma gli uomini «possono essere cattivi, buoni, intelligenti, stupidi, simpatici e antipatici, ma superflui… no»12, uomini in «soprannumero» no proprio perché a volte sono capaci di un gesto di altruismo pari solo al loro mondo così grande eppure infinitamente piccolo da apparirgli sì superfluo, ma libero, tale da meritarsi «lode o biasimo»13.

 

 

Note

 

1Nel senso di ‘ciò che è futile’, di ciò che denota ‘sofferenza fisica’ oltre che ‘morale’ e dunque malattia. Eloquente voce della caducità della vita umana, male habitum (dal latino tardo) con uno slittamento semantico verso il senso di ‘star male’ favorito dall’esempio del corrispondente modo greco kakôs échein.torna su

2C. Levi, Quaderno a cancelli, Torino, Einaudi, 1979, p. 11.torna su

3Ibid.torna su

4P. Johnston, Il mondo interno, Firenze, La nuova Italia, 1998, p. 1.torna su

5Ibid.torna su

6C. Levi, op. cit., p. 43.torna su

7I. S. Turgenev, Il diario di un uomo superfluo, Latina, L’argonauta, 1986.torna su

8L. Satta Boschian, Ottocento russo, Roma, Studium, 1994, p. 250.torna su

9I.S. Turgenev, op cit., p. 4.torna su

10Ibid., p. 11. torna su

11Ibid., p. 13.torna su

12Ibid.torna su

13Epicuro, La felicità, Roma, Newton Compton, 1993, p. 53. torna su