Franco Romaṇ


Il mito, il nuovo mondo, il ponte: riflessioni rapsodiche
sulla trilogia poetica di Alessandro Carrera

Il fascino della trilogia poetica di Alessandro Carrera (La sposa perfetta, Book 1997), L’amore del secolo, (Book 2000), Stella del mattino e della sera, (Il Filo 2006) sta nel dialogo sotterraneo fra due diverse civiltà letterarie: l’antica Grecia (con riferimenti che sconfinano verso tempi ancora più remoti e arcaici) da un lato, la terra d’adozione di Carrera e cioè gli Stati Uniti d’America, dall’altro. Nulla sembrerebbe così distante ma non bisogna mai dimenticare che la poesia e le arti in genere, possono trovare affinità laddove nessuno le vedrebbe finché non si presentano in scena, apparendo addirittura ovvie, una volta che questo accade. Pensando alla poesia statunitense del secolo scorso, per esempio, un’opera del tutto anomala come l’Antologia di Spoon river, che per il suo stile gnostico sembrerebbe giungerci direttamente dal mondo classico, è nata invece proprio nello sterminato midwest statunitense, un luogo anonimo, fatto di villaggi tagliati in due da un’unica strada, sterminati campi di grano, stazioni di servizio (immortalate nelle memorabili pitture di Hopper) e motel.

Carrera, a cavallo di due mondi che gli appartengono profondamente entrambi, sceglie un registro meditativo che, in prima istanza, guarda ai maggiori poeti statunitensi del secolo scorso: Pound in primo luogo (si veda a questi proposito il testo intitolato Una civetta sentenziosa non sa più come uscire dal museo da Stella del mattino e della sera.)1

Nello stesso libro, a poca distanza l’uno dall’altro, due poesie ci danno il senso preciso di cosa significhi il dialogo sotterraneo di cui parlavo in precedenza. Prendiamo come esempio questi due distici. Il primo è l’incipit della poesia Si dispongono all’invocazione:2 

/Padre che ti affermi sulle fonti,/i lumi delle nozze sono accesi./  

Il tono è solenne, sono due endecasillabi dalla forte sonorità, il lessico contiene parole chiave che ci rimandano a un contesto classico, che ci appartiene come europei e va al cuore della nostra tradizione poetica. Il secondo è tratto da una poesia intitolata La sequenza del ginkgo:  

/Se ricordo la sequenza come devo, /Goethe piantò un ginkgo nel cortile/.3

In questo caso il tono diventa improvvisamente colloquiale, anche se la metrica, nella scansione vocale, rimane la stessa del distico precedente. Il registro, però, è quello della conversazione poco impegnata e al tempo stesso affabile: è un timbro ben noto alla poesia inglese e statunitense. Mi ricorda un celebre incipit stevensiano:  

/We drank Mersault and ate lobster Bombay with mango// Bevemmo Mersault e mangiammo aragosta di Bombay con mango/.

Si tratta dell’inizio del quinto canto della terza cantica di Notes toward the Supreme fiction; ma si potrebbe pensare anche a certi passaggi eliotiani nelle opere precedenti la Waste Land. Più si va avanti nella lettura e più questa trama diventa un tentato dialogo, per via poetica, fra l’Europa e gli Usa, mediato non più soltanto dai poeti, ma anche da scienziati e filosofi. Poesia di pensiero, dunque, quella di Carrera, un pensiero fatto di rivoli molteplici e convergenti in un versificare esatto nella scelta dei ritmi e dei toni.

Anche i titoli delle diverse sezioni del libro hanno una loro logica: La stirpe di Narciso. Fantasia sopra l’immagine e il riflesso, gli Argonauti attraccano al porto di New York, La stella del mattino e della sera.  

 

Due Lingue 

In La sposa perfetta, primo libro della trilogia, l’intento di gettare un ponte fra due civiltà poetiche è perentorio ed esplicito, dal momento che si tratta di un testo bilingue (lo stesso procedimento sarà seguito anche per L’amore del secolo, opera in cui l’inglese precede la traduzione italiana). Il gioco è quello di rispecchiarsi, ma rimanda anche a un labirinto di specchi, con i suoi interminabili ghirigori prospettici. Il libro ha una dedica ironica e un esergo che suona come una tenera e ingenua  filastrocca. La prima suona così:  

A F., che era perfetta, /tranne che era già sposata. 

L’esergo, invece, così  recita:  

Amo due donne/ognuna ha le sue ore./Una è nel petto/l’altra nel cuore.  

Se nella dedica l’iniziale del nome richiama una figura femminile che potrebbe anche essere reale, l’esergo ci porta verso un orizzonte più sfumato: le due donne alludono metaforicamente alle due lingue. Il testo iniziale dell’opera, peraltro, parla di un viaggio da un continente all’altro: (Buongiorno, sono il vostro pilota, Good Morning, I Am Your Pilot).4

È tuttavia sul secondo dei testi che vorrei soffermarmi perché ci riporta alla questione della lingua, fin dal titolo, quasi didascalico: Sento i suoni ma non capisco le parole, I Hear the Sounds But I Don’t Understand the Words.5 Vediamone alcuni versi: 

At the bus station/when the loudspeaker crackles something/about my bus/I hear the sound but I don’t understand the words./ 
Alla stazione degli autobus/quando l’altoparlante gracchia qualcosa/sul mio autobus/sento i suoi ma non capisco le parole./ 

Il testo prosegue con una serie d’esempi che reiterano il refrain; solo che il dettato semplice iniziale s’intensifica, diventa complesso perché ci sono casi che sfuggono alla categoria dell’esemplificazione. Così, quando Carrera scrive (alla fine di un lungo elenco che potrebbe persino ricordare – pur nella brevità del dettato – certi passaggi di Whitman), versi come quelli che seguono, il lettore ne è spiazzato: 

/Quando uno mi grida/…  che ho sbagliato tutto/se non amo Gesù/ come lo ama lui/sento i suoni ma non capisco le parole/
When some guys yells at me/… that I got al wrong/if I don’t love Jesus/as he does/I hear the sounds but I don’t understand the words./ 
 

Lo spostamento graduale di senso, prima impercettibile, diventa assai grande. È evidente l’ironia, ma ciò che più conta è che la non comprensione delle parole, in questo caso, assume un significato che va ben oltre la lettera di ciò che sta scritto, l’eco delle allusioni si allarga, arrivando ad abbracciare un campo vasto di sollecitazioni che comprende anche i predicatori che si esprimono dalle pay tv statunitensi e usano spesso toni concitati. Questo modo fatto di piccoli spostamenti che poi dislocano il lettore in un altrove lontano dal punto di partenza, mi ricorda il procedimento seguito da Marianne Moore. Anche la grande poetessa statunitense parte frequentemente da descrizioni di animali, oppure si sofferma su certi loro gesti, che si presentano al lettore in una veste quasi prosaica; poi avviene uno scatto improvviso, oppure un lento slittamento del senso, alla fine del quale l’animale o quei gesti, che sembravano così semplici, e quei versi che sembravano quasi impoetici, diventano altro. Il testo di Carrera, nella sua prosecuzione, ci porta in uno scenario ancora diverso, che la reiterazione del refrain rende ancor più comico e straniante al tempo stesso: 

/Quando vado al drive-throu/e ordino una fetta di pizza/e il ragazzo al microfono mi chiede come va/e se voglio funghi o doppio formaggio/e cosa prendo da bere/e che c’è un’offerta speciale valida/fino alle tre di notte/di ogni secondo venerdì dei mesi dispari/per cui posso prendere due fette e mezza/al prezzo di 2/6 di pizza intera/e che sarebbe sciocco non approfittarne/sento i suoni ma non capisco le parole/
/When I go the the drive-Throu/and I order a slice of pizza/and the boy on the mike asks me how I am doing today/and if I want mushrooms or double cheese/and what I would like to drink/and tells me there is a special offer valid/until 3 a.m./every seocnd friday of the uneven months/so that I can take two slices and a half/al the price of 2/6 of the whole pizza/and that it would be foolish not to take advange of it,/I hear the sounds but I don’t understand the words. 

Anche in questa sequenza, come nella prima citata in precedenza, si comincia in modo del tutto prosaico, secondo il cliché di una conversazione stereotipa che avviene in un non luogo come il drive-throu. Dal verso e che c’è un’offerta speciale valida, però, il senso comincia a vacillare, un capitombolo dietro l’altro, in una caduta comicamente inarrestabile. Viene in mente l’omino di Chaplin alle prese con gli oggetti della vita quotidiana, che cade e si rialza, scatenando le risa del pubblico; ma se la scena si ripete, ecco che il comico di trasforma in tragico. Carrera, abituale frequentatore degli States da lungo tempo, avrà visto certo prima di noi, quei fenomeni di invasione quotidiana di offerte più o meno fantasmagoriche (non le vecchie gite domenicali in corriera con dimostrazione di pentole e ferri da stiro!), ma gestori telefonici che chiamano a tutte le ore per offrire di tutto, produttori di vino, saponette e quant’altro. Il protagonista di questo testo, come il lettore, diventa un uomo soverchiato dalla banalità, dalla sciatteria, dall’ingombro quotidiano di cose inutili! In questa poesia, di cui vedremo poi la conclusione, Carrera costruisce una catena di montaggio del consumo, che sostituisce la vecchia catena della produzione industriale nella fabbrica fordista, così ben rappresentata in Tempi moderni di Chaplin. Il finale ci reca un’altra sorpresa: 

/E quando sento i suoni e non capisco le parole/capisco i suoni e dico sempre sì,/certo ho capito benissimo,/dico sempre sì  al suono dei suoni./ 

Il suono dei suoni è  la poesia. Eravamo partiti da un titolo che si richiamava esplicitamente e dichiaratamente alla difficoltà di traduzione da una lingua all’altra. Passo dopo passo il poeta ci ha trascinati in un lungo viaggio con tutte le sue incongruenze (come avviene anche nel testo immediatamente successivo a questo citato e intitolato Questo non è un cinema, è un aereo) e siamo tornati al linguaggio ma in un altro modo: il sì è al suono, alla poesia, quei non luoghi nonostante tutto, sono meno squallidi di prima, grazie al dettato poetico. Ma non è forse la stessa lezione di Stevens? Non è proprio in Una sera qualunque a New Haven che bisogna fare emergere la poesia e il senso? Troppo facile andarlo a cercare nei luoghi comunemente frequentati dalla poeticità, bisogna andare là dove non va nessuno. Storicamente questa lezione viene da Eliot (con la mediazione di Laforgue), per quanto riguarda la poesia anglo-americana, anche se tale tipo di sguardo rivolto alla città e alla sua caotica mescolanza risale a Baudelaire. Nella poesia italiana del primo ‘900 qualcosa di analogo si trova in Palazzeschi: si pensi, per esempio, a un testo come La passeggiata, di cui si colgono gli elementi di novità linguistica e l’ironia, ma quasi mai la disperante condizione di questi ignavi moderni, che inseguono le insegne della pubblicità e oggi, mutatis mutandis, saltano da un canale televisivo a un altro, da un’offerta pubblicitaria a un’altra, da un telefonino all’altro, da una carta di credito all’altra, per finire in un gorgo che trascina tutti verso il fondo.6 

Due mondi due luoghi 

Immaginiamoci ora idealmente di avere percorso insieme all’autore un pezzo del suo viaggio, l’aereo di cui parla il titolo del secondo testo del libro è atterrato. La sequenza Golfo e silenzio: Nove istantanee dallo stesso luogo, ricorda ancora una volta un procedimento classico della poesia statunitense a cominciare da Whitman: l’elencazione, il catalogo dell’esperienza che nel caso del grande poeta newyorchese aveva molto a che fare con i luoghi. Anche Stevens ama le sequenze, la molteplicità dello sguardo. Carrera ci propone qualcosa di analogo, anche se nei suoi testi sono presenti elementi, la memoria per esempio, assente il più delle volte nei poeti che ho ricordato fra i suoi riferimenti. Cominciamo dall’ultimo testo della sequenza, il nono.    

/Sono tornato a porgere l’ascolto/a una breve emozione che sorprese/la mia tranquilla casa di pensieri./Mi era sembrato di sentir chiamare/non il mio nome ma la mia sostanza/da un’onda che si fece più vicina./Appena alzai lo sguardo e vidi il golfo/e il cielo che cadeva sulle rocce/qualunque lontananza si confuse/e il mondo si versò come da un vaso./Allora non ci furono parole/Adesso che le scrivo sono un’onda/l’altra onda che cancellò la prima.

I have come back to listen/to the passing emotion that surprised/the domestica realm of my thoughts./It seemd to me somebody called/I mean my substance, not just my name,/from a wave suddenly upon me./When i raised my eyes and saw the gulf/and the sky that was leaning on the rocks,/every distance seemed to wane,/and the world began to pour down from a vase./Not a word was spoken then./Now that i am writing, words are waves: other waves, erasing the first./ 7 

L’incedere di questi versi ci riporta a quel tono solenne e classico, esemplificato dal testo appartenente a Stella del mattino e della sera, di cui si è parlato in precedenza. L’immagine del mondo che si versa da un vaso, però, è modernissima; potrebbe stare in un quadro di Magritte o di Dalì. Il distico finale allude alla scrittura poetica e al suo paradosso: quando l’esperienza tracima e ci travolge, l’emozione non può essere espressa con la parola, ma con il silenzio. L’immagine dell’onda che non lascia scampo e a cui non si può resistere, si replica nella scrittura, ma il suo darsi è a sua volta un’onda che cancella la prima. Tuttavia, è solo nella parola che si possono fondere i due momenti, quello dell’esperienza e della distanza e infatti il verso capitale di questa sequenza è almeno per me, Adesso che scrivo sono un’onda. È solo l’onda della scrittura poetica che, esprimendo l’emozione in uno stile, la rappresenta. Per arrivare a questo esito, tuttavia, l’identificazione fra il poeta e l’esperienza deve essere totale: egli diventa l’onda di cui parla e scrive, ma solo perché c’è già stata una ‘prima volta’ o una prima onda di cui si è fatta esperienza. Ancora una volta il pensiero corre a un canto stevensiano e precisamente al tredicesimo della terza cantica di Note sulla finzione suprema. In esso, di cui ho già ricordato l’inizio in precedenza, il protagonista è il canonico Aspirina, il quale, alla fine di una serata conviviale, da bon vivant si direbbe, se ne torna al silenzio della casa. Medita e si abbandona al pensiero, al flusso di ciò che la mente gli porta come immagine o rappresentazione. L’intensificazione di questa esperienza lo porta al limite della razionalità, oltre il quale si presenta la visione:

/So that he was the ascending wings he saw/ And moved on them in orbits’ outer stars/Descending to the children’s bed, on which/They lay. Forth then with huge pathetic force/ Straight to the utmost crown of night he flew./The nothingness was a nakedness, a point/ Beyond which thought could not progress as thought./ (Così egli divenne le ali stesse ascendenti che vedeva/ Muovendosi sopra di esse nelle orbite lontane delle stelle./Discendendo al letto dei bambini, dove essi/ giacciono. Poi con sontuosa e patetica forza/Volò direttamente verso la più estrema corona della notte./Il niente era una nudità, un punto/ Oltre il quale il pensiero non può progredire in quanto tale./ (traduzione mia)
 

Il canonico Aspirina diventa le ali stesse della sua ascensione, che è a tempo stesso visione. Naturalmente l’onda è, sia concettualmente sia sul piano dell’esperienza empirica, qualcosa di diverso rispetto al moto ascensionale ai cieli del canonico, ma la visione di poetica che sottende i due testi è simile: solo l’identificazione del poeta con l’oggetto della sua stessa esperienza compie la trasformazione alchemica evocata da Stevens nel nome (apparentemente solo ironico) del canonico Aspirina. L’aspirina, nel suo effetto di acido e di effervescenza, rimanda a uno stato alterato di coscienza, seppure tenue e non titanico come poteva essere per i romantici. Carrera, a differenza di Stevens non usa l’espediente della maschera di cui si serve il poeta statunitense e che è molto comune nella poesia anglo-americana del secolo scorso (si pensi al Prufrock eliotiano, ad altre dramatis personae stevensiane e specialmente a Hugh Selwyn Mauberly di Ezra Pound)), forse perché ormai abusato, in definitiva; ma analoga è la visone della lingua poetica come terzium datur.
Tuttavia, anche nelle modalità  con cui si giunge a questa stanza finale – da considerare, fra l’altro, anche una dichiarazione di poetica in versi – possiamo riscontrare altri importanti indizi sul modo di procedere della poesia di Carrera. Non dimentichiamo che ciò che si osserva ora è un golfo. Il viaggio per aria, che aveva inaugurato il libro è diventato un viaggio per acqua. Il golfo sembra essere per il poeta il luogo in cui si manifesta il silenzio e la sua necessità:  

…/Il silenzio si fa avanti, si presenta/si fa moltiplicare dalle onde/…
…/silence comes forward, multiplied in waves/…
 

Nella seconda sequenza il silenzio di rivolge direttamente al poeta: 

/”Se mi cerchi ti sembra di vedermi/nell’orecchino giallo dell’onda che ritira/le sue chincaglierie di schiuma./Ma io sono un poco più nascosto,/nella cresta delle nocche dell’altura/sparse lungo la barriera che s’increspa/e che cade sui giardini del risucchio./Se mi tocchi grondo essenze a me straniere,/se mi senti non mi hai mai sentito.”/
The silence:
“If you look for mem you may see me/in the yellow earrings of the wave/withdrawing its foamy trunkets./But me, I am secluded/on the ridge of the offshore knuckles,/scattered along the rippplking barrier,/fslling on the gardens of the undertow./If you touch me I drip a foreign essence,/if you hear ne, you never heard me.”/ 8 

L’ossimoro finale, crea un corto circuito logico e ci propone lo stesso paradosso che abbiamo visto nella nona sezione della sequenza. Il silenzio è necessario ma la sua esperienza estrema ci è preclusa: solo trasformandolo in qualcosa d’altro possiamo servircene utilmente. Trovo in questo passaggio una eco Zen, un’allusione alla concezione del silenzio e del vuoto come si danno in quella filosofia. Nel prosieguo della sequenza il mosaico diviene ancora più complesso. Così nella terza sezione il poeta ritorna a una meditazione che affonda le radici nella cultura classica. La vista di un luogo al tramonto diviene il pretesto per un excursus vertiginoso: 

La cima del tramonto è una fontana/di fiamme limate come ferro, erose/dal vetro sminuzzato, salito/tutto il giorno dai vapori della sabbia./Ho al polso un anello di rame/forgiato nel sole otto minuti fa./Assisto in queste catene/al modesto spettacolo della mia ombra./

The peak of sunset is a fountain/of iron-filed flsmes, eroded/by the crumbled gras that lingers/al dauy long over the swirling sand./On my wrist a copper bracelet/forged in the sun eight minutes ago./In these chains I attend/my shadow’s modest show/ 9

Gli otto minuti sono il tempo che la luce solare impiega per giungere alla terra: il tramonto, luogo del poetichese per eccellenza, viene qui trasfigurato ed elevato a simbolo di un vincolo che tiene prigioniero l’umano. La caverna platonica entra in scena nei versi successivi e la poesia si conclude con un dialogo fra il poeta e Tommaso d’Aquino: 

Il sole continua a calare gli dico.”/”Non possiamo più adeguarci/all’ombra che ci spetta. Nella vetta del tramonto/la verità dei nostri sensi sfrigola/,/è una goccia di latte sulla stufa.”  

Nel suo mondo d’elezione Carrera, lo abbiamo ormai capito, porta con sé tutto il bagaglio della sua cultura classica e lo mette alla prova. Di alcune ampie sequenze del libro, infatti, sono protagonisti personaggi illustri e lo stesso accade in Stella del mattino e della sera, il terzo libro della trilogia, sul quale presto ritorneremo. L’effetto è talvolta tenero, talvolta ironico e addirittura comico. Alcuni esempi. Dalla sequenza L’arrivo di Ulisse in California, ecco alcuni titoli: 

Per la prima volta da quando è venuto in America a fare un po’  di soldi, Ulisse prova una sensazione curiosa a Van Hom, Texas. VIII. Al confine tra lo Utah e il Nevada, Ulisse scambia un angelo per un cowboy. IX. Ulisse incontra Andy Warhol nell’Ade, il cui ingresso si trova nella Valle della Morte. Ulisse fa a gara di ricordi con un veterano delVietnam.

L’amore del secolo

Il titolo del secondo libro della trilogia L’amore del secolo, Un paesaggio verbale ci propone uno scenario che sembra in apparenza diverso rispetto al primo libro: rimane tuttavia la vistosa presenza delle due lingue a costituire un robusto anello di congiunzione. Carrera, nella breve nota introduttiva, definisce il libro «un’installazione di poesia» e afferma che gli piacerebbe vedere questi testi esposti in una galleria d’arte, come se fossero dei quadri. In effetti, la caratteristica di quest’opera ha molti aspetti che ricordano la pittura. Sempre l’autore, nella nota, spiega che si tratta di mille righe, disseminate in cento poesie brevi, una per ogni anno: da qui il titolo. Potrebbero essere davvero cento tavole illustrate, piccoli quadri o guaches che, insieme, formano una sequenza più o meno ordinata. Tuttavia, la presenza nelle poesie di personaggi dai nomi assai vistosi, ci portano anche al teatro. Alla fine del testo l’autore li indica tutti, proprio come si fa in un testo teatrale: Dio Chiacchierone, Dio che chiama, Primo Uomo, Prima Donna, Donna Trasformata, Coyote. Sono figure che appartengono tutte al pantheon Navajo e popolano i miti amerindi. La Sposa e il Nonno, invece, appartengono al pantheon personale dell’autore.

L’amore del secolo, è un testo che si presta alla messa in scena teatrale e anche a una lettura rapsodica invece che in sequenza, come avverte lo stesso autore. Il tema amoroso diventa in questo libro allegoria, nel senso proprio del termine: per la concatenazione di rimandi e metafore, perché va oltre l’oggetto amoroso in senso stretto per abbracciare un campo vasto di esperienze. Vorrei dire che c’è un amore per la vita e per l’esperienza, una capacità di accogliere senza giudicare, anche quando si avverte (specialmente in certi testi come ad esempio il n.6 di pagina 18 e 19), quanto sia dolorosa l’esperienza che fa da retroscena al testo. In questo libro, s’intrecciano infatti motivi squisitamente personali con l’incontro con la vita, l’affacciarsi al mondo fra meraviglia e sgomento. In Portrait of an Artist as a Young God (Ritratto di Artista da Giovane Dio), i richiami letterari e al tempo stesso ironici presenti nel titolo, vengono quasi smentiti dal dettato del testo:

Here’s his father, die and change,/a dark and rangigng wonder, embarking// on an avenging journay to become/finally his own father/by means of a ragged facsimile./…
Questo è suo padre, muori e diventa,/una buia spaziante meraviglia che si imbarca// in un viaggio di vendetta/a farsi padre di se stesso/grazie a un facsimile piuttosto rabberciato.!…10

Muori e diventa, un celeberrimo frammento di Goethe 11 indica qui uno scenario d’abbandono, oppure (il che è lo stesso), la necessità prima o poi di diventare padri di se stessi, con la fatica che tutto questo comporta.

Il libro, forse il più  complesso dei tre e difficile da seguire in tutte le sue molteplici sfaccettature, si apre a un excursus ampio, poematico al di là della brevità dei testi che lo compongono, che attraversa natura e cultura, si sofferma nei luoghi e indugia sugli incontri, spazia fra riferimenti filosofici (la caverna platonica già comparsa in un testo precedente, Parmenide e molto altro). Il libro è dunque un viaggio nel quale s’intrecciano motivi personali che diventano via via un affresco sull’incontro fra soggettività e mondo. Sono molti i testi emblematici di questo libro, alcuni nel finale delineano il bilancio di una vita, diventano dialogo con quei personaggi del mito amerindo, così affascinanti proprio perché portatori di un modo di stare al mondo così diverso dal nostro. Così nella poesia numero 96 sembra che il giovane artista che si era rappresentato come dio, voglia abbandonarsi a quella saggezza altra che Coyote incarna: 

Mi ricordo eri un Giovane Dio, disse Coyote, così/calmo e silenzioso. Adesso mi dicono che metti insieme/rime rumorose, come a sfidare i limiti di ciò che è conoscibile.// Sembra che sia arrivato il momento dell’inconoscibilità, disse lui.//
You used to be a Young God, Coyote said, and I remember/you were silent and calm. Now I hear that you make noisy/rhymes, challenging the boundary of ehat is knowable.// Seems that unknowability is coming to age, he said

Il tono colloquiale non deve trarre in inganno: seppure simile nella forma ad altri incipit, esso nasconde – in questo contesto – un sostrato drammatico. È in gioco il bilancio di un’esperienza, addirittura di un’intera vita o di un secolo, il ‘900 che finisce (non dimentichiamo che il libro è del 2000), con tutto il suo carico di ricchezze, contraddizioni, guerre, lutti di ogni genere. 

/A te non piace l’idea, disse Coyote, che in questo/universo ci siano cose che tu non potrai mai capire.//
/You don’t like the idea, Coyote said, that there/are things in this universe way beyond your grasp.//

Il nocciolo del problema viene qui toccato in modo semplice e sintetico: il logos occidentale, la filosofia, la sfida della comprensione razionale del mondo qui incontra l’altro in una conversazione che è tuttavia pacata, accogliente, seppure dubitativa.  

/Sto cercando l’eco del mio primo ricordo/oltre il quale il passato è davvero perduto// Quanti particolari sei disposto a trascurare, chiese Coyote.// Riportami indietro, disse lui. Più indietro, più indietro che puoi…/ 

/I’m looking for the echo of my first memory/beyond which my past is irretrievably lost.// How much detail can you leave out? Asked Coyote.// Take me back, he said, way back, way way back…11

La chiusa non offre risposte definitive, ma una traccia di grande importanza la suggerisce: è  la memoria a salvarci, la capacità di riannodare tutti i fili, fino al primo ricordo. Non l’abbandono della tensione a comprendere, ma la necessità di ritornare costantemente alle radici, che le culture originarie della terra possono insegnarci a praticare. È l’ennesimo ponte gettato fra i due mondi, ma è anche un modo di salvare la memoria di popoli originari verso i quali la società occidentale si è macchiata di crimini, fino al genocidio. In un testo successivo, Coyote, cui il dialogante occidentale si rivolge, mostrandogli quello che lui chiama il mondo, così risponde: 

Il mondo?, chiese Coyote guardando in su./Questo non è un mondo. Al massimo una riserva.// The world?; asked Coyote, looking up./This is no world. I would call it a rez./ 12

 La stella del mattino e della sera

L’ultimo libro della trilogia è un testo in italiano, nel quale ritornano tutti i temi cari all’autore, per una sintesi e un approfondimento insieme. Ritornano anche tutti i riferimenti a Pound, Eliot e Stevens, che abbiamo visto disseminati anche negli altri due libri. I titoli rimandano ancora una volta al mito e all’Europa: il ponte gettato fra i due mondi è rappresentato dalla nave degli Argonauti che approdano a New York, nella quale si può cogliere un lontano riferimento alla leggenda del Mayflower. La città atlantica però rappresenta qui la capitale dell’intero Occidente. Altri titoli come La sequenza del ginkgo, Schegge sul muro. Intercalate da una seduzione, Suite per Victoria, rimandano a un registro più colloquiale o informale. La sezione Bravo mondo nuovo, italianizza ironicamente il titolo del famoso romanzo di Huxley. Per ultima La ricerca della visione, un lungo testo in prosa, fatto di brevissime frasi. Vorrei iniziare da una poesia che si trova nella sezione intitolata Gli Argonauti attraccano al porto di New York. Il testo in questione è il terzo della sezione e s’intitola Performance

Poi la radio si evolse in una fase superiore/e la tecnica FM mise piede nell’ignoto./Bastava in digit, un impulso, un bip,/d’antenne simultanee, congiura di atmosfere// 

Si allude qui alle trasformazioni tecnologiche di un secolo, il ‘900, nella prima parte del quale la radio – invenzione europea – era la meraviglia, insieme al cinema; altra invenzione europea. Entrambe però trovano negli States l’humus ideale per quello sviluppo gigantesco di cui oggi conosciamo le ultime frontiere. Carrera ripercorre queste tappe, che implicano anche un certo modo più spregiudicato di considerare la libertà individuale.  

Ci agganciammo a una stazione cittadina e in capo/a un istante raggiungemmo milioni d noi stessi./In qualche luogo su migliaia di muraglie,/ragazzi ci ascoltavano schioccando le mascelle// e di commerci di sesso in limousine discrete/guidate da muti chaffeur non c’era davvero/più bisogno. “Basta con quelle luci del cazzo!”/

Gridammo immersi in quaranta rumoroidi.// Orfeo, Tifi, Giasone, qua fra ragazze accidentali,/pesci verticali, forme di vita in divenire, centosette/stanze cieche, molte artistoidi bruciature,/cancri perduti dei nostri polmoni, puttanella// e sigaretta, occhi che schizzano, pelle che esplode,/stanche dell’Egitto e delle Pizie di campagna,/

Il ritorno delle grandi figure del mito, a contatto con il Nuovo Mondo, creano un chiasmo, un cortocircuito. Gli strumenti della tecnologia sovrastano quelli della mitologia, ma ne creano anche una nuova.L’accumulo d’immagini e d’esperienze, espresso da una versificazione dal ritmo vertiginoso e scandito dal doppio settenario, danno alla sequenza la velocità della trasmissione radiofonica ma anche di quella cinematografica. I comportamenti si diffondono e mutano con la velocità del suono: 

…/e neanche a pensare di dormire, collezioni di moda/in televendita aggravarono la nostra sensazione/che il progetto di frizione interattiva/avesse in qualche modo fatto fiasco. Mezz’ora dopo// tutti a far telefonate, nomi a caso dall’elenco/…13

La realtà virtuale si affaccia nel finale del testo, insieme alla musica, vero collante e colonna sonora di almeno due generazioni: da Woodstock all’ascolto via internet. In questa poesia regna la stessa atmosfera che albergava in Sento i suoni ma non capisco le parole solo che in questo secondo caso, il ritmo diventa concitato. C’è forse anche una resa delle figure del mito classico al rutilante grand guignol, al fervore inarrestabile che nasconde appena anche un certo disincanto. Non sono passati soltanto gli anni e le figure del mito, messe alla prova, si rivelano fragili, si lasciano catturare dalle seduzioni del nuovo mondo, continuano a esserci ma depotenziate. Del resto era già evidente nel libro precedente, dove Ulisse, la rappresentazione forse più grande del mondo classico greco, si trovava in evidenti difficoltà alle prese con cow boy e angeli, reduci dal Vietnam e altro. 

La suite per Victoria è una lunga sequenza. Nella prima parte, un testo dal titolo Lo stato quantico, (diviso a sua volta in due parti) riprende i temi già esplorati in Performance, ma in modo più riflessivo: 

/Misurato, lo stato quantico collassa./La velocità della luce ha messo un tappo/all’invio di informazioni su e giù per l’universo,// Ogni sistema matematico appena potente/contiene proposizioni che nei suoi limiti/non si possono provare vere o false.// 14

L’eccesso tecnologico, la quantità di informazioni portano al caos, all’entropia: l’ordine si dissolve con effetti a valanga. L’efficacissimo uso del linguaggio scientifico, ci porta in un mondo straniato, dove, come nel secondo testo della sequenza, gli individui sono diventati particelle che si consumano come il vecchio linoleum di cucina. Questa capacità di unire rapidamente in poche sequenze di versi l’astratto al concreto, crea un continuo corto circuito in chi legge, con un effetto di moltiplicazione delle immagini. 

Nell’ultima parte del libro, intitolata La ricerca della visione, il testo si fa prosastico: sono brevi sentenze concatenate, l’influenza del cinema e della fotografia sono evidenti; potrebbero esser brevi scatti o sequenze di un montaggio. Si tratta di un viaggio che dovrebbe avere come luogo d’esplorazione gli Stati Uniti; ma tutto sembra avvenire per gioco, come se ci si trovasse a Disneyland (peraltro evocata esplicitamente: “Al viaggiatore venne in mente un’attrazione vista a Disneyland.” pag. 107). È l’artificioso il tema di questo enigmatico testo finale? Forse, ma anche in esso il poeta c’invita a cercare lo stesso la visione possibile, a immaginare un futuro diverso e i versi conclusivi sembrano suggerire una riconciliazione ironica anche con gli aspetti più artificiali della realtà americana. Del resto il tema della ricerca della visione in un luogo simile, rimanda alla necessità di cercare il poetico nel mezzo dell’impoetico, di cui si è già parlato. Al tempo stesso quest’ultima parte edifica l’ennesimo ponte che da oltre Atlantico ci riporta in Europa, a Milano addirittura:  

Anche il viaggiatore è costretto a proseguire. E invece vorrebbe fermarsi in mezzo all’autostrada a sentire sotto i piedi il centro dell’America, come quando, da bambino, suo padre lo accompagnava sul mosaico fatto a croce in Galleria, che si dice sia il centro di Milano, e portava fortuna calpestare. 15

Del resto era così anche nei versi finali di Sento i suoni ma non capisco le parole. Quella necessità  di dire sì al suono dei suoni e dunque alla poesia, qui trova una rappresentazione scenica, tenera (perché legata a un ricordo infantile) e profonda al tempo stesso. Il mondo, la realtà, i suoni dell’universo sono isomorfi, si è sempre al centro sia nel microcosmo come nel macrocosmo. Una realtà come Milano, provinciale se paragonata ai grandi States, sta nel centro del mondo come New York.

Ancora una volta il pensiero corre a Stevens, a un verso singolare in cui la realtà viene paragonata a Bergamo in
La lingua, il ritmo, il verso

In quanto scritto, fino ad ora, mi sono tenuto discretamente lontano da notazioni stilistiche troppo tecniche, o interventi sui diversi registri e linguaggi che permeano i tre libri; se non per qualche breve accenno. Credo sia però  inevitabile, alla fine di questo percorso, fare alcune osservazioni sulla versificazione di Carrera e su quello che la trilogia rappresenta da questo punto di vista e da quello della sua struttura. Partirei proprio da quest’ultima, rimarcando l’evidente poematicità di questi libri: ciascuno di essi è un poema, e insieme – a loro volta – costituiscono un poema più grande. Non tragga in inganno la presenza di testi rigorosamente chiusi e brevi (specialmente in L’amore del secolo), perché anche in esso e, pur potendoli leggere in un ordine casuale, i personaggi, la trama, la tessitura, i rimandi continui a situazioni e figure che ritornano anche negli altri due libri, fanno di questo lavoro un’opera unica. La trilogia è un ampio poema moderno, che risente fortemente delle innovazioni che la poesia anglo-americana ha apportato durante tutto il ‘900, ma che non rinuncia ad alcuna delle caratteristiche tipiche di una poema. Vi sono passaggi squisitamente epici, altri più legati al mito, ampi squarci lirici, una struttura aperta che la ricorrenza dei temi rende però compatta.

Un seconda riflessione riguarda l’uso di registri diversi, non solo come passaggio dallo stile alto e solenne a quello informale e colloquiale; ma anche nella capacità  di usare i linguaggi specialistici (in primis quello scientifico e filosofico), piegandoli alle ragioni della poesia. La competenza con cui questi prelievi vengono fatti, dimostrano la vasta cultura dell’autore, ma rimettono in circolo anche un’idea di poesia e di poeta come intellettuale a tutto campo e non uno specialista del linguaggio. Il poeta, mi verrebbe da dire, prima che abitare il linguaggio abita il mondo e questo mi sembra il riferimento primario di questi libri.

Infine una riflessione ulteriore richiede la versificazione. Ho richiamato più volte la metafora del ponte fra le due lingue e le due culture, a proposito dei temi ma anche dei richiami evidenti sia alla poesia classica europea, sia ai maggiori poeti anglo-statunitensi. Come si riflette questo nella metrica, usata, nelle strutture poetiche in atto? Trovo in questi tre libri una felice e originale capacità di sintesi fra i metri della poesia anglo-americana e quelli della nostra migliore tradizione novecentesca: il doppio settenario di Gozzano, replicato nel Pavese dei Mari del sud e in generale di tutta l’opera Lavorare stanca; ma anche il Pasolini più poematico. La distribuzione fra i tre libri è ovviamente diversa, prima di tutto perché il terzo è scritto soltanto in lingua italiana. In L’amore del secolo (Love of the century), prevale nel testo inglese l’uso del blank verse, che non è esattamente l’equivalente dell’endecasillabo italiano. Nella traduzione italiana prevale il doppio settenario, il cui unico grande esempio dopo Gozzano è ancora una volta Pavese. In Stella del mattino e della sera il verso lungo whitmaniano prevale, arrivando fino alla prosa; sebbene vi siano testi dove la metrica è più tradizionale. La varietà dei ritmi e dei metri risente certamente anche del jazz, di cui Carrera è profondo conoscitore.

Tutto questo fa della poesia di questi tre libri, opere che non hanno un riscontro nella poesia italiana contemporanea; una volta tanto, però, l’originalità non si presenta qui come un insieme di ‘trovate’ più o meno riuscite, ma risponde a una necessità che è interna alle modalità con cui la poesia e la poetica di Carrera si costruiscono, ma che ritengo anche ancorata in un profondo sentimento di appartenenza ad entrambe le culture e alla tensione drammatica che sorregge questa ricerca di sintesi, o almeno di dialogo. Sulla possibilità di questo a lungo termine sono meno ottimista di Carrera, ma ciò che qui conta è la capacità di aver creato un circolo virtuoso fra idealità, cultura,17 forma poetica, linguaggio: alla poesia degna di questo nome non si può chiedere di più e di meglio.  

Note

1 Alessandro Carrera, La stella del mattino e della sera, Il Filo, Roma 2006, p. 61.
2 Op. p. 22.
3 Op. cit. p. 24.
4 Alessandro Carrera, La sposa perfetta, The perfect bride, Book editore, 1997, p. 10.
5 Op. cit. p. 12 e seguenti.
6 Paolo Febbraro, nel libro La tradizione di Palazzeschi, Alberto Gaffi editore, Roma 2007, dedica proprio alla poesia La Passeggiata un’ampia analisi del testo, sottolineandone proprio gli aspetti più profondamente legati alla tradizione, fino a Dante, piuttosto che quelli più legati agli ‘umori del suo tempo’.
7 Op. cit. pp. 51-52.
8 Op. cit. pp. 38-39.
9 Op. cit. pp. 40-41.
10 Alessandro Carrera, L’amore del secolo, Love of the Century, Book editore, pp. 34-35
11 Mi riferisco a due celeberrime poesie del poeta tedesco. La prima appartiene al Divano Occidentale Orientale, la seconda, intitolata Über den gipfeln ist ruh in Notturno.
12 Alessandro Carrera, L’amore del secolo, pp. 116-117.
13 Op. cit. pp. 180-181.
14 Alessandro Carrera, La stella del mattino e della sera, Il Filo, Roma 2006, pp. 37-38.
15 Op.cit. p. 99.
16 Op. cit. p. 114.
17 Wallace Stevens, Una sera Qualunque a New Haven, in: Harmonium.