Giovanni Infelise


Arthur Rimbaud nella traduzione di Adriano Marchetti

Plus de mots
A. Rimbaud, Mauvais sang

In questo immenso campo di grano che è l’opera di Rimbaud, si può scegliere di essere umili ospiti di un frugale convito o lurchi parassiti delle sue messi.

Ciò detto ci approssimiamo al banchetto che la lettura delle due opere di Rimbaud – Illuminations e Une saison en enfer1– tradotte da Adriano Marchetti ci offre, non mostrando per ciò alcun compiacimento o virtù particolare nell’accettare da essa ciò che verrà.

E sì, perché volendo dar retta a La Rochefoucauld “le nostre virtù non sono il più delle volte che vizi mascherati”2, ancor più se intendono dissimulare l’orrore preservando per chissà quale spietata ragione necessaria, e senza alcuna cura per il dolore procurato, il cuore umano avvolto perennemente da un velo che la verità nasconde. Lo stesso Rimbaud ci dice d’altronde che “la vie est la farce à mener par tous” (Une saison en enfer, p. 42). E dunque non sono l’amore o l’amicizia, il bene o la giustizia a ispirare le nostre azioni e a dettare i nostri sentimenti, i nostri giudizi, ma sempre e soltanto l’amor proprio e l’interesse, malgrado i nostri ‘buoni propositi’.

La convinzione che ci anima trae nutrimento dal fatto che proprio su Rimbaud si sia perpetrata e tramandata nel tempo una sorta di ingiustizia, prima di tutto morale: “la morale – dice Rimbaud – est la faiblesse de la cervelle” (da Délires II, in Une saison en enfer, p. 82).
E dunque «solo la diserzione, forse, conta come virtù…» (Marchetti, Rapsodia selvaggia, p. X); parole che potremmo aggiungere, in un ideale percorso contrappuntistico, a quelle di Jean Cocteau poste in esergo a Rapsodia selvaggia e tratte da Le Livre Blanc che dicono, tra l’altro, «Le esperienze pericolose, la gente le accetta nel campo dell’arte perché non prende l’arte sul serio, ma le condanna nella vita». Ma allo stesso modo e con una valenza non dissimile si potrebbe dire, sempre con Cocteau, che «non si potrà impedire che certi fiori e certi frutti continuino ad essere odorati e mangiati solamente dai ricchi»3.

Non potendo e non volendo – per un elementare senso di coerenza con quanto detto ora – ripercorrere tappe e primati della critica, ci limiteremo sinteticamente a dire quanto la lettura di Rimbaud, alla luce della traduzione (esemplare e colta) di Adriano Marchetti, può suscitare nel lettore qualunque, raccogliendo l’invito ancora una volta di La Rochefoucauld – che suona quasi da monito – che «chi vive senza follia non è così saggio come crede»”4.

Dunque nessun tentativo di interrogarsi sulla o di interrogare la poesia di Rimbaud già resa, per questa ragione o pretesa, irriconoscibile, né d’altronde avere l’incoscienza di svelare alcunché del già noto e prezioso lavoro di Adriano Marchetti; ma semmai leggerla e ascoltarla, sussurrandone le rinnovate suggestioni. Così diremo, e pensando a ciò, quanto segue.

«Nessuna voce, nessuna coscienza, nessun amore: solo il dissolversi lento del corpo affranca dalla solitudine e dalla necessità di un senso: il corpo affranca dalla solitudine situandosi in luoghi inaccessibili all’interrogazione.
Ma io sono i miei pensieri! I pensieri sono l’esilio, poi l’oblio dell’esistenza, questa, ciò in cui non mi riconosco come vivente: sono l’urlo “mostruoso” che nessuno può o sa ascoltare.
La lucidità annulla e rende l’ignoto vacuo o banalmente oscuro. L’irrisolvibile conflitto tra la ragione e il sentimento delle cose non appartiene all’angelo nero della povertà, alla sua visionarietà, alla sua fallibilità, ma all’evanescenza del suo spirito ineguagliabile e ribelle.
Questo conflitto si estingue solo ricorrendo all’oscuramento di quelle facoltà che rendono pretestuosamente cògnita ogni realtà passata e presente: l’orrore è, prima di ogni cosa, esistenziale.
Dunque tanto la necessità di regole quanto il rifiuto delle stesse sorgono da una incoerenza nell’uso sia della parola sia del linguaggio.
Linguaggio sul quale solo le Illuminations di uno spirito dissoluto e volitivo possono agire rafforzandone la funzione e il senso non ascrivibile né ad una condotta morigerata né ad una cultura virtuosa, ma semmai all’esaltazione improvvisa, violenta e pura che lo spirito ha dinanzi ad un’immagine inaudita, dinanzi ad una visione non riconducibile semplicemente al côté oscuro di una memoria dolorosa o di una pur profonda visione e interrogazione del vissuto, ma ad un’insanabile dicotomia esistente nell’uso tra la parola e il suo significato, tra il linguaggio e la sua funzione espressiva.
Una divaricazione superabile, forse, con il ricorso ad un rovesciamento della prospettiva da cui si osserva il mondo e la poesia insorgere: la poesia porta su di sé il destino dell’essere in una forma che non abita in nessun luogo.
Non ci resta, allora, che denudare il corpo del linguaggio per poterlo accarezzare, non toccandolo, ma solo sfiorandolo quasi in un atto di seduzione che non ci lega ad esso ma che, anzi, da esso ci affranca quando lo stesso gesto si fa bisogno, necessità profonda di affermare (chiarendo) ogni nostro diritto all’unico atto che ci rende soggetti veramente liberi e poietici (figli di uno spirito creativo!): il silenzio, che è estraniazione, accoglimento di ciò che è altro da noi o che da noi si stacca per non farvi più ritorno.
Il linguaggio non svela alcuna verità, anzi, ne occulta sistematicamente il seme nel suo colore e nel suo suono, nel vano tentativo di assegnargli un’identità.
Come la creatività esso ha dunque bisogno di oblio, di silenzio e, al pari della coscienza, di agire come strumento di una percezione repentina in grado di inabissarsi e di risorgere interrompendo ogni continuità, di disegnare la possibilità di un universo profondamente differente e irriducibile».

Perché questa lettura in particolare suscita tali e sovrastanti suggestioni? Sì, d’accordo, si tratta pur sempre di Rimbaud, ma c’è dell’altro.

Nella sua traduzione e cura dell’opera di Rimbaud, Adriano Marchetti si fa porteur di quel sentire poetico originario colto interamente nelle cadenze ritmiche, nel valore semantico, in una percezione nitida dello stile, del colore, del gusto e dell’autentica intonazione dei versi del poeta francese, il quale non esita a dire di sé: «je suis un inventeur […]; un musicien même, qui ai trouvé quelque chose comme la clef de l’amour» (da Vies II, in Illuminations, p. 42).

Chanson de la plus haute tour Canzone della più alta torre

Qu’il vienne, qu’il vienne,              Venga, venga l’ora
Le temps dont on s’éprenne.         Che di sé c’innamora.

J’ai tant fait patience                    Ho avuto tanta pazienza
Qu’à jamais j’oublie.                     Che ho per sempre obliata.
Craintes et souffrances                Ansie e sofferenze
Aux cieux sont parties.                 Ognuna è in cielo dileguata.
Et la soif malsaine                       E la malsana sete
Obscurcit mes veines                  Oscura le mie vene.

Qu’il vienne, qu’il vienne,              Venga, venga l’ora
Le temps dont on s’éprenne.         Che di sé c’innamora.

Telle la prairie                             Come il prato
À l’oubli livrée,                             Lasciato all’oblio,
Grandie, et fleurie                        Cresciuto, e infiorato
D’encens et d’ivraies,                   D’incenso e loglio,
Au bourdon farouche                   Al feroce ronzio
Des sales mouches.                    Delle sudice mosche.

Qu’il vienne, qu’il vienne,              Venga, venga l’ora
Le temps dont on s’éprenne.         Che di sé c’innamora.

(da Une saison en enfer)

La traduzione di Marchetti fa chiarezza, mette in luce le difformità ingenerate nel tempo dal fraintendimento e dalla inavvedutezza di chi ha voluto ‘esercitarsi’ in tale impresa, in cui sovente «la main à plume vaut la main à charrue»” (da Mauvais sang, in Une saison en enfer, p. 24), come direbbe Rimbaud.

In altre parole ci si trova qui dinanzi ad una dolorosa armonia ritrovata. Sicuramente in questa traduzione ci si trova di fronte non solo ad un sapere consolidato in anni di frequentazione, ma anche alla dolcezza, alla com-passione nel riportare alla luce il dolore più acuto del poeta e dell’uomo Rimbaud.

Con la sua traduzione Marchetti ha reso in parte leggibile al lettore l’intelligibile, cioè a dire ciò che non può essere compreso, tradotto, conosciuto o anche solo percepito che con l’intelligenza e la sensibilità di uno spirito pervaso dall’incanto e dalla cura, con la cognizione, con la consapevolezza cioè di chi e che cosa si ha di fronte.

La lettura, questa lettura, è tuttavia un compito da assolvere in solitudine e nel pieno «dérèglement de tous les sens»5 o, se si preferisce, nella piena libertà dei sensi di deviare e di crearsi un accesso, di dissolversi a contatto con la materia in un eccesso a cui si intende dare un volto, fosse anche quello dell’inferno.

Dunque nessuna celebrazione né del fatto né del detto: Rimbaud non ha bisogno di essere ricordato ma, semmai, letto: questo è quanto sembra dirci Marchetti. Né rievocato né idolatrato, ma letto, ascoltato lontano da ogni pregiudizio e nequizia dell’animo per ciò che non si sa comprendere, lontano da qualsivoglia azione che confonda o prevarichi, che smentisca o affermi alcunché di ciò che Rimbaud è o dice; ascoltarlo, infine, in una radura lontana dove è vivo il clangore di lotte umane e disumane. O ascoltarlo nel silenzio della notte, dal lato in penombra dello spirito e del sentimento che non è semplicemente un ‘nome’, una ‘parola’, una ‘condizione’, ma un disporsi a braccia aperte ad accogliere il vento, la luce, il colore, quel «sottilissimo senso musicale» di cui ci parla Valéry (Rapsodia selvaggia, p. 26) o quella «musique savante [che] manque à notre désir» direbbe Rimbaud (da Conte, in Illuminations, p. 34); ad accogliere le tenebre e le intemperie dell’anima di questo poeta per non rivedersi «parmi les inconnus sans âge, sans sentiment…» (da Adieu, in Une saison en enfer, p. 100). Con una predisposizione d’animo, insomma, che ci renda capaci di sottrarci a quel desiderio di salvezza che fa di ogni esistenza un esercizio alla rassegnazione, all’ineluttabilità di un destino; che ci renda, in altre parole, liberi di poter accogliere, «de posséder la vérité dans une âme et un corps» (da Adieu, in Une saison en enfer, p. 104) differenti.

Parla Rimbaud:

Dans mon enfance, j’entends les racines de souffrance jetée à mon flanc; aujourd’hui elle a poussé au ciel, elle est bien plus forte que moi, elle me bat, me traîne, me jette à terre (da Mauvais sang, in Une saison en enfer, p. 108).

La rage du désespoir m’emporte contre tout [ :] la nature, les objets, moi, que je veux déchierer (da Fausse conversion, in Une saison en enfer, p. 112).

Mes parents ont fait mon malheur, et le leur, ce qui m’importe peu. On abusé de mon innocence (Ibid.).

[…] On n’est pas poète en enfer (Ibid.).

Aux heures d’amertume […] je suis maître du silence (da Enfance V, in Illuminations, p. 30).

Je ne pourrai jamais envoyer l’Amour par la fenêtre (da Phrases, in Illuminations, p. 54).

L’amour est à réinventer, on le sait (da Une saison en enfer, p. 54).

«Rimbaud non rifugge dalla contraddizione, anzi ne fa un nutrimento e non concede al proprio pensiero di allogarsi in alcun sistema, permettendo così alle parole di essere aperte al soffio dell’ignoto, a ciò che è sempre e ancora da pensare» (Marchetti, Une saison en enfer, p. 14). Sono parole che valgono un inizio, un respiro che ci fa vacillare e avanzare tra queste pagine ardue, consapevoli tuttavia dell’imprevedibilità, dell’illogicità che può aprirsi improvvisa dinanzi ai nostri occhi e lasciarci sconcertati.

E allora ad ognuno il piacere e il dolore di scoprire, respirando e vacillando, il proprio Rimbaud, ma salvaguardando quel Rimbaud che non appartiene a nessuno, neanche a se stesso.
Una puntualizzazione a parte meritano le Note poste solo tipograficamente a ‘margine’ del lavoro di traduzione delle poesie e delle prose (Une saison en enfer), delle poesie in prosa e in versi liberi (Illuminations).

Queste Note, queste postille o codicilli, assimilano Marchetti traduttore-curatore-scrittore ad un coreuta. Egli indica, chiarisce, esegue i passaggi più delicati alla stregua della figura classica del cantore, fornisce informazioni volte a perfezionare e a rendere più fruibile la traduzione e dunque la ‘lettura’ (l’assunzione) delle opere rimbaudiane. In analogia con detto coreuta Marchetti rende oltre che corretta l’esecuzione del suo lavoro, più profonda, più raffinata e completa possibile la comprensione della genesi dei testi nella loro totalità e complessità. Dette note, ed è riduttivo definirle tali, sono nel loro insieme un commento ben articolato che Marchetti sa obbligatorio, necessario per sé e per il lettore oltre che intellettualmente onesto, che mette tra l’altro in luce un Marchetti accurato lettore di una scrittura già incontrata e ‘sofferta’ nel passato, che ne fa ancor più oggi un puntiglioso e analitico conoscitore, costante frequentatore non solo del poeta, ma anche della sofferenza dell’uomo Rimbaud.

Anche il volume Rapsodia selvaggia non sfugge, per così dire, alla necessità di qualche brevissima parola, non fosse altro che per la natura e la destinazione differente dei suoi contenuti, ma assolutamente organica ai due volumi Illuminations e Une saison en enfer.

È un’opera che raccoglie scritti su Rimbaud di artisti e saggisti francesi illustri a partire da Verlaine, attraverso Gide, Thibaudet, Blanchot, Char, Nancy per citarne solo alcuni, che ogni lettore avrà tuttavia il piacere di scoprire da sé, di scoprire da sé questa letteratura esemplare e quanto altrettanto esemplare e armonica sia stata la scelta di questi interpreti da parte di Adriano Marchetti.

A noi riserviamo un piccolissimo piacere nell’accennare volutamente ed esclusivamente al titolo di per sé introduttivo a quanto si legge sfogliando questa crestomazia, ciò che di utile, per il lettore di Rimbaud, è in essa racchiuso.

Questa crestomazia ha anche come finalità, e usiamo le parole del suo estensore, di “risalire per larghe arcate la storia delle interpretazioni per liberare il detto dalle letture e approssimarsi alla sua essenza che non può essere vincolata dai dati” e questo perché, continua, «la pretesa obiettività filologica non è meno grave di pregiudizi» (Marchetti, Rapsodia selvaggia, p. X).

Diremo allora che Rapsodia selvaggia vede Marchetti esprimersi anche attraverso l’arte del ‘rapsodo’, che cuce, riannoda le fila di un pensiero composito e complesso. In un certo senso questa raccolta ha forse lo scopo principale di far parlare, in una più alta e necessariamente paradigmatica forma, scritture esemplari, quasi, a loro volta, composizioni con un unico movimento tuttavia libero e variegato. Composizioni sorte dall’osservazione di un ‘luogo’ dove dimora il ‘selvaggio’ nella duplice accezione: di terreno impervio o desolato. Proprio come nella ‘rapsodia’ la scelta qui operata non segue uno schema fisso, ma si presenta semmai come un insieme di spunti ‘melodici’ (critici) anche sostanzialmente diversi tra loro per la profondità e la prospettiva di un pensiero, di volta in volta, correttamente articolato, oltre che per una scelta ‘armonica’ del curatore tra le varie prospettive di lettura che la critica ha offerto e offre dell’opera di Rimbaud. È questo un libro, insomma, che potrebbe essere letto come una sequenza di diversi orizzonti interpretativi in perfetto equilibrio tra loro che indicano il ‘movimento’, i ‘colori’ e le ‘tonalità’ di un cielo in grado di attraversare epoche diverse mantenendo intatta quell’aura che fa di Rimbaud oltre che un poeta, un uomo da ascoltare; un uomo che non potrà mai “enterrer” la sua “imagination” e i suoi “souvenirs” e condannarsi semplicemente ad esistere (v. Adieu, in Une saison en enfer, p. 100 e 102).

È questo di Marchetti un lavoro sicuramente necessario alla letteratura, ma indispensabile ai silenti amici di Rimbaud, perché «Qu’il vienne, qu’il vienne, | Le temps dont on s’éprenne».

«La forza del delirio, che percuote senza sosta l’instancabile ricerca di verità, sta forse nel porre la plausibilità della vita tra morte e libertà. Nello spingere a scegliere di porsi rispetto ad essa in un estatico e furioso equilibrio tra l’essere sopraffatti dalla disperazione e dall’abbandono e il lasciare che quella verità si autorappresenti in tutta la sua irruenza e ambivalenza, in quella stessa equivocità che segna inesorabilmente le stagioni di un sentimento che non accetta l’ineluttabilità del destino e la banalizzazione.
Non basta denudare il corpo della verità, ma è vitale accoglierlo poeticamente in quel luogo di solitudine che infrange, al di sopra e al di sotto di ogni obbligo ‘lecito’ e ‘moralmente virtuoso’, qualsivoglia forma di restrizione in grado di rendere invisibile la sua drammatica desolazione e bellezza, il suo essere ‘altro’ al di là di ogni colpa o sentimento, al di là di ogni deserto dell’anima o oblio».

 

Note

1 A. Rimbaud, Illuminations/Illuminazioni, a cura di A. Marchetti, Villa Verucchio (RN), Pazzini, 2006; A. Rimbaud, Une saison en enfer/Una stagione all’inferno, a cura di A. Marchetti, Villa Verucchio (RN), Pazzini, 2009. A corredo critico delle due raccolte poetiche si aggiunge Rapsodia selvaggia: interpreti francesi di Rimbaud, a cura di A. Marchetti, Villa Verucchio (RN), Pazzini, 2008.
2 F. de La Rochefoucauld, L’umana doppiezza, Milano, Mondadori, 1995, p. 25.
3 J. Cocteau, Il libro bianco, Milano, ES, 2006, p. 44.
4 F. de La Rochefoucauld, Op. cit., 51.
5 Da una lettera di Rimbaud a Georges Izambard (Charleville, 13 maggio 1871), in A. Rimbaud, Opere complete, Torino, Einaudi-Gallimard, 1992, p. 126.

 

Nota redazionale

Citiamo a completamento delle più recenti ricerche su Rimbaud il saggio e la traduzione di Marica Larocchi, “Luogo e formula – per una lettura d’Illuminations di Arthur Rimbaud”, Manni ed., Lecce 2009